martedì 23 ottobre 2018

Francesco Guccini

C’è una continuità nelle canzoni di Francesco Guccini che lascia intendere un percorso nitido, convinto nel mostrare “l’aspirazione a essere altro”, a suo agio anche senza l’ausilio delle parti musicali. La selezione critica assemblata da Gabriella Fenocchio insegue e dipana proprio questo filo rosso perché è “una parola, quella del Guccini autore in versi, che nell’escursione dei registri linguistici, come pure nel travestimento feriale delle questioni supreme della vita, richiama il lettore a deporre la presunzione di formule definitive, riconducendolo alla parzialità di un punto di vista prima o poi destinato a essere smentito. E a questo mandato provvisorio assegnato alla parola, che si fa tutt’uno con una profonda dimensione etica, va forse ricondotta anche la multiforme e stratificata intertestualità letteraria che un’osservazione ravvicinata dei componimenti porta alla luce”. Da Borges a Montale, dai poemi epici al dialetto appenninico, i riferimenti sono sterminati, anche ne nascosti nel costante flusso autobiografico, che fa pensare, a “un autoritratto in minore venato dalla malinconia di chi, a sua volta depredato di utopie, si interroga sulla propria identità”. È uno spunto che nasce dalla Canzone delle osterie di fuori porta, che si può ben assumere come manifesto all’introduzione dei luoghi di Guccini: l’America e l’Argentina, Bisanzio e le scoperte di Gulliver tra quelli lontani e leggendari, le tappe più prosaiche in Autogrill e poi la concretezza della toponomastica della Piccola città, di Via Paolo Fabbri 43 e di Bologna tout court, Modena e Pavana. Se i luoghi sono frutto di “un’adesione alle radici di certo più sentita che capita”, le onnipresenti osterie assumono l’aspetto di un angolo sicuro, di un rifugio e di un eterno punto di partenza perché come dice Canzone dei dodici mesi: “E col venire del maggio e con l’andar del dicembre, il libro di nostra esistenza lentamente tutto si sfoglia. Vino bevi e di nulla ti cura ché il saggio già disse: la pena del mondo è veleno, e vino l’antidoto buono”. Canzone dopo canzone, prende forma “una sorta di film muto, dove la parola si inabissa rivelando forse la propria inadeguatezza a comunicare i pensieri, le passioni, gli enigmi che pervadono vite diverse e, alla fine, sempre irriducibili l’una all’altra”: è una percezione particolare del songbook gucciniano, ma molto efficace perché come scrive ancora Gabriella Bellocchio “del resto, la vocazione dello scrittore al dubbio, all’antidogmatismo programmatico, al sentimento costante del provvisorio, non permette mai che un’intenzione definitoria risuoni nelle sue pronunce. Allo stesso modo in cui le cose, gli accadimenti della vita, i momenti fondamentali dell’esistenza, sono sempre pronti a tradire significati opposti a quelli che rendono manifesti, anche le parole che li rappresentano si portano dietro il sospetto dell’incompiutezza, quando non della voragine di insignificanza che può aprirsi dentro di loro”. L’analisi della metrica, l’esegesi dei versi e l’interpretazione dei registri sono le componenti di una cornice molto accurata e meticolosa che non toglie nulla alla genuina irruenza delle canzoni. Aiutano piuttosto a individuare quel continuum che non risiede nell’immagine inamovibile dell’Eskimo, ma piuttosto in un’etica della parola in grado di “accendere la speranza che la discrezione e la coerenza possano essere qualcosa di diverso dall’utopia”. Allora vale, su tutto, la strofa inedita di Dio è morto, recuperata dal manoscritto originale, compreso nel prezzo di Canzoni: “Ho visto la gente migliore della mia generazione, nelle strade di automobili, morire sull’asfalto, morire nel cemento, sparire nelle notti, non credere all’amore, non credere più a niente, perché la civiltà di macchine, ha divorato tutto, non abbiamo più regole, per ciò che è dritto o storto, 21 pollici a rate, hanno cambiato il mondo”. Profetico.

martedì 16 ottobre 2018

Gianni Celati

Per circoscrivere le perplessità filosofiche di fronte e/o dentro alle apparenze, Gianni Celati ha scelto una forma singolare, ingaggiando una lotta con la struttura e con il tempo per permettere alle quattro novelle di trovare la giusta collocazione. Un lavoro di misura, pazienza, attenzione e meticolosità, visto che lo stesso Gianni Celati diceva: “Il fatto è che scrivendo pezzetti sparsi come faccio io, diventa poi molto difficile dare il senso del racconto continuo e completo. Il racconto, la short story sono un genere che ha delle regole molto strette. Il lettore deve arrivare alla fine con l’impressione che tutti i nodi narrativi siano sciolti”. Lo stile è persuasivo: fin da Baratto ci si accorge che, nelle Quattro novelle sull’apparenza, le trame sono funzionali a una riflessione più ricercata, che filtra attraverso l’arguta espressione linguistica. Possono assumere persino i contorni della parodia in I lettori di libri sono sempre più falsi, dove il libro inteso come semplice oggetto (da vendere) diventa l’occasione per sfoggiare un sottile tratto (auto)ironico “Questa è più o meno la regola: uno scrive per vantarsi d’aver capito qualcosa, finché qualcuno non lo prende sul serio e gli offre un posto di lavoro”. Naturalmente, con Gianni Celati si accede a una dimensione più evoluta nella valutazione delle cause e degli effetti della scrittura come si evince nella conclusione di  lettori di libri sono sempre più falsi: “Tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altri polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto: lui dà e toglie, e quello che dà è solo quello che toglie, così la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo”. Questa fugacità delle parole, persino l’impossibilità di addomesticarle, diventa l’elemento centrale, e determinante, per la Scomparsa d’un uomo lodevole dove il pensiero del protagonista pare coincidere con quello di Gianni Celati quando dice: “Sì, perché mi vedo in una storia, ce l’ho sempre in testa, e capisco che qui è già tutto previsto. Vedo questa storia in cui sono capitato, vedo la gente per le strade, e capisco che tutti si muovono secondo un copione previsto. E nello stesso insondabile copione deve anche esser già previsto ciò a cui quest’uomo andrà incontro, scritto nel suo inverosimile memoriale, è come essere nel sogno d’un altro”. È così: le Quattro novelle sulle apparenze hanno la loro originalità in una sospensione tra reale e surreale, con profili di provincia accentrati e limati e storie che si snodano con l’eleganza di una biscia, con i ritmi sinuosi e incantatori. Persino paradossali se si vuole seguire la lettura che fece Giorgio Manganelli di Condizioni di luce sulla via Emilia definendolo “straordinariamente nitido, esemplare” e insieme “insieme, nebbioso, enigmatico, elusivo”. Nello stesso modo, i personaggi, a partire da Baratto, sono sempre alla ricerca di qualcosa, se non altro, di se stessi. Un altro passaggio nella Scomparsa d’un uomo lodevole è altrettanto eloquente: “Come un cane al guinzaglio ero ricondotto verso casa da una controfigura di me stesso con baffetti alla francese. Per quanto ne so, le stelle lontane e gli anelli di rotazione delle nebulose e i globi prodotti dall’aggregazione della materia, tutto questo continuava nello stesso modo e con gli stessi risultati; ma per me rientrando in rue d’Armenoville tutto s’era già striminzito ad un pugno d’apparenze che mi ponevano quest’unica domanda: tu chi sei? Il resto sempre molto prevedibile”. Il gioco astronomico, non meno delle rifrazioni nella pianura, è solo la cornice ideale per arrivare alla considerazione che la salvezza dipende da “una spiegazione che si riesce a inventare”, e poi custodita con cura nelle parvenze di una storia.

venerdì 5 ottobre 2018

Italo Calvino

Le Lezioni americane si presentano con un piccolo rebus numerico, che non sarebbe spiaciuto a Italo Calvino. Delle Sei proposte per il prossimo millennio, al centro del ciclo di conferenze tenuto ad Harvard, ne sono giunte a destinazione cinque. La sesta, ispirata al Bartleby di Melville e dedicata alla Consistency, rimane confinata agli appunti, dove tra l’altro si trovavano riflessioni per altre due lezioni, per un totale di otto. L’ultima aveva un titolo, a sua volta pratico ed enigmatico nello stesso tempo, Sul cominciare e sul finire, che comunque sottintendono l’inizio e la fine impliciti a un libro. Più che nelle Lezioni americane, Italo Calvino lo spiegava partendo dalle pagine di introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno: “Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con essa. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini”. Se quella era la partenza, la destinazione è la certezza che “ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Calvino ci arriva in conclusione alle Lezioni americane dopo aver elencato, discusso, ragionato, letto e affrontato Balzac, Barthes, Cyrano de Bergerac, Thomas De Quincey, Emily Dickinson, Douglas Hofstadter, Ignacio de Loyola e Henry James, Robert Musil e Charles Perrault, Proust e Shakespeare, Charles Perrault e Raymond Queneau, Paul Valéry e Jonanthan Swift, Carlo Emilio Gadda e Thomas Mann, Dante e Petrarca, Kafka e Kundera, Flaubert e Mallarmé, ovvero “la letteratura come ricerca di conoscenza”. La prima delle “proposte” illustra come Italo Calvino abbia “cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”, inseguendo quella “leggerezza” da applicare alla lettura (“Ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini”) e così nella scrittura (“Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare”) come nel pensiero in generale. Dice, infatti, Calvino: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”. È plausibile che la prima lezione valga pietra angolare nell’identificare la “letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”. Gli elementi del confronto letterario e politico, a cui Calvino non si è mai sottratto diventano poi uno stimolo nell’indagare la “rapidità”, nello stabilire le connessioni tra “un legame verbale” e “un legame narrativo” all’interno della brevità del racconto, della fiaba e della novella, dove vige quella legge che “è un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito”. Si tratta di sviluppare “una velocità mentale” che sappia, in estrema sintesi, ripristinare una corretta “visibilità” a fronte di “una crescente inflazione d’immagini prefabbricate” e di inseguire quella “esattezza”, perché la letteratura possa “creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”. Non abbiamo molti altri strumenti ed è per quello che, alla fine, le Lezioni americane si sviluppa in quella che Calvino chiama “l’apologia del romanzo come rete”, che altro non è, se non la certezza che “la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”. Fondamentale.

mercoledì 3 ottobre 2018

Claudio Magris

Nei Microcosmi di Claudio Magris si condensando l’esperienza del viaggio, della scrittura, della memoria e della poesia. Una fitta tessitura di impressioni, vocazioni e passioni che si aggrumano attorno all’idea di una guerriglia, una forma di resistenza alla banalità, alle stupidaggini, alla vacuità di un linguaggio stiracchiato e compromesso. Si comincia proprio con il movimento lungo le coordinate mitteleuropee care a Claudio Magris. Il più delle volte si tratta solo di un caffè, di piccoli anfratti, di lagune o di isole, di villaggi o borghi alpini perché “viaggiare è anche una perdente guerriglia contro l’oblio, un cammino di retroguardia: fermarsi a osservare un tronco dissolto ma non ancora del tutto cancellato, il profilo di una duna che si disfa, le tracce dell’abitare in una vecchia casa”. Da una parte i Microcosmi collimano con l’autobiografia di Claudio Magris dato che “ogni viaggio è soprattutto un ritorno, anche se il ritorno, quasi sempre, dura assai poco e viene presto l’ora di andarsene”, dall’altra rappresentano i punti focali di una prospettiva molto più ampia, e tutta da esplorare. Succede quando “la storia rientra lentamente nella geografia, nella decifrazione dei segni e dei solchi scavati nella terra. Il paesaggio si sgretola lentamente, le quinte del teatro di posa scivolano quasi scosse da un lieve terremoto; primi piani indietreggiano e monumenti traballano, altre cose affiorano e avanzano, utensili, giacche lasciate appese nelle malghe abbandonate, corone dipinte negli stemmi. Il tempo della geografia è anch’esso rettilineo al pari di quello storico, perché pure le montagne e i mari nascono e muoiono, ma è così grande che s’incurva, come una retta tracciata sulla superficie della terra, e stabilisce un diverso rapporto con lo spazio; i luoghi sono gomitoli del tempo che si è avvolto su se stesso. Scrivere è sdipanare questi fili del tempo che si è avvolto su se stesso, disfare come Penelope il tessuto della storia”. La citazione omerica è un po’ la parola d’ordine per infilarsi nei Microcosmi: se “viaggiare, come raccontare, come vivere, è tralasciare”, in questo continuo processo chimico di creare, smontare e trasformare “narrare è guerriglia contro l’oblio e connivenza con esso; se non ci fosse la morte, forse nessuno racconterebbe. Quanto più umile, vicino fisicamente alla terra, humus è il soggetto di una storia, tanto più si avverte il rapporto con la morte. Le vicende degli uomini, famosi e oscuri, rifluiscono in quelle delle stagioni con le loro piogge e nevicate, in quelle degli animali e delle piante, degli oggetti con la loro tenacia e la loro consunzione”. Si tratta di una meta a suo modo definitiva: la scrittura deve essere corroborata dall’esercizio della memoria, e viceversa. Un processo provato sul campo e teso a scoprire e rinnovare storie di montagna e di frontiera, che nell’ambito dei Microcosmi appaiono incredibili, oppure no. Il paradosso è spiegato dallo stesso Claudio Magris: “In ogni caso, chi ha vissuto quelle vicende straordinarie tende a tacere; forse perché non sa parlare, forse perché pensa che, a parlarne, le si falsificherebbe. O forse perché, mentre si vive un’avventura, sembra qualcosa di eccezionale, ma poi, tornati a casa, quando ci si accinge a raccontarla, non si trovano le parole; quelle cose che parevano chissaché sono sparite, volate via, o non sembrano più così mirabolanti, e a poco a poco non viene in mente niente, dopotutto forse non è successo nulla e non si sa cosa dire”. È qui che la funzione mnemonica ritrova il suo naturale alveo nella scrittura, confermandosi una corrente fluida e dinamica (“Forse si ricorda anche e soprattutto non ciò che si è vissuto, ma quello che ci è stato raccontato. Le cose succedono sempre agli altri. La memoria è anche correzione, ritocco del bilancio, giustizia che dà a ciascuno il suo e dunque restituisce ciò che ci sarebbe spettato”) che trova uno sbocco naturale, probabilmente inevitabile, nella poesia. Ancora una volta Claudio Magris si avvicina con circospezione, illustrando come “la poesia dice l’assenza, qualcosa o qualcuno che non c’è più. Poca cosa, una poesia, un cartellino messo su un posto vuoto. Un poeta lo sa e non le dà troppo credito, ma ne dà ancora meno al mondo che lo celebra o lo ignora”, per poi celebrarla e condividerla nei suoi Microcosmi come “pietas, umiltà e fraterno piacere di vivere”. Con un’avvertenza (indiscutibile) che suona sempre più attuale: “La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale dell’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all’accusativo o il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l’ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abolendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità”. Da leggere e rileggere, spesso.