mercoledì 23 febbraio 2022

Lorenzo Pezzica, Pietro Spica

Il tratto è sempre generoso, gli occhi sono al centro, e sembrano guardare qualcosa che è invisibile ai più. Un’astrazione, una possibilità, uno spazio, un tempo o “un’altra via”, come dice lo stesso Pietro Spica, da cercare “in direzione ostinata e contraria”. I volti che hanno preso forma sono quelli di cinquanta anarchici, da Alberto Meschi a Virgilia D’Andrea passando, tra gli altri, per Emma Goldman ed Errico Malatesta, Franco Serantini e Gaetano Bresci, Giuseppe Pinelli e Ida Mett, Lucy Parsons e Max Stirner, Nella Giacomelli e Paul Goodman, Pietro Gori e Simone Weil e Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. I ritratti di Pietro Spica compongono, insieme alle sintetiche ed efficaci note biografiche di Lorenzo Pezzica, un “racconto corale di immagini, sogni, canzoni e storie” che comprendono anche alcune riflessioni che suonano e saranno sempre attualissime, anche a distanza di un secolo, come quella di Maria Luisa Bernieri: “La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengon derisi o disprezzati e gli uomini pratici governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti; non cerchiamo più di abolire la guerra, ma di evitarla per un periodo di qualche anno; non cerchiamo di abolire il crimine, ma ci accontentiamo di riforme penali; non tentiamo di abolire la fame, ma fondiamo organizzazioni mondiali di carità”. Scorrono esistenze tragiche come quella di Marija Spiridonova o di Louise Michel, flagellate dalle persecuzioni, vite ormai diventate leggendarie, come quella di Buenaventura Durruti, o molto più prosaiche come quella di Amedeo Bertolo, che però riassumeva l’eresia di tutti protagonisti, “proprio perché libertari, perché rifiutano il principio di autorità in campo culturale e il rapporto di dominio in campo politico e sociale”. Le immagini di Pietro Spica, che hanno un fascino austero e nello stesso tempo elegantissimo, accompagnano così le biografie di Gustav Landauer (“Lo stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso”) o William Godwin (“Ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo”), annodando una dopo l’altra quell’idea che, come rammenta giustamente Pietro Spica, ambisce a unire “il massimo della libertà individuale col massimo della libertà sociale”. Al pittore è dedicato il bel profilo finale a cura di Alice Alessandri che comincia in modo enigmatico (“Pianificare è posticipare e posticipare è l’anagramma paradossale del suo nome”) per poi districarsi nel raccontare l’incontro con l’artista e con l’evaporazione di una galassia variopinta, cosmopolita, inafferrabile, tanto che l’ospite curiosa si chiede: “Va bene, ma allora, piuttosto: cosa c’entra l’arte con l’anarchia? Affiora il sospetto che la risposta abbia qualcosa a che fare con quella faccenda adorniana dell’immaginare un mondo possibile, diverso dal mondo reale”. Sì, lo sguardo, il suo come quello dei suoi soggetti, porta comunque lì, in un posto che non c’è, e magari non ci sarà mai, ma merita di essere scoperto.

martedì 15 febbraio 2022

Italo Calvino

Più che entrare in una stazione ferroviaria, qui ci si infila in un labirinto. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo, chiamiamolo così, per convenzione, più che altro, che si articola su piani differenti, che non sempre convergono nell’alveo della narrazione, anzi, il più delle volte divergono verso “una struttura accumulativa, modulare, combinatoria”. Il tentativo dello stesso Italo Calvio di spiegarlo, alla fine delle Lezioni americane, non fa che aumentarne il mistero: “Il mio intento era di dare l’essenza del romanzesco concentrandola in dieci inizi di romanzi, che si sviluppano nei modi più diversi in un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata”. Partiamo dal suo nucleo più esposto, lo scrittore e la lettrice avvolti in un legame indissolubile, dato che “l’aspetto in cui l’amplesso e la lettura s’assomigliano di più è che al loro interno s’aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili”. È quel gioco di specchi e di rifrazioni che costituisce la struttura di quello che Calvino chiama “iper-romanzo” dove le parole vengono dirottate su architetture particolari, non sempre intelligibili, perché “il libro è sbriciolato, dissolto, non più ricomponibile, come una duna di sabbia soffiata via dal vento”. Ogni incipit porta in una dimensione parallela, compresa un’ironica versione dell’universo editoriale e letterario in chiave cospirativa, formando una “rete dei possibili” che, di nuovo, al centro ha la lettura intesa come “un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stessa. Il libro è un supporto accessorio o addirittura un pretesto”.  Ecco come Salman Rushdie in Patrie immaginarie ha cercato di interpretarlo senza farsi abbagliare: “Una delle difficoltà dello scrivere su Italo Calvino sta nel fatto che egli ha già detto su se stesso tutto quello che si può dire. Se una notte d’inverno un viaggiatore distilla in un unico volume quella che è forse la caratteristica principale dell’opera di Calvino: il suo genio mutevole, metamorfico per non fare mai due volte la stessa cosa”. È proprio nell’atmosfera evanescente e luminosa di “un’illusione di trasparenza attorno a un nodo di rapporti umani che è quanto di più oscuro, crudele e perverso”, che prende forma una sorta di apologia dello scrittore che Italo Calvino   declina così: “Forse la mia vocazione vera era quella d’autore di apocrifi, nei vari significati del termine: perché scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto; perché la verità che può uscire dalla mia penna è come una scheggia saltata via da un grande macigno per un urto violento e proiettata lontano; perché non c’è certezza fuori dalla falsificazione”. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un miraggio, è un’attesa, è un mosaico “fittamente intessuto di sensazioni”, ma “tutt’a un tratto ti si presenta squarciato da voragini senza fondo, come se la pretesa di rendere la pienezza vitale rivelasse il vuoto che c’è sotto”. È in quel momento lo scrittore, il lettore e Italo Calvino diventano una trinità, e una sola persona perché “lotti coi sogni come con la vita senza senso né forma, cercando un disegno, un percorso che deve pur esserci, come quando si comincia a leggere un libro e non si sa ancora in quale direzione ti porterà. Quello che vorresti è l’aprirsi d’uno spazio e d’un tempo astratti e assoluti in cui muoverti seguendo una traiettoria esatta e tesa; ma quando ti sembra di riuscirci t’accorgi d’essere fermo, bloccato, costretto a ripetere tutto da capo”. Si comprende allora la necessità di ogni avvio, come se Italo Calvino volesse ripristinare da zero, troncando sul nascere qualsiasi deviazione autoindulgente, facendo pulizia nella convinzione che il romanzo ideale “dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d’accumulare storie su storie, senza pretendere d’importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie”. Quel senso di abbandono, di disorientamento avvolge lo scrittore e/o il lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, lo riporta in continuazione all’inizio e non c’è via d’uscita, perché “tanto la conclusione a cui portano tutte le storie è che la vita che uno ha vissuto è una e una sola, uniforme e compatta come una coperta infeltrita dove non si possono separare i fili di cui è intessuta”. Tortuoso, ipnotico, indispensabile.

lunedì 7 febbraio 2022

Nicola Manuppelli

Wendell Berry che risponde solo per lettera. Lo spettro di Willa Cather. Richard Ford che si fa coast to coast in cerca di consiglio. Wallace Stegner che ispira chiunque. Robert Ward che suona, canta e balla. Gli scrittori americani sono “artisti a tutto tondo, con mille curiosità e pieni di vita” ed è uno dei motivi per cui ci piacciono così tanto. L’altro è che conservano un’attitudine da outsider che Domani è un posto enorme illustra con un mood giocoso, scambiando in continuazione il valore delle storie per le persone e delle persone dentro le storie. Prende forma così un’America immaginaria e molto concreta, con insegnanti e allievi, viaggi e peripezie, ospitalità e amicizie, prima tra tutte quella tra Nicola Manuppelli e Chuck Kinder, inserito nell’epicentro di “un gruppo ribelle e creativo che nacque da quei tempi tumultuosi e che perlopiù, eccetto Ray Carver, venne trascurato dai burocrati di New York”. Cominciamo proprio con Raymond Carver e Chuck Kinder, che tra loro “amavano parlare di letteratura, bere, fare festa, dirsi bugie sempre più grosse e tirare l’alba, fare della loro vita un racconto e dei loro racconti la propria vita”. Non ci sono liturgie editoriali, agenti, diritti, avvocati: qui c’è l’entusiasmo contagioso per la scrittura e la lettura (che vanno sempre insieme), per le storie e le poesie, e se serve i libri si pagano da sé. È una “festa mobile” che si riproduce in continuazione: gli aneddoti sono divertenti, anche quando sono tristi (perché qualcuno se ne va troppo presto), sono stravaganti, come è giusto che sia, e rocamboleschi. Sembra di essere lì, qualcosa è realtà, qualcosa è leggenda, ma come dice Chuck Kinder in person “non lasciare che la verità intralci una buona storia”. Quella che gli ruota attorno è una sorta di comunità non dichiarata, non ufficiale, che fluttua di romanzo in romanzo, di party in party. Porzioni di realtà e narrativa che si compongono come in un drink che si rispetti, ma l’atmosfera gioviale e divertita non deve trarre in inganno:  Domani è un posto enorme condivide una visione volitiva della letteratura in tutte le sue declinazioni, persino nelle difficoltà (che non sono poche), tanto che pare spontaneo tracciare un interessante parallelo tra sua maestà dissoluta Fitzgerald e Chuck Kinder che condividono “la passione per le luci, per l’acqua, per una letteratura che è fatta di sensi; un certo approccio epicureo all’esistenza. E ovviamente l’alcol. E poi le donne e le belle automobili. E i sogni d’estate. E un’insana attrazione verso il mondo sotterraneo della criminalità e degli spacci clandestini. L’amore per la scrittura, in fondo. E, su tutto, una continua riflessione sul tempo che passa e in fantasmi di cui siamo circondati, i fantasmi delle possibilità passate, presenti e future”. Per rendere l’idea dell’atmosfera di quell’habitat, Nicola Manuppelli dice che “ricorda quello dell’album Time Out of Mind di Bob Dylan, dove figure dei tempi andati si ritrovano a ballare in una dimensione fuori dal tempo con personaggi di oggi e di domani”, e non è un caso che le sue canzoni permeassero Wonder Boys, il film tratto dal romanzo di Michael Chabon, con parecchie affinità al lifestyle di Chuck Kinder e compagnia bella. E questo perché “tutti noi siamo infestati da ricordi e fantasmi di persone passate, perché sono la nostra memoria, le nostre radici. Per far sì che il nostro edificio sia saldo dobbiamo inchiodare il più possibile queste radici a terra”. Delineando la personalità di Chuck Kinder e per estensione dello scrittore in generale, Nicola Manupelli lo paragona a un mago che “non disprezza la realtà. La trasforma nel modo in cui gli sembra più bella. Se la realtà ha dei vincoli, semplicemente li tralascia, se ne dimentica. Crea il mondo”. È così che Domani è un posto enorme si propaga a ondate e coinvolge elenchi di scrittori e romanzi e poesie che Nicola Manuppelli dispensa con grande generosità: qui ci abbastanza indicazioni da riempire le collane di uno o due editori, e consigli di lettura sufficienti per una vita. Fatevi avanti.