martedì 5 settembre 2023

Francesca Cerutti

Milano è “una città di giardini segreti dietro portoni di legno e citofoni di ottone tirati a lucido, con numeri al posto dei cognomi”. Questa collocazione suggerisce già la condizione generale in cui si muovono i personaggi di Pretendi un amore che non pretende niente, avvolti, proprio come le vie in cui si muovono di “una bellezza discreta e travolgente al tempo stesso”. È tutto sospeso nella fragilità di quella zona chiaroscura tra l’adolescenza e a un tempo imprecisato che scarnifica i giorni e riduce al minimo i rapporti. Il più delle volte l’età adulta è un passaggio ancora da compiere, che si porta dietro i resti di incontri, separazioni, partenze e ritorni. Si chiamano di Irene e Viola, Elisa, Niccolò, Giorgia, Margherita, Luca, Gaia, Claudia, Diego e Riccardo, non sono volti difficili da immaginare, e cercano di districarsi nella ragnatela concentrica di Milano, ma soprattutto vengono colti nell’elaborare la distanza con l’altro e/o l’altra perché come giustamente dice la protagonista di Ci sono notti, “cercare una persona e pensarla sono due cose diverse”. In modi diversi e, proprio per questo, narrati con un differente abito, si trovano tutti in mezzo a un guado: piove ma c’è il sole, ci sono i Radiohead e Dino Buzzati, i fari degli aerei e i riflessi nei finestrini del tram (onnipresenti, e scandiscono il ritmo con la loro tabella di marcia, incidenti compresi), le cornici sfuggenti dei sogni e dei ricordi, albe e tramonti e, ancora, gli angoli e le ombre di una Milano notturna, dolce, segreta che adesso bisogna cercare con una lanterna magica e con molta fortuna. La ricerca della giusta tonalità di luce, compreso l’omonimo racconto, è continua, ma non è una semplice decorazione: c’è una rarefazione delle immagini che riesce a definire legami fugaci vissuti quasi in una dimensione lattiginosa, sfuggente, comune a tutti i racconti di Pretendi un amore che non pretende niente. L’atmosfera generale è un sipario ondeggiante e ingannevole, che si contrappone alla precisa delimitazione nel recinto nelle circonvallazioni, come se gli aspetti emotivi avessero assorbito l’ininterrotto movimento della città. È proprio lì che Francesca Cerutti prova a tessere i delicati fili che intrecciano le storie d’amore e d’amicizia. Sono trame molto fragili, pronte a incrinarsi per un gesto, un silenzio, una frase, corpi che si sfiorano, promesse che svaniscono. La grazia della scrittura, una leggerezza che riesce a mantenere l’equilibrio in tutti i cambi di registro, rende le storie piccole, fedeli istantanee dei nostri tempi, dove per essere abbandonati basta un messaggio digitale, e tanti saluti. La scrittura appare una soglia da varcare o un appiglio, come succede in Una nuova insubordinazione, forse è proprio la “piccola ribellione” di Salinger, spiritual guidance di Pretendi un amore che non pretende niente nel suo complesso. Setacciare le parole, pronunciate o (spesso) non, riporta alle prime avventure in nome dell’amore e dell’amicizia, alle scoperte e ai drammi dei giorni di scuola ormai ridimensionati, ai tentennanti passi tra la zavorra dei rimpianti e l’incombere del futuro e, per parafrasare la stessa Francesca Cerutti in Un presente diverso, diventa “qualcosa di indefinito e bello”. Un po’ come Milano, un po’ come chi affronta la scrittura con cautela, sbirciando negli androni. La sorpresa potrebbe essere lì dietro, attendiamo sviluppi.

martedì 25 luglio 2023

Patrizio Paccioni, Daniela Morandini

La scrittrice croata Dubravka Ugrešić diceva: “È una questione di mondi paralleli. Il nostro mondo, sia reale che mentale, è l’intreccio di una fitta rete di altri mondi che scorrono paralleli. È così che viviamo la nostra piccola vita. Ognuno va per la sua strada. Se solo per un attimo ci mettessimo a pensare che esistono dei passaggi tra i mondi paralleli, sarebbe il caos. Ecco perché, almeno per quel che riguarda la circolazione dei pensieri, maneggiamo le metafore. Per difenderci dalla confusione”. Il messaggio era contenuto nella Cartolina estiva, resoconto del suo approdo all’Isola Calva alias Goli Otok, un tempo terribile gulag del regime di Tito, e sembra valere alla perfezione anche per i personaggi di Zastava 999. Sulla stessa spiaggia della costa adriatica arrivano Riccardo e Milena, una coppia di italiani ormai al capolinea sia della vacanza che del loro legame. Abbandonati da loro traghettatore, trovano ospitalità in un malandato ristorante gestito dai resti di una famiglia che Daniela Morandini presenta così nella prefazione: “Darko, Katica e Goran sono figli di una generazione di dolore e di guerra, di peccati e soprusi, di una maledizione eterna quanto la storia stessa dell’umanità. Riccardo e Milena sono due turisti ignavi e inconsapevoli, distanti dalla storia quanto sono distanti da se stessi, emblema della voragine consumistica che con la sua voracità annienta e annerisce ciò che incontra”. Il piccolo naufragio e il grande, violento gorgo della storia si scontrano subito perché come scriveva Claudio Magris in Alla cieca: “Il pozzo è profondo, il secchio è pesante, ricade giù e se ci si sporge per trattenerlo si può cadere con lui”. Seduti attorno a un tavola imbandita Riccardo e Milena, Darko e Katica si trovano ai quattro angoli e ben presto le traiettorie delle loro esistenze si incrociano in mille scintille. Riccardo è il primo a compiere un passo falso: “E allora, quando s’ingoia un boccone amaro e non si riesce a digerirlo, l’unica cosa che resta da fare è vomitarlo fuori. Liberati, amico mio, raccontami qualcosa dei tuoi orrori: hai trovato in me uno che ti ascolterà con il massimo interesse”. Qui saltano un po’ i parametri perché l’evocazione dei fantasmi non tiene conto della distanza e della prospettiva e per Darko che ha vissuto tutte le ferite balcaniche la risposta è lapidaria: “C’è la guerra raccontata dai libri di storia, che elenca in dettaglio le manovre delle truppe messe in campo, come se ogni battaglia fosse una partita a scacchi tra generali avversari, anziché un’orrida mattanza. C’è la guerra della retorica, delle fanfare, dei vessilli che garriscono al vento e dei proclami che incitano i soldati all’eroismo, esaltando l’amor di patria. E poi c’è la guerra vera, lorda di fango e di sangue, disseminata di morti e mutilata, condita di stupri, gridi di rabbia, di paura e di dolore”. Gli spettri di Vukovar e i lamenti di Goran, suo padre, che sta morendo in un’altra stanza, prigioniero del campo di concentramento. Nella drammaturgia di Patrizio Pacioni il monologo di Darko, spezzato soltanto dagli interventi degli altri commensali, porta in meandri contorti perché “la guerra è un mutaforma mai uguale a se stesso. Una massa oscura che cambia aspetto a seconda dell’angolazione da cui la si guarda”. Le rivelazioni sono inquietanti e pericolose finché Darko sfoggia un’arma, la Zastava 999, del titolo carica, perché “una pistola scarica è solo un giocattolo, e i giocattoli sono roba da bambini” ma che per l’occasione è “solo un supporto visivo utile a rendere più suggestivo il racconto”. La tensione diventa palpabile, insieme alla deviazione di Darko che dice: “Mi chiedo come sia possibile che non si rendano conto che ogni giorno la vita ci spara addosso proiettili ben più mortali di quelli che possono uscire dalla canna di una Zastava”. L’epilogo è temibile e conferma quello che diceva lo scrittore bosniaco Dževad Karahasan: “Noi possiamo sopravvivere solo in forme di esistenza culturali”. Le ombre rimangono tutte, il sipario è un sollievo.

lunedì 17 luglio 2023

Gianni Del Savio

Un carattere indefinibile e turbolento e per molti versi rivoluzionario: indomita nella scelte, coraggiosa nelle soluzioni, caparbia sempre. Nina Simone non è stata soltanto una musicista eccelsa (senza ombra di dubbio), capace di comprendere un’era, e anche la sua dissoluzione, ma una protagonista a tutto tondo di un’esistenza di contrasti in lotta per un’identità. Nel cercare di rendere immediato un profilo piuttosto complesso, sia da un punto di vista artistico che umano, Gianni Del Savio ha scelto di collocare Nina Simone dentro i suoi tempi, ovvero la seconda metà del ventesimo secolo con un ritratto puntuale, rigoroso e nello stesso tempo pregevole nella sua linearità. La biografia ben ordinata in ordine cronologico e sviluppata cercando di appurare ogni singolo dettaglio (compresa una corposa bibliografia e tutte le colonne sonore) e in ogni prospettiva possibile riesce nell’intento di riassumere le difficoltà dell’esistenza di Nina Simone così come la ricchezza delle canzoni e delle interpretazioni e la sua appartenenza a un movimento tellurico indispensabile, nei legami con Langston Hughes, James Baldwin, Angela Davis, Miriam Makeba, i Last Poets e Bob Dylan. Una moltitudine di personaggi che gravitano nell’orbita della Simone, la cui sensibilità resta la nota più squillante di tutta la biografia. Molta attenzione è dedicata alla musica, alle performance, e ai dischi che Gianni Del Savio racconta nello specifico, come se fossero tasselli di un quadro ben più ampio che comprende anche l’intricata realtà personale di Nina Simone. Quello che Maya Angelou definiva “l’eterno enigma artistico” viene narrato attraverso l’analisi delle canzoni più importanti (Backlash Blues, Mississippi Goddam, To Be Young Gifted and Black, tra le altre), il racconto di episodi e aneddoti singolari dal vivo, nonché la gestazione delle incisioni e dei rapporti con l’industria discografica, note dolenti comprese. Costretta a convivere con quello che Gianni Del Savio definisce “un cocktail psicologico e comportamentale, il suo, che la seguirà fino alla fine dei suoi giorni”, Nina Simone sarà protagonista di conflitti e sofferenze, spesso determinanti. Il clima e le pressioni che ha dovuto affrontare non l’hanno di sicuro aiutata e in questo “la storia musicale e politica” assemblata da Gianni Del Savio ne tiene conto, riuscendo nell’impresa di sintetizzare Stokely Carmichael, Malcolm X e Martin Luther King, marce e sommosse, l’Africa e l’Europa, complotti e fughe con le vicende personali e famigliari di Nina Simone. I drammi vanno progressivamente coincidendo su un piano inclinato che Gianni Del Savio segnala a partire dagli anni settanta. È quando Nina Simone dice che “l’America che avevo sognato durante gli sessanta ora sembrava un brutto scherzo, con Nixon alla Casa Bianca e la rivoluzione nera rimpiazzata dalla disco”, che si comprende la statura del personaggio, la sua specificità artistica, la forza e il coraggio che spese per un’emancipazione reclamata, agognata, combattuta. È così che la definizione migliore di Nina Simone, come forse era inevitabile, si trova nei primi versi di una delle sue canzoni più sentite, Wish I Knew How It Would Feel to Be Free: “Vorrei sapere come ci si sente a essere liberi, vorrei poter spezzare tutte le catene che mi avvincono, vorrei poter dire tutte le cose che mi piacerebbe dire, dirle ad alta voce, dirle con chiarezza, perché il mondo intero possa sentirle”. L’ha fatto per tutta vita.

martedì 6 giugno 2023

Claudio Magris

Nel momento del passaggio di fine millennio, Claudio Magris a raccoglie un corposo elenco di riflessioni che si dipanano a partire da una delle più sentite e accorate apologie mai viste sulla e per la letteratura, che è intesa anche come  “un’analisi del trascorrere di sentimenti e passioni, di quel processo continuo e ambivalente in cui un sentimento sfuma in un altro contiguo, sino talora a capovolgersi in un sentimento opposto, anche in questo caso, si tratta di un valico di frontiere, della scoperta della loro necessità e insieme precarietà”. Utopia e disincanto non sono in contraddizione: per Claudio Magris “la speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto” e, come conseguenza diretta, sa che “dietro le cose così come sono c’è anche una promessa, l’esigenza di come dovrebbero essere; c’è la potenzialità di un’altra realtà, che preme per venire alla luce, come la farfalla nella crisalide”. La svolta della fine del ventunesimo secolo, i pericoli della “razionalizzazione”, il senso che “nessuna apocalisse ci conforta, soli con la nostra morte e la nostra paura” sono i temi dietro  un flusso costante di rimandi e di citazioni, quasi un ordito da intravedere passo dopo passo. Claudio Magris ha una straordinaria capacità di attribuire un valore specifico a ogni romanzo (Oblomov) o autore (Borges, un epitaffio che è anche un ritratto): Utopia e disincanto è una continua elaborazione delle possibilità e delle funzioni della letteratura che “predilige i tempi di crisi e di transizione, nei quali si compiace di vivere” e viene resa esplicita, di volta in volta, attraverso le letture di Ivo Andrić, Primo Levi, Thomas Mann, Ippolito Nievo, con la consapevolezza che “fin dal più grande dei libri, l’Odissea, la letteratura è un viaggio nella vita” e allora “anche l’accettazione dei limiti, che spesso offende l’esigenza di un riscatto totale della vita, può essere, talora, una prova di responsabilità, un sacrificio che evita mali peggiori”. Il percorso tra Utopia e disincanto prevede di incontrare “città che si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi”. È da lì che le storie speranze e illusioni del moderno devono trovare una destinazione e Claudio Magris si premura di avvisare che “ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza. La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale”. L’associazione con la letteratura è spontanea perché “è di per se stessa una frontiera e una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione. Ogni espressione letteraria, ogni forma è una soglia, una zona sul limitare di innumerevoli elementi, tensioni e movimenti diversi”. È la ricerca di un significato e “la peripezia in un microcosmo ha senso solo se in esso s’incontra, sotto le spoglie anche più inappariscenti, come un re nei panni di un mendicante, qualcosa di grande, che non appartiene solo a quell’orizzonte limitato”. Ogni pagina di Utopia e disincanto ci ricorda che “cultura significa sempre pensare e sentire in grande, avere il senso dell’unità al di sopra delle differenze, rendersi conto che l’amore per il paesaggio che si vede dalla propria finestra è vivo solo se si apre al confronto col mondo, se si inserisce spontaneamente in una realtà più grande, come l’onda nel mare e l’albero nel bosco”. Da leggere e rileggere spesso, senza aspettare la fine di un altro secolo.