giovedì 5 marzo 2020

Antonino Trizzino

Nell’Anatomia dell’influenza, Harold Bloom ricordava che gli elementi caratteristici della letteratura americana, e per estensione di quella anglosassone tutta, si potevano ricondurre al “mare, la madre, la notte, la morte”. Per questo è singolare che Il punto cieco a cui fa riferimento Antonino Trizzino sia circoscritto, alle sue estremità, dalle visioni e dai tormenti personali di Philip Dick e Melville, che delimitano le incursioni negli abissi e nelle onde di Gottfried Benn, Walter Benjamin, Robert Walser, Edgar Allan Poe, tra la Germania e il New England, Bartleby e Nexus-6. L’ordine non è costituito: Il punto cieco asseconda piuttosto l’imprevedibilità delle strategie oblique di Brian Eno, consentendo ad  Antonino Trizzino di scandagliare con grande libertà l’oscurità attraverso le prove di scrittori che hanno lacerato la letteratura, pagando per intero il prezzo della loro estraneità, ben sapendo che “fare arte significa avere un po’ le palle piene della vita”. Detto in modo prosaico, ma sicuramente efficace, condensa i richiami che Il punto cieco rivolge agli outsider che hanno respirato a pieni polmoni “l’aria pura della sconfitta”. Philip Dick introduce alle curve della fantascienza che secondo Trizzino “è una variante del gotico e perciò è quasi sempre pessimistica; non nasce dalla volontà di esplorare muovi mondi e nuove forme di vita (Star Trek), ma dell’orrore che brulica nei nostri spazi interni”. Considerazione più che condivisibile, ma il ritratto di Philip Dick va oltre e abbraccia il ruolo degli androidi e dell’intelligenza artificiale e del loro impatto sul nostro modo di vivere, ricordando che “come gli incubi, la fantascienza guarda dalla parte giusta, dalla parte della rivelazione, che è alla radice sia della magia che della scienza”. Sono pagine sorprendenti che vagano tra la dolorosa biografia di Philip Dick e l’insorgenza di esseri artificiali la cui tassonomia andrebbe aggiornata. Lo stesso, spiazzante meccanismo è applicato a Robert Walser, con la doverosa premessa che “la poesia prospera nella dissipazione: può rinnegarsi, dichiararsi finita, ma senza smettere di essere potente. Il suo interesse va all’equilibrio instabile, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste al crollo ma mantiene la costante del pericolo. Il poeta ama il pericolo e non ha comprensione del proprio gesto; deve voler soffrire, non può dimenticarsi di soffrire, altrimenti si normalizza e allora soffre davvero”. Dal canto suo, Walser la chiama“una felicità del tutto particolare”, un bel modo per edulcorare la solitudine, la sofferenza e la fatica legate alla scrittura. Secondo Claudio Magris, Robert Walser “è un grande scrittore che vive la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disgregazione della totalità e del grande stile classico che aveva costretto le dissonanze del mondo nella compatta armonia della forma e del significato. Il soggetto individuale, che si era posto superbamente quale centro ordinatore della vita, si accorge che la sua sorte è invece quella di disperdersi e disseminarsi nel fluire delle cose”. Antonino Trizzino sembra raccogliere il testimone e, con maggiore precisione, scrive che “Robert Walser è un esempio per chiunque voglia fallire nella vita e, eventualmente, sfondare nell’arte. Anche se su quest’ultimo punto il risultato non è garantito. L’artista non deve spassarsela, altrimenti finirà per morire in una serie di gratificazioni: senza abissi, resta dimezzato”. Il genio si nutre di ossessione e follia e il salto carpiato fino a Moby Dick è più naturale e spontaneo di quello che appare, se non altro per aver riesumato l’apologia di Melville: “Chi non ha mai fallito da qualche parte non può essere un grand’uomo. Il fallimento è il vero indice della grandezza. E se si dicesse che il successo ininterrotto è la prova che un uomo conosce le proprie capacità, basta solo aggiungere che, in quel caso, questi sa che sono limitate”. Il punto cieco avvince e avvolge come un tuffo nell’oceano, e merita un adeguato riconoscimento anche e soprattutto perché giunge alla giusta conclusione che “la potenza della letteratura è tutta nella capacità di fare silenzio, nel minimo che ha da dire, in una condizione in cui si annulla il dovere di scrivere”. Il mare è vasto e la notte è lunga, ma, volendo, non è così difficile fare chiarezza.

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