lunedì 18 luglio 2022

Massimiliano Barulli

Nel 2005, Peter Gabriel ha accompagnato il figlio a vedere lo show dei Musical Box, un gruppo che riproduce alla perfezione i concerti dei Genesis d’antan. A tutti gli effetti, è l’unico modo per viaggiare nel tempo e riscoprire il valore di intuizioni, esplorazioni ed emozioni ormai sfumate per sempre. È su questa leva, una complessa miscela tra la nostalgia e “una sorta di senso di appartenenza”, come scrive Massimiliano Barulli, che fa forza il fenomeno delle cover e, ancora di più, delle tribute band, che ha avuto particolare fortuna in Italia. In sintesi, le tribute band sono quelle che dedicano uno show uniforme al repertorio di un singolo artista, con un’evoluzione specifica negli impersonator che riproducono nei minimi dettagli il personaggio di riferimento. Le cover band, invece, interpretando canzoni altrui propongono uno spettacolo più variegato, ma senza scoprire nulla di nuovo. Entrambe le categorie si rifanno a quella che Massimiliano Barulli chiama L’arte di imitare, sfruttando i risultati degli sforzi altrui, e se il limite creativo è evidente, la loro proliferazione è tale da suscitare molti interrogativi. Gli estremi possono condensarsi nel fatto che “un tributo maniacalmente fedele può dare, tuttavia, la sensazione di una recita a soggetto o di una rappresentazione teatrale” o che, in un modo o nell’altro, si tratti comunque di condividere un’emozione come dice come dice Matteo Fiorini, chitarrista degli Stupendo, un gruppo dedicato a Vasco Rossi: “Se ti piace quello che fai lo fai piacere anche agli altri; se non ti emozioni, se non ti piace quello che fai al pubblico non arriva niente”. Massimiliano Barulli esplora tutte le condizioni che definiscono le cover e le tribute band con testimonianze dirette raccolte non solo tra i musicisti, ma anche conversando con promoter, direttori artistici, giornalisti. Molte sfumature sono accennate perché ci vorrebbe una serie di digressioni a parte, ma Massimiliano Barulli riesce nell’intento di offrire un quadro completo ed esaustivo. Il punto di partenza è che “la tribute band nata dalla passione per l’artista replicato è formata principalmente da fan che si pongono come obiettivo quello di rendergli omaggio, cercando di ottenere un livello qualitativo più alto possibile. In questo caso, il movente non è quello economico, ma principalmente la celebrazione dell’artista, messa in scena da fan per altri fan”. È quello che ribadiscono a ogni concerto, per esempio, gli Achtung Babies, uno dei primi tributi agli U2 e oggi una solida realtà che concentra tutte (o quasi) le opzioni e le contraddizioni del caso. Anche perché la riproduzione estremamente fedele e scrupolosa del repertorio degli U2 cha costituito infine un ambito professionale a cui dedicarsi a tempo pieno, a differenza dei cosiddetti “weekend warrior”, ovvero dei dilettanti. In più, L’arte di imitare esplora le tribute band al femminile, il ruolo dell’abbigliamento e dei costumi, persino delle tonalità delle canzoni e di ogni altro dettaglio teso a rendere verosimile e credibile il simulacro, che, come ne caso di Peter Gabriel, il più delle volte appartiene a un tempo perduto. La conclusione è che “il passato viene sempre più riproposto nell’attuale società contemporanea al punto da concedere largo spazio a forme d’intrattenimento basate sulla sua replica in ogni forma possibile. Solo comprendendo questa retromania come parte rilevante dell’odierno panorama della musica di massa è possibile considerare le tribute band come elementi non secondari dell’attuale scena musicale e sociale italiana”. Massimiliano Barulli la riporta in quella che definisce giustamente “un’istantanea della storia e della situazione attuale delle tribute band in Italia, in gran parte attraverso le parole dei suoi protagonisti”, ed è vero, ma a dispetto del suo titolo, L’arte di imitare è un lavoro molto originale, e molto utile.

martedì 12 luglio 2022

Nicola Gervasini

Bisogna ammettere che Diana Palmieri, la protagonista che interpreta a modo suo Il paradosso di Ippocrate, ha un’aura insopportabile. È avvenente, è la prima della classe, è la ragazza che sapeva con estrema chiarezza dove voleva arrivare, e ci è arrivata. Ascolta solo musica classica, ma la sua vera passione sono i valori tradizionali: la famiglia, il lavoro (è una pediatra), fine dell’elenco. Quando scopre un biglietto con intenti predatori che risale agli anni dell’università, decide di indagare, ma ben presto si ritrova coinvolta in un’intricatissima congiura di potere all’interno dell’industria farmaceutica, dove, come è noto, lo spirito della ricerca e del servizio è in costante attrito con quello del profitto. Con Il paradosso di Ippocrate non c’è da stare tranquilli: le mutazioni sono dietro l’angolo, niente è definitivo, solido, concreto. La realtà, agli occhi dei suoi protagonisti, anche di quelli di Diana Palmieri, non è mai così come appare, ma piuttosto come se la immaginano nelle loro ambizioni. Questo vale soprattutto per i manager, qui particolarmente infidi, che a vario titolo si contendono i posti di comando, con sotterfugi e segreti coltivati con estrema cura. L’ingarbugliato gioco di ruolo sposta il livello dal romanzo, con una spinta moralista che ha pure una sua logica, dove il termine di paragone non è soltanto l’onnipresente e onnipotente “mercato”.  Il paradosso di Ippocrate mostra, senza troppe esitazioni, che l’impalcatura economica non è retta, come tutti gli indicatori dovrebbero sostenere, da rigorose posizioni analitiche, ma da volubili espressioni caratteriali, mentre il danno “viene dalla cattiva amministrazione della cosa pubblica, dalle aziende senza scrupoli che lucrano sulla nostra missione, dagli imbroglioni che non hanno nessuna remora a mettere in pericolo la salute e la vita delle persone per il loro guadagno”. Niente da eccepire e, in questo, la vera valuta di scambio è la fiducia ed è qui che si affronta il livello più approfondito, perché Il paradosso di Ippocrate tende ad aggirare gli schemi e a rivelarsi come una matrioska che, un colpo di scena dopo l’altro, plasma i personaggi. La trasformazione tocca Diana quanto il suo volitivo alter ego, Donita, le maschere cedono in rapida sequenza via via che i contorni noir, compresi due omicidi, avvolgono Il paradosso di Ippocrate. La metamorfosi più evidente la subisce proprio Diana Palmieri che, senza volerlo, si ritrova al centro di un’asfissiante nebulosa di forme di potere, diventando a sua volta protagonista degli eventi. I cambiamenti sono radicali, il complotto non diventa mai chiaro (e questo è forse il significato ultimo del romanzo di Nicola Gervasini) e i nodi costituiscono il senso della trama ed è impossibile svelare di più. Molto si svolge al Superunknown, un locale che prende il nome da un album dei Soundgarden e così Nicola Gervasini passa dagli anni ottanta di Musical 80, il precedente romanzo, agli anni novanta però visti attraverso una lente deformata, quella dei Nirvana, del grunge e dei suoi accoliti. Il paradosso di Ippocrate è aperto, in ogni suo capitolo, da una citazione di una canzone di quel periodo, forse a ricordare cosa paghiamo per “le nostre moderne esigenze”, come cantavano i Pearl Jam.