Un testimone di molti tempi, un viaggiatore, un grande songwriter, un esploratore infaticabile, Eric Andersen si è sempre trovato nel luogo giusto: il Village, Woodstock, la Rolling Thunder, insieme a Janis Joplin e a Joni Mitchell, accanto a Bob Dylan o a Lou Reed, come se avesse prenotato un posto da osservatore privilegiato. In realtà è stato a sua volta un protagonista assoluto, capace di assorbire una quantità spropositata di bellezza in forma di romanzi, canzoni, viaggi e poesie, album in omaggio a Byron, García Lorca, Heinrich Böll e molto altro ancora. In Mingle With The Universe li racconta confidandosi a un manipolo di amici italiani (e americani) che hanno libero accesso alle sue passioni, e spesso le hanno condivise in un modo o nell’altro. In cima alla lista, Marco Fazzini e Robert Jacksie Saetti sono in realtà i cardini di una moltitudine di autori (Giorgio Checchin, Anthony DeCurtis, Barbara Di Dio, Gregory Dowling, Michele Gazich, Ian MacFayden, Stephen Petrus, Paolo Vites) che rincorrono Eric Andersen nelle sue odissee e seguono i non pochi fantasmi lungo la strada. È così che Mingle With The Universe è un caloroso omaggio a Eric Andersen, ma anche e soprattutto alla sua curiosità, emanazione diretta della stessa fame di arte & meraviglia dell’amica Patti Smith, ma convogliata con un entusiasmo immediato, diretto e contagioso. Eric Andersen è un raro esempio di artista che coltiva la cultura senza sosta ed è insaziabile nel procurarsi il pane quotidiano. Nelle pagine di Mingle With The Universe la sua attitudine è esplorata con lo stesso entusiasmo e nella lunga ed esaustiva intervista introduttiva, viene descritta la sua dedizione alla letteratura (“I grandi scrittori per me sono come angeli protettori, angeli posati su una spalla a controllare che il lavoro sia ben fatto. Non si tenta mai di imitare i propri eroi. Ti stanno solo accanto, e controllano che ci proceda, che non si finisca in acque basse o nel cliché di pensiero e immagine. Ti dicono che non sei solo. E ti incoraggiano”), l’ammirazione per i sogni e le strade della Beat Generation (“L’eredità dei Beat sta nel fatto che hanno introdotto gli americani, e la gente d’ogni parte, a un nuovo modo di pensare e di vedere, offrendo una alternativa e un modo libero di esistere, facendo respirare la vita, goderla, esserci dentro”), l’afflato verso la scrittura e la lettura (“I libri sono come delle finestre sacre verso mondi sconosciuti”) e le dissertazioni sulle magie del songwriting (“Forse le canzoni non hanno un’origine nel reale. Forse fluttuano solamente nelle nubi, e aspettano di essere tirate fuori dall’aria sottile”). Non a caso il centro di Mingle With The Universe è occupato da una selezione di quelli che chiama i suoi “documentari interiori”, ovvero le canzoni che, secondo l’illustre parere di Anthony DeCurtis, “senza tener conto dei suoi diversi soggetti, sembra aver scritto da un luogo profondo dentro se stesso”. Forse, tra i tanti indizi autobiografici, vale la pena ricordare che in Time Run Like a Freight Train celebrava “il poeta che aveva impegnato il suo mistero per un poco di sollievo”. È il segnale di un cerchio che si chiude da quando i suoi eroi “erano quegli spiriti ribelli e senza restrizioni che stavano scrivendo di una vita oltre l’ovvio, e che potessero demolire barriere”. Se c’è un senso nella ricca e composita formazione di Mingle With The Universe è proprio quello: è schierato in senso univoco (ma come si fa a non essere di parte con uno che ha scritto Blue River?) ed essendo bilingue, bisogna dire che è un labour of love come ce ne sono pochi e rende a Eric Andersen quel tanto di giustizia poetica che si meritava, da almeno mezzo secolo.
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