domenica 29 dicembre 2019

Paolo Cioni

In Visioni profetiche Harold Bloom scriveva che “gli angeli sono tutt’altro che immagini effimere” ed è necessario partire da questa distinzione per andare a trovare La verità a pagina 31. I messaggeri celesti si manifestano più in fretta e sono una sorpresa per Ennio Fortis che è arrivato ad accontentarsi di un placido tran tran. Ha lasciato l’università, lavora in una libreria, senza particolari passioni, cerca di mettere ordine tra i propri archivi, quasi un riflesso innato, non potendo (o volendo) riorganizzare la propria esistenza. È il 1993 e solo qualche anno prima, insieme a un gruppo di amici guidati dal geniale e visionario Raimondo, era parte di un progetto, il Collettivo, con una vocazione per la fotografia e per il cinema. Un passato prossimo fatto di inventiva e desiderio con l’idea di ritrarre la magia discreta dei luoghi lungo la via Emilia, ma le “condizioni di luce” di Paolo Cioni sono molto diverse da quelle di Gianni Celati. Le velleità artistiche, i “goffi entusiasmi”, rivelano che “l’ingenuità può intimorire, e c’è un momento in cui non si ha a disposizione nient’altro”, finché i conti non tornano più e la ruvida realtà mette in mora anche gli ultimi sogni. Succede sempre così e il presente di Ennio Fortis si divide tra i set di tennis con Rizzoli alias il Direttore e una solitudine ben temperata, almeno fino a quando non gli giungono, in rapida sequenza, un libro dedicato agli angeli e un’inaspettata telefonata di Raimondo. Il deus ex machina del Collettivo lo spinge a ritrovare Adele, la moglie da cui si è separato, e che per Ennio Fortis è stata un’attrazione fatale. Il movente di Raimondo non non è chiaro, alimenta “la sensazione che il tempo fosse davvero una cosa strana, un groviglio inestricabile di presente e passato e futuro, non necessariamente sistemati nell’ordine che diamo per scontato”, e per scoprire la verità bisognerà andare ben oltre la pagina 31. Ennio si ritroverà a rivedere le ambizioni e i fallimenti del Collettivo, trovandosi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, tra l’irruenza di Vaclav (il socio di Raimondo), la delicata e improbabile liaison con Emma, sua collega nella libreria, il legame con la cugina Irene, muovendosi tra le vie di Parma e la provincia lungo gli argini del Po dove “a volte i luoghi dove siamo cresciuti sono una trappola”, se non altro perché mantengono in fresco segreti e rimpianti. È la luce al crepuscolo delle città di provincia, Luigi Ghirri più che Edward Hopper, con un occhio particolare al senso del tempo che quella rifrazione si porta dietro, perché se è vero che “il tempo passa: ecco tutto”, è altrettanto onesto ammettere che tra le esistenze solitarie e i sogni collettivi, per quanto ingenui fossero, una bella differenza resta. Se all’epoca del Collettivo (ne abbiamo avuti tutti uno, inutile nasconderci, e chi non l’ha avuto non sa cosa si è perso) “il mondo intero non era altro che questo, ruote dentate, pulegge, affannosi tentativi e meravigliosi fallimenti”, al momento di tirare le somme si capisce che “abbiamo tutti bisogno di approvazione, e poi, quando arriva il momento, ci manca il coraggio di fare la nostra parte”. Il tocco leggero, agrodolce e non privo di un certo romanticismo di Paolo Cioni trova con La verità a pagina 31 una sua definizione nascondendo fino al (bellissimo) finale il vero nodo dell’amicizia con Raimondo, che Ennio prova a dissimulare in tutti i modi, con una sequenza di episodi esilaranti e amari nello stesso tempo. Sotto il cielo natalizio di Parma, gli angeli sono illusioni, ricordi, impressioni che trovano forma compiuta soltanto in un racconto ironico ed elegante che accompagna il lettore a incontrare la vita così com’è, con o senza verità.

giovedì 12 settembre 2019

Paolo Sorrentino

L’orgoglio di una nazione: vita, morte e miracoli di Tony Pagoda sullo sfondo degli ultimi trent’anni d’Italia. Cantante melodico ancora capace di smuovere le emozioni del suo pubblico, cocainomane convinto e risoluto, playboy che dispensa saggezza e suggerimenti sull’arte della seduzione, Tony Pagoda sceglie di mollare tutto e di rifugiarsi in Brasile dove gli scarafaggi saranno la sua compagnia principale. Ma c’è un’ombra nel suo passato e il richiamo della vera giungla (quella italiana) è troppo forte. Per quanto sgradevole, cinico e irritante, Tony Pagoda ispira un’ambigua simpatia. È un personaggio che sguscia nella vita (“Alla fine, semplicemente, si cambia tanto per cambiare. Mica c’è da scomodare dio davanti ai gesti miserabili degli esseri umani”), e nella storia, con sorprendente abilità, un moralista senza morale, un killer senza armi, un cantante con una grande presenza scenica ma senza canzoni (delegate infatti, all’inizio di ogni capitolo, a una bella selezione di citazioni della canzone d’autore italiana). Viaggia con leggerezza dal camerino con Frank Sinatra a un conflitto a fuoco sui moli di Napoli, nei vicoli del suo passato e sulle onde di un futuro che lo insegue con la stessa leggerezza condita da una punta piccante di sarcasmo. È sempre il protagonista assoluto, soprattutto in quell’“orgia di transazioni” (la definizione è sua) che è l’Italia, che Tony Pagoda identifica quasi come uno stato d’animo, eleggendo a stile i peggiori luoghi comuni legati a una nazione. La sua sicurezza, la sua spavalderia sono tali che non nasconde nulla perché anche nel momento più patetico di sconforto o di felicità, Tony Pagoda sa cosa succede “nella guerra dei rapporti con gli individui” e lo racconta in una sorta di aforisma che spiega perché “hanno tutti ragione” in quattro righe essenziali: “Insegui l’imprevedibilità altrui e non hai più tempo di coltivare la tua, diventi accessorio e strumento, ti senti superfluo e inferiore, ma intanto non puoi fare a meno di inseguire la bellezza d’animo altrui. E così che nascono amori e matrimoni, imperi e dittature”. Le parole per raccontare Tony Pagoda galleggiano in un’acidità senza timidezze, eccessive, con una metafora via l’altra, e il romanzo riesce così a costruirsi un ritmo, un mondo, un taglio senza badare troppo alla grammatica, all’analisi logica e alla forma, ma affidandosi a un linguaggio che è più la lingua di uno storyteller che di uno scrittore, un cocktail di gergo, flusso di coscienza (Tony Pagoda è irresistibile quando si lancia nelle sue apodittiche definizioni: “La sera bisogna uscire, girare, mangiarsi la notte, perdersi nella merda della periferia e capire che solo la notte con i suoi accordi e le sue note improbabili ti può far capire qualcosa”), ritagli di una lingua più parlata che scritta. Forse è l’idioma adatto, se non l’unico possibile, per attraversare quella “patina di equivoci” che c’è tra i personaggi del libro (a partire da Tony Pagoda, ovviamente) e il mondo, per comprendere che il loro segreto è seguire “il ritmo delle cose” ed essere “tenaci, come tutti i falliti del mondo quali siamo”. È così che Tony Pagoda colpisce: vi strapperà un sorriso, vi racconterà la verità.

martedì 10 settembre 2019

Primo Levi

Ad Auschwitz, nel gergo del campo “mai” voleva dire “domani mattina”, segno che il tempo era stato azzerato in modo atroce e beffardo e per “i sommersi e i salvati” valeva soltanto “una unitaria desolazione interna”. In quel guado oscuro e privo di riferimenti, Primo Levi si accorge ben presto che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”, e costretto all’impotenza, si rivolge agli strumenti che gli ha fornito la sua formazione, i suoi studi. Con straordinaria insistenza e costanza, cerca di razionalizzare tutto ciò che succede “dall’altra parte” e nel diario della sua prigionia viene a galla quello che Philip Roth definiva “l’uomo di precisione, l’uomo che controlla gli esperimenti e cerca il principio dell’ordine, posto di fronte alla perversa inversione di tutto ciò che apprezza”. Così Primo Levi ha un rigore assoluto nel prendere le misure agli aguzzini e alle vittime, ai carnefici e ai complici, agli ignavi e ai compagni di sventura. Sa che “oggi il nostro mondo è questa buca di fango”, e non un altro, eppure con quello sguardo attonito che distingue Se questo è un uomo riesce ad aggrapparsi con tutte le sue forze a scampoli di dignità, cercando di vedere attraverso le privazioni, le violenze, le ingiunzioni di un libero arbitrio degli uomini sugli uomini, ancora un motivo per pensare, per essere, per credere, sostenendo che “tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza”. La riflessione è tutt’altro che fuori luogo: Primo Levi non dimentica nemmeno per un istante che nel lager “tutto ci è nemico”, non si abbandona mai né alla disperazione né alla minima illusione, dato che “la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo”, eppure continua con stoica dedizione a conservare con cura l’idea di una vita che esisteva, e doveva esistere ancora, lontana da quella notte “che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”. All’incredulità davanti alla devastazione sistematica, meccanica, perversa e spietata della macchina nazista, Primo Levi contrappone la semplicità che si traduce in quella accorata invocazione che spicca come un lampo nella tetra routine di Se questo è un uomo: “Consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole abitudini quotidiane”. Uno scrupolo che Primo Levi mantiene anche nel momento di far rivivere sulle pagine il ricordo del “gigantesco esperimento biologico e sociale” del campo di concentramento e si ritrova ancora sbalordito: “Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”. Nell’elaborazione di una condizione assurda e senza speranza, osservando “sulla soglia della casa dei morti”, la certezza della scrittura è matematica più che chimica e leggere e rileggere Primo Levi resta un’esperienza doverosa.

venerdì 6 settembre 2019

Margherita Nani

Braccato dai servizi segreti di mezzo mondo (quelli israeliani in primis) Joseph Mengele lascia la Germania e, attraverso l’Italia, prima giunge in Paraguay, poi in Argentina e infine in Brasile. È qui che diventa L’ospite della famiglia Souza in una minuscola località, Candido Godoi. È il 1955 e nessuno sospetta di uno smunto e silenzioso straniero che si fa chiamare Wolfgang Gerhard, che passa le giornate a scrivere e a leggere nella sua camera. Dietro quella riservatezza c’è l’uomo che nei laboratori di Auschwitz ha celebrato i peggiori abomini del ventesimo secolo. Un medico che ha perseguito e osservato con assiduità e senza alcuna inibizione ogni dettaglio dell’anatomia umana e che si ritrova ammaliato a scrutare, nell’afa tropicale, le linee acerbe ed eleganti di Pia, la figlia adolescente dei Souza. In quel momento L’ospite rivela la sua essenza. È tutto doppio e ambivalente: la figura di Pia, con la sua estrema dolcezza, è dirompente contro la gelida coltre che avvolge Mengele. L’idea, molto pericolosa, che sia diventato “una leggenda” come gli confida il suo commilitone Gunter Siedel aleggia nell’aria umida del Brasile, portando con sé le atroci e buie giornate di Auschwitz. Eppure, lui si mostra cittadino rispettoso e altruista, tanto da dispensare le cure mediche agli abitanti del villaggio. Qui, lo sdoppiamento diventa ancora più evidente, e scorre su un piano inclinato dove fiction e realtà storica si alternano. L’ospite, che com’è nell’etimologia della parola e nello spirito del romanzo, si può leggere in due direzioni, fa risaltare l’acida follia di Mengele, un gorgo malefico e devastante che ha trovato nell’ideologia nazista e nella disciplina militare, gli strumenti per affondarlo nel suo maniacale e ossessivo narcisismo, fonte primaria di un lugubre canto di morte. L’accostamento alla candida figura di Pia può (forse, deve) apparire improprio o incongruente, ma è legato saldamente a un’altra figura femminile, Teresa. Anche qui, un altro riflesso, quasi meccanico: se Pia è un personaggio romanzesco, Teresa è invece vissuta davvero accanto a Mengele negli anni di Auschwitz. Prigioniera ebrea, antropologa, aveva visto da vicino tutti gli efferati massacri perpetrati da Mengele in nome di un’improbabile e assurda visione scientifica e, in sostanza, espressione solo in un demoniaco sadismo. Complice per inderogabile necessità, Teresa è l’anello di congiunzione (testimoniò anche a Norimberga) tra il passato storico e il presente romanzesco e persino tra le due facce di Mengele, lo scienziato e il criminale. L’ospite si regge su questo complesso e fragile equilibrio tra opposti: un’operazione magari ingenua o temeraria che però riesce a sopravvivere nel proprio contesto grazie a una scrittura lineare, molto attenta a non lasciarsi sfuggire alcun dettaglio, scrupolosa nelle descrizioni. L’evoluzione del racconto in sé evita anche il minimo dubbio sulla brutalità di Mengele: Pia lo spinge verso reazioni umane, lui che sembra non appartenere nemmeno a questo mondo, e più lei si avvicina, più l’ombra cupa che lo sovrasta si stende dalla Germania al Brasile, e più la sua vera biografia scardina la falsa identità, cancellando con prepotenza le tracce costruite per fuggire, per negare, per sopravvivere. C’è un limite nella storia in sé, così come è stata concepita e poi costruita, ma è necessario accettarlo: quel “mondo di morti e di larve”, come l’ha descritto Primo Levi, lascito di Mengele e dei suoi aberranti simili, è un buco nero insaziabile e magnetico che avvolge ogni parola, ogni frammento in un sudario muto e funereo, che lascia attoniti, nonostante la grazia di cui dispone L’ospite. Double face fino in fondo, sul filo di rasoio tra la fedeltà alla memoria e l’istinto di regalarsi un destino più giusto, per quanto fantasioso.

mercoledì 26 giugno 2019

Gaznevada

Nell’apocalittico 1977, incastrati tra l’inamovibile tradizione delle osterie bolognesi, la repressione militaresca dei movimenti e la silente ortodossia, i Gaznevada fecero la loro prima apparizione. Una scheggia impazzita, una canzone frenetica e selvaggia (Mamma dammi la benza!), suoni stridenti e abrasivi, un pubblico annichilito. Pochi minuti, sufficienti per tracciare una linea di demarcazione e rendere obsoleto tutto ciò che c’era prima. Come molte delle inafferrabili variabili nella storia dei Gaznevada, quell’exploit avvenne con l’identità del Centro d’urlo metropolitano, elaborata definizione che raggruppava l’embrione di un gruppo di zingari felici che, come scrive Luca Frazzi, “mettevano la  testa sopra il filo dell’acqua per sopravvivere all’ecatombe (pallottole, noia ed eroina) aggrappandosi ai Sex Pistols e ai Ramones. Curioso, no? Per tornare a respirare i figli del movimento si affidavano al disimpegno e alla provocazione fine a se stessa. E lo facevano in modo magistrale. Di loro si diceva che fossero il braccio armato musicale della coltissima Traumfabrik, in realtà i Gaz all’inizio era un tozzo, caciarone, magnifico gruppo punk. Poi divennero altro. Studiarono, maturarono, sperimentarono. Ma all’inizio erano questo, un gruppo punk, di intelligenza sopraffina e dalla mano pesante”. Con la stessa attitudine, i Gaznevada si raccontano, con l’aiuto di Oderso Rubini (che li produsse e li guidò tra i campi minati della discografia), dentro una trama frammentaria e per niente lineare, eppure fedele alle cronache, a partire dalla scelta del nome, pescato un po’ per caso e un po’ in un racconto di Raymond Chandler che descriveva “il gas di Nevada” come “una sostanza tossica dall’acre sapore di mandorla con la quale ingenui quanto loschi personaggi nell’omonimo stato americano sopprimono menti criminali e perverse”. La decisione di trasformarsi in Gaznevada avviene a Londra, l’approdo inevitabile in cerca dei Sex Pistols e degli Ultravox, degli Stranglers e degli XTC, nutrendosi di fish & chips e/o chicken & chips e respirando l’aria della rivolta, mentre l’Italia è rimasta ferma a vecchie cerimonie e rinnovati massacri. Ma l’epifania arriva prima grazie a un disco, Leave Home dei Ramones, che inaugurerà la nuova stagione dei Gaznevada. Un momento che Gianluca Galliani alias Nico Gamma o più semplicemente Gaz ricorda così, nella sua “novella-documento” Hystory And Hysteria: “Quella era roba veramente nuova, impressionante, un devastante muro di suono sparato ai 2000 all’ora, con un pezzo dietro l’altro, nessuno più lungo di tre minuti, anzi, per la precisione pochi superavano i due minuti e quasi tutti simili sebbene differenti... Senza fiato, senza tregua, senza lasciare respiro e tuttavia orecchiabili. Ti veniva, dopo un primissimo e stupito ascolto, una voglia irrefrenabile di ballarli... Ma con un ballo disorganizzato, duro, di guerra. Un sound ruvido, da garage, ma corposissimo, abrasivo e nel contempo melodico. Mai commerciale. Niente assoli, o al massimo due tre note sbattute qua e là. Pezzi semplici in fondo, ogni buon ragazzotto schitarrante o sbatacchiante avrebbe potuto facilmente suonarli. Geniali!”. I Gaznevada li suonarono a ripetizione, duri, isterici, nevrotici eppure capaci di intraprendere una via personale tra i grattacieli congelati di New York (Nevadagaz) e il pericoloso “radiodisturbo” (Telepornovisione) coltivando un linguaggio senza filtri, freddo, ipnotico e lampeggiante come un neon impazzito in una città con troppi nemici e con le palle rotte. Le vicende dei Gaznevada proseguiranno, in altre forme, con altre deviazioni, ma “solo dettagli”, comunque, scrive Gaz in conclusione. Dentro queste righe e in un pugno di canzoni incise all’inizio del 1979 c’è tutta l’urgenza di un gruppo impaziente, non allineato, incontrollabile, spiritato che ha sputato in faccia al futuro.

venerdì 21 giugno 2019

Gian Luigi Piccioli

È il 1982, la nazionale italiana sta ancora arrancando nei mondiali di calcio in Spagna e “tutto il mondo sta traslocando” verso una realtà realtà trasfigurata e plasmata dallo schermo televisivo. Dalla Sala Due, centro nevralgico della TDN, un network privato dalle grandi ambizioni, Gigi Insolera e Marco Apudruen gestiscono le notizie come “tanti film diversi, e messi insieme a caso, a succedersi in una sorta di giudizio universale, allegrone e caotico”. L’obiettivo è raggiungere e superare i cento milioni di spettatori e scavalcare nel gradimento i canali pubblici che, grazie agli sceneggiati, godono del favore del pubblico. Insolera e Apudruen sono i deus ex machina della Sala Due: colleghi, amici, complici e quanto mai diversi. Insolera è uno scrittore imprigionato nelle tempistiche feroci della televisione, che offre uno sguardo continuo, impietoso, terrificante e asfissiante. Ad un certo punto ammette: “Sento sempre più l’urgenza di scrivere un romanzo, ma è ridicolo scrivere un romanzo quando si pensa che non c’è un minuto da perdere”. Apudruen è più pragmatico: deve comprare e vedere i servizi a tutte le latitudini e gestire una pletora di inviati che con le loro “telebaby” (uno dei tanti neologismo di Gian Luigi Piccioli) immortalano “l’età del caos”, dalla sorte dei desaparecidos in volo sull’oceano all’assassinio di un giudice. La prospettiva da Sala Due abbraccia l’interno pianeta, annulla le distanze nello spazio e le coordinate nel tempo: come scrive Simone Gambacorta nell’efficace presentazione “il tempo grande del titolo è un tempo che si è ingrandito, è il tempo di una mutazione in atto, di una frontiera che si sposta, come un perimetro che scoscende e sfuma nell’evoluzione continuata (e anche metamorfica) di se stesso. È un tempo ignoto che porta in sé altro. È il tempo della contendibilità dei duplicati audiovisivi del reale, è il tempo di un nuovo potere che si afferma”. Quando in Sala Due appare Marianna Estensi, fotografa chiamata a registrare le luci delle immagini, germoglia un triangolo imperfetto con Apudruen e Insolera. Bella, volitiva e spericolata, Marianna accende il Tempo grande, sollevando il sipario sull’altra grande protagonista, un Roma eccezionale, brulicante di vita, labirintica “da sempre, incompiuta, come un bel dolce lasciato a metà e demolito qua e là”. Quando non seguono il mondo e la storia attraverso i monitor, o non sono coinvolti nelle criptiche dinamiche aziendali della TDN, i tre protagonisti si avvicendano in un groviglio di vie e piazze e terrazze e palazzi che è lo specchio dell’ingarbugliata liaison. Le dimensioni di Roma sono tali che, come diceva William Fense Weaver, “il tempo è incredibile” e, infatti, scorre secondo scansioni relative e, per quanto riguarda Sala Due, tenendo conto che “con gli anni che sono passati in questi ultimi mesi, nessuno è oggi quello di ieri”. Quando Marianna viene spedita da compiere un’impresa destinata a modificare gli equilibri dell’audience, attraversando in moto la savana nella caldera di Ngorongoro, con la certezza che “ogni uomo confina con miliardi di altri uomini, oggi” e uno scoop dall’Africa (una delle grandi passioni di Gian Luigi Piccioli), Tempo grande lascia deflagrare tutte le sue contraddizioni e concentra nelle sue pagine quello che Italo Calvino intuiva nel 1983, appena un anno prima della sua pubblicazione: “Ogni processo di disgregazione dell’ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti”. Il contributo della florida scrittura di Gian Luigi Piccioli a rendere intellegibile la supremazia delle immagini è inestimabile. Grazie alla ricchezza dei giochi linguistici e alla divertita nonchalance nelle descrizioni (dai menù alle scene erotiche è tutto un fiorire di divagazioni) ci immerge e ci affonda in un milieu dove è impossibile non ricordare Baudrillard quando ci avvisava che “continuiamo ad accumulare, ad aggiungere, a rincarare la dose. E poiché non siamo più capaci di affrontare il potere simbolico dell’assenza, oggi siamo piombati nell’illusione contraria, quella disincantata della profusione, l’illusione moderna della proliferazione degli schermi e delle immagini”. Tanto che, nei paesaggi di Tempo grande, s’intravedono “vette irte di ripetitori, che una volta innalzavano croci”, ma soprattutto il benamato Insolera ci accompagna alla conclusione che “mentiamo senza motivo perché non possiamo fare a meno della verità che crediamo irraggiungibile. Mentiamo per uniformarci ad un modello superiore di esistenza... Per un insopprimibile bisogno di coerenza”. Tempo grande è un romanzo fosforescente, che è necessario rileggere e riscoprire, anche per le sue doti di preveggenza che ci aiutano, non poco, a capire dove siamo arrivati e da dove siamo partiti.

lunedì 1 aprile 2019

Roberto Manfredi

Il rapporto tra gli artisti e il potere è sempre stato conflittuale, e così deve essere. È inevitabile che “vite estreme e fugaci percorse sul filo di lana. Passione e disincanto, conoscenza ed esplorazione, amore per la vita al punto di sfidarla oltre ogni limite” si scontrino con l’ordine delle istituzioni e tutte le forze preposte a mantenerlo. C’è una sezione pubblica nel website dell’FBI (grazie al Freedom of Information Act, uno strumento di garanzia introdotto negli Stati Uniti nel 1966 e adottato in Italia, con moltissime riserve e sulle sollecitazioni dell’Unione Europea, solo nel 2016) dove si può scorrere uno sterminato archivio di materiali derivanti da indagini. Bertolt Brecht, Charlie Chaplin, Elvis Presley, Frank Sinatra, Henry Miller, Allen Ginsberg, Jefferson Airplane, John Steinbeck, Janis Joplin, Jerry Garcia, John Updike, Marilyn Monroe, Marvin Gaye, Doors, Beatles, Grateful Dead (solo per citare alcuni) sono allineati con il loro bravi dossier con i peggiori criminali, narcotrafficanti, serial killer, spie, politici, corrotti e corruttori. Si capisce perché leggendo Artisti in galera che, come si premura Roberto Manfredi nell’introduzione non è formato dal biografie di artisti “maledetti”. Da Billie Holiday a GG Allin, “sono solo persone che hanno scelto di percorrere strade diverse, percorsi estremi e pieni di insidie per sentirsi disperatamente più vivi e dare un senso alle loro esistenze, molto spesso bruciate in un lampo”. Le sintesi (ogni piccolo capitolo è composto da una mezza dozzina di pagine, comprese le interpretazioni con il bel tratto di Tom Porta dei “mugshot”, ovvero le foto segnaletiche dei reprobi) non tolgono nulla alle  cupe atmosfere degli stati di alterazione di Chet Baker o dell’arresto di Chuck Berry, della persecuzione contro Lenny Bruce (un genio, anche lui inseguito a lungo dall’FBI), delle traversie di James Brown “living in America” e di quelle di Fela Kuti a San Vittore e in Nigeria. Non tutti sono soltanto un “disturbo pubblico” come Johnny Cash, Pete Townshend, Frank Zappa (uno che dava davvero fastidio quando diceva che “oggigiorno la disonestà è la una regola e l’onestà l’eccezione”) o Timothy Leary. C’è qualcuno che in galera è finito per omicidio (Bertrand Cantat, Phil Spector, Kristian Vikernes), qualcun altro, (Tupac Shakur e Notorious B.I.G.) che viveva in un mondo dove armi e droghe rientravano nelle prassi quotidiane, ma in un modo o nell’altro gli Artisti in carcere ci finiscono dalla Norvegia all’Iran, dall’America all’Italia rappresentata, nell’occasione da Vasco Rossi, Mia Martini e Sophia Loren. Lo spaccato è a tinte torbide, ma molto realistico e alla carrellata principale vanno aggiunte le due appendici riassuntive (dedicate rispettivamente a cinema e musica) che aggiungono, in breve, un’altra trentina di casi umani, da Charlie Parker a Zsa Zsa Gábor, compreso Keith Richards. Figurarsi se poteva mancare all’appello: la sua filosofia (“Non ho problema con la droga. Ho un problema con la polizia”) condensa tutta l’epopea degli Artisti in carcere.

domenica 31 marzo 2019

Riccardo Canesi

Le città da cantare (Atlante semi-ragionato dei luoghi italiani cantati) parte dal presupposto che “ogni essere umano ha dentro di sé un paesaggio, quello della propria terra d’origine, e fuori di sé quello che ha incontrato nei percorsi della sua vita viaggiando o migrando. Non sfuggono a questa regola gli autori di canzoni. Le canzoni, nella loro apparente leggerezza e banalità, ci segnano la vita, ci fanno ricordare oltre alle persone care, momenti significativi della nostra esistenza e anche i luoghi in cui le abbiamo ascoltate o a cui si riferiscono”. Essendo un geografo, Riccardo Canesi scegli di assemblare questo “atlante” musicale partendo proprio dalla forma della città che, come diceva Italo Calvino, “ha un semplice segreto: conosce solo partenze e ritorni”. Una constatazione che coincide, non a caso, con il tema e il soggetto di Una città per cantare, a cui come è evidente Riccardo Canesi ha attinto per il titolo. La canzone di Ron e Lucio Dalla, ricalcata su The Road di Danny O’Keefe e resa celebre nella versione di Jackson Browne in Running On Empty è un po’ la prima tappa di un bel viaggio nelle città italiane. I legami musicali sono sviluppati con un certo brio, senza il peso di analisi particolareggiate, con disinvoltura e comunque con un riguardo scrupoloso nei confronti delle canzoni e degli autori. A garanzia, Riccardo Canesi mette un sigillo importante citando addirittura un’esortazione di Marcel Proust: “Non disprezzate la musica popolare. Siccome essa si suona e si canta molto più appassionatamente di quella colta a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. Per questo vi sia rispettabile. Il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società. Il ritornello che un orecchio fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite di cui fu l’ispirazione, la consolazione sempre pronta, la grazia e l’idea”. Una parte considerevole dell’attenzione è rivolta, come pare logico, ai cantautori che hanno avuto un ruolo importantissimo nella storia della musica italiana e spesso sono legatissimi alla propria città, valga su tutti il legame con Bologna, di Francesco Guccini e Claudio Lolli o, neanche a dirlo, di Genova con Fabrizio De André. Ricardo Canesi colloca i protagonisti con presentazioni spicciole e immediate, senza l’ansia o l’ambizione di compilare un elenco completo e definitivo, piuttosto con lo spirito di una mappatura che possa mostrare Milano attraverso gli occhi Dario Fo e Enzo Jannacci (un genio), Roma nelle parole di Francesco De Gregori o Livorno in quelle di Piero Ciampi e poi Napoli, Firenze o Pordenone nel susseguirsi di intense scene musicali. C’è molto da ascoltare e ancora di più da leggere perché poi Riccardo Canesi non dimentica il suo “vero” lavoro e tra un capitolo e l’altro infila materiali che riguardano problemi e questioni che toccano la vita quotidiana delle nostre città. Un bel lavoro di divulgazione, fatto con un spirito leggero e acuto nello stesso tempo: Le città da cantare contiene un’idea che si può moltiplicare all’infinito applicandola ad altri luoghi, non meno attraenti delle realtà urbane. Basta pensare a tutto l’immaginario sul mare o sui fiumi, come suggerisce nelle pagine introduttive lo stesso Riccardo Canesi. Volendo si può partire con il mondo intero, ma la sorpresa è dietro l’angolo perché i Beatles, che hanno cancellato la parola “impossibile” dal vocabolario, si erano già proiettati Across The Universe. Buon viaggio. 

mercoledì 27 marzo 2019

Erri De Luca

“Se avete fame guardate lontano” è l’imperativo che spinge interi popoli a sfidare gli elementi in cerca di un habitat di cui sono stati privati. Lontano potrebbe essere anche molto vicino e allora, questa raccolta di righe che vanno troppo spesso a capo, come lo stesso Erri De Luca definisce le sue poesie nel sottotitolo di Sola andata, comincia con una breve, incisiva ed esplicativa Nota di geografia per delineare le coordinate del Mare nostrum: “Le coste del Mediterraneo si dividono in due, di partenza e di arrivo, però senza pareggio: più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco, toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo. A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa. Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria”. Nella prima parte c’è la cronaca, la storia dei viaggi dai deserti dell’Africa alle coste dell’Italia: popoli che vanno a piedi e finiscono sul mare e poi vengono rimessi sugli aerei anche se “potete respingere, non riportare indietro, è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata”. Erri De Luca leviga le parole, ne segue il ritmo con dolcezza, ma non nasconde nulla dell’esodo degli “innumerevoli” mischiando acqua di mare, sale, sole e sangue nelle stesse righe. Prima di diventare un titolo a suo modo lapidario e indiscutibile, “solo andata” è un refrain che riecheggia tappa dopo tappa dell’esodo che, dalle sabbie del Sahara a quelle delle spiagge italiane, passando per il Mediterraneo, diventa ben presto una brutale tragedia e si lascia alle spalle ogni tentativo di cercare un ultimo approdo. Eppure sull’onda delle anime migranti, nello scoprire l’altro che, in balia delle correnti non meno che di titubanti governi, affronta il mare aperto e pur di non abbandonare la speranza è disposto all’estremo sacrificio di perdere la vita, Erri De Luca riesce a riconoscersi e lascia filtrare una sottile luce di umanità. Debole, sfocata, calante sull’orizzonte, ma vivida, e non ancora affogata nella retorica. Nella parte finale di Solo andata, dato che “un libro di poesie è una città", esplora anche altri quartieri ma non dimentica nemmeno per un attimo gli anni che stiamo vivendo (“In guerra le parole dei poeti proteggono la vita, insieme alle preghiere di una madre”) e quando, infine, arriva a Casa è per una sorta di personalissima confessione: “Dietro la curva la ritrovo, ancora c’è, la casa, non crollata, bruciata. È vecchia più di me, la rinnovai quand’ero anch’io nel tempo del rinnovo. Crollasse non mi morderei le mani e non imprecherei di stare senza. Sono in tempo a viandare, bagaglio scarso ribussare a porte, non possedere chiavi. Devo questo alle storie, di bastarmi, pur’io bastare a loro. Con lapis e quaderno posso scrivere pure quando gela l’inchiostro nella penna. È stata la porzione a me assegnata, eredità che non si può ricevere e lasciare. Di questo sono fatto, di pagine sfogliate e poi risposte”. Con una conclusione che è quasi una profezia perché è questo che chiedono i tempi ed è questo che concedono le poesie di Erri De Luca: “L’umanità sarà poca, meticcia, zingara e andrà a piedi. Avrà per bottino la vita, la più grande ricchezza da trasmettere ai figli”. Poesia poesia civile, illuminante e toccante, e quanto mai attuale.

martedì 26 marzo 2019

Carlo Boccadoro

Queste “storie di dischi irripetibili musica e lampi di vita” alternano la cronaca di esperienze personali, di ricordi d’infanzia e di studi, di orchestrazioni e di viaggi, compresi l’incontro con Philip Glass e la collaborazione con Luciano Berio, con la “recensione” di una dozzina di album. Protagonista in 12 è il girovagare di Carlo Boccadoro tra gli scaffali dei dischi, dal piccolo negozio di dischi del quartiere (dove compra per errore, o forse no, il disco della Plastic Ono Band) alla Tower Records, fatto di trasferte a New York (compreso l’aneddoto “jazzy” al Village Vanguard) o a Los Angeles, ma anche di un gusto per l’ascolto libero, attento e partecipato (come dovrebbe essere). Essendo, sì, un compositore e un direttore di musica classica e contemporanea, ma anche un grande appassionato, capace di distinguere (per fortuna) tra Donald Fagen, i Grateful Dead e gli Eagles, Carlo Boccadoro riesce a dedicare un’intero capitolo a Jamming With Edward, la storica session agli Olympic Studios di Londra tra i Rolling Stones sans Keith Richards (Mick Jagger, Charlie Waits, Bill Wyman, Nicky Hopkins) con Ry Cooder. Per rendere l’idea di come Carlo Boccadoro affronta i dischi vale la pena di dare una sbirciata alla sua disanima di Jamming With Edward, partendo da quelli che di solito vengono trascurati: “Un discorso a parte merita la sezione ritmica formata da Bill Wyman e Charlie Waits, che all’epoca erano in forma come poche altre volte nella loro lunga carriera. Del resto basta ascoltare gli album ufficiali dei Rolling Stones di questo periodo per capire che pochi musicisti avevano il punch ritmico e la sicurezza che Watts e Wyman ostentano in questa session londinese”. Lo stesso, scrupoloso trattamento Carlo Boccadoro lo riserva agli Area, contestualizzandoli negli anni delle proteste giovanili, o a Claudio Lolli, a Karlheinz Stockhausen o a Harold Budd, John Cage o al Black Album di Prince, inseguito come una misterioso oggetto non identificato da piazzare sul piatto alla prima festa utile perché, pare di capire, forse i duri non ballano, ma i direttori d’orchestra, invece sì. Il tono, pur essendo colto, puntuale e preciso, è anche leggero, sempre curioso, il più delle volte condito da una sana spruzzata di ironia. Gli episodi raccontati da Carlo Boccadoro sono tantissimi ed è curioso quello che lo vede impegnato in una conduzione notturna a Radio Popolare mandando musica, al solito (e giustamente), piuttosto ricercata. All’ennesima variazione di John Cage, un ascoltatore ormai “esasperato” lo chiama e gli urla nel telefono: “Ma trovati un lavoro!”. Per esperienza, confronti del genere in radio capitavano spesso (e suppongo capitano ancora) ed è “il bello della diretta”, però introducono a una riflessione giusta e polemica quel tanto che basta. A Los Angeles, Carlo Boccadoro lavora a Bad Blood, un’opera che verte sulla tragica e brutale serie di esperimenti volti nell’arco di quarant’anni, dal 1932 al 1972, su circa quattrocento afroamericani. I dettagli li trovate tutti in 12. Un tema scomodo, spigoloso e come sempre pericoloso quando ci sono di mezzo le subdole trappole del razzismo, ma che Carlo Boccadoro decide di affrontare comunque perché “non mi sembrava giusto stare fermo a guardare senza esprimere perlomeno un’opinione contraria alle tendenze dilaganti”. Concluso il lavoro, ma come sempre immerso nella musica, va ad ascoltare la Los Angeles Philarmonic Orchestra diretta da David Robertson in un programma di composizioni del ventesimo secolo, tra cui Edward Varèse e Frank Zappa. La sala (la Walt Disney Concert Hall) ospita 2.265 spettatori e i biglietti sono esauriti per tutte e tre le repliche. Fate voi i conti. La riflessione di Carlo Boccadoro, alla fine di 12, è inevitabile (e condivisibile): “Mi convinco sempre più che le leggende sulla musica contemporanea incomprensibile che mi vengono ripetute da decenni siano lo patetiche scuse per giustificare la pigrizia mentale e l’ignoranza di troppi operatori musicali del nostro paese”. Come ben sappiamo, questo non vale soltanto per la “musica contemporanea incomprensibile”, ma anche per modelli molto più “accessibili” che purtroppo, e/o per fortuna, non corrispondendo agli standard di banalità e di idiozia, ormai sono trincerati in piccoli rifugi di provincia.

lunedì 18 marzo 2019

Nicola Gervasini

In un’America che non è poi così lontana, David Pry trova un disco degli Almanac Singers, comprensivi degli irriducibili Woody Guthrie e Pete Seeger, tra i ricordi del padre, già un fiero patriota americano. La scoperta alimenta molti dubbi nelle riflessioni del figlio, tenendo in considerazioni che, negli anni della guerra del Vietnam, avrà modo di confrontarsi, attraverso la musica e le canzoni, con ben altre contraddizioni. I protagonisti di Rolling Vietnam conducono a rileggere un passato destinato a non passare mai: Nicola Gervasini ha ricostruito un’avvincente storia della guerra del Vietnam attraverso la musica e lo sfondo generazionale, che lega David Pry al padre e alla figlia Melinda (la storia comincia proprio con lei e con un disco di Bruce Springsteen, protagonisti di un breve prologo ambientato nel 2006) serve soltanto a riannodare le storie, i legami, i segreti e le virtù di canzoni che, come scrive Willie Nile nella prefazione “hanno risvegliato la coscienza di una nazione e hanno aiutato a trovare il modo di chiudere quella guerra”. Una scelta coraggiosa perché la materia era (ed è) vasta e complessa visto che “ci sarà sempre una guerra da combattere in questo mondo” e che quella del Vietnam fu ambivalente e ambigua: uno scontro impari sul campo di battaglia e un conflitto aperto tra diverse generazioni a casa, in America. Lo ricorda anche il principale alter ego del protagonista, Hank, quando gli dice: “Le guerre lasciano solo morti sul campo, da questo inferno ne usciremo tutti lacerati”. È andata così, ma dato che, come scriveva Paul Virilio, “non c’è guerra senza rappresentazione”, Rolling Vietnam trae nutrimento delle infinite ricostruzioni, partendo dalla frattura verticale narrata da Philip Roth nell’inevitabile Pastorale americano e dalla ribellione visionaria e psichedelica di Tim O’Brien in Inseguendo Cacciato, per non dire delle dozzine di film che hanno alimentato un intero immaginario. Qui, trattandosi di una “radio-grafia”, come spiega il sottotitolo, Nicola Gervasini si è dedicato piuttosto all’ordito di una colonna sonora che, a sua volta, ha determinato un modo unico e indelebile di percepire la guerra del Vietnam. Come un sarto paziente e certosino, ha provato a cucire e ricucire gli strappi, canzoni dopo canzoni, Phil Ochs dopo Bob Dylan, i Doors dopo i Buffalo Springfield, John Prine dopo Merle Haggard, ballata per ballata, mettendo tutti i nomi e le date e le informazioni nel tessuto di una trama che, proprio attraverso la musica, si evolve in modo spontaneo dalle fondamenta di un saggio per diventare, a tutti gli effetti, un romanzo compiuto. La metamorfosi avviene in corso d’opera, con naturalezza, cavalcando un’onda emotiva irripetibile perché, come diceva Michael Herr in un’intervista con Salman Rushdie, “in quegli anni il rock’n’roll ebbe una circolazione che non ha mai più avuto. In un certo senso la guerra è sopravvissuta al rock’n’roll”. L’opinione alla fonte di Rolling Vietnam è un riflesso perfetto e complementare di quella constatazione: “In fondo il Vietnam aveva salvato il rock’n’roll da morte certa, dandogli l’occasione di raccontare tutto in diretta, cogliendo ogni attimo e ogni sensazione di qualsiasi altra forma di espressione artistica. Era la guerra ad aver preso il ritmo del rock’n’roll, non il contrario”. È già sufficiente così perché leggere queste pagine “vuol dire semplicemente cercare di capire, guardare sempre oltre le parole e i fatti”. Nell’ignoranza, nella vacuità e nelle banalità vigenti, suona persino rivoluzionario.

martedì 12 marzo 2019

Amedeo Anelli

La poesia di Amedeo Anelli in Neve pensata è un’insistente ricerca di silenzi, di contrasti, di orizzonti e di modi per scolpire il tempo. Una vocazione che si manifesta già nei passi conclusivi della densa ouverture del primo Notturno, quando Amedeo Anelli si chiede: “Ma chi sa più scrutare il segreto di quelle stelle? Chi conquistare il senso del fiorire muto del tiglio? La musica densa del tempo? Il silenzio potenziale. S’incardina la vita”. La risposta arriva, con le sembianze di un’eco, nel successivo Notturno che ricorda come “il mondo terribile è quaggiù, poltiglia e gelo, e il sordo rumore di un ramo che si spezza”. È evidente l’urgenza di delimitare gli spazi dove possano prendere forma le Rappresentazioni del tempo che, in fondo, sono la spina dorsale di tutta la Neve pensata. L’elemento geografico (e climatico) non è imperante, ma non è nemmeno trascurabile perché, come scrive Amedeo Anelli in Stele I, “la lingua muove discorso nel vuoto segnato irraggiungibile come il limite dello sguardo”. Per comporre il conflitto tra visibile e invisibile, la pianura lombarda si rivela l’habitat ideale, vista l’esiguità delle prospettive che a tratti si riducono a una sola dimensione (orizzontale). In questo senso, conta più la nebbia, della neve. La nebbia è per Amedeo Anelli, quello che il mare era per Montale: uno specchio e un canovaccio, una maschera e un  giardino segreto. Quando, con una piccola deviazione da quelle che Gianni Celati chiamava le “condizioni di luci sulla via Emilia”, ci si inoltra nella campagna (Invernale, naturalmente) la poesia diventa convivio, a base di menù ruspanti (“nei paioli: cotechino e polenta fumanti”) frutto dell’idea di “fare comunità, fare cibo”. La sosta permette di scoprire angoli di una terra dove il tempo non si è ancora imbruttito, con “lo stupore della luce scolpita nelle tenebre” che si rivela con “il segreto delle fiamme e delle braci, poi cenere”. I particolari domestici si sommano spontaneamente alle inquadrature e ai movimenti, associando così anche gli interni e gli esterni. È un pettirosso, non senza una sorprendente grazia, nella prima delle Progressioni che compongono In memoriam, il corpo centrale di Neve pensata, a condurre Amedeo Anelli in un labirinto di dediche ed elogi,   tracce ed ombre, sguardi e ricordi. Come vuole la tradizione, il pettirosso porta la neve e, eccola qui, la neve è schermo, è cornice, è muta magia che permette di ricevere un toccante messaggio dagli anfratti della prima guerra mondiale (Dal 1915) e che diventa sfondo per la frequente apparizione dei treni, l’unica variazione dinamica e, nel complesso, un’importante segmento simbolico. “Tutto va all’indietro come in treno il paesaggio, se cambi posto fugge tutto in avanti, nel non visibile” scrive Amedeo Anelli nei versi di Linee, nel cuore di Tessuto i corpi, terza e ultima parte di Neve pensante. Sono parole che indicano le svolte suggerite da un’Offerta musicale (“Come il fondo di un cassetto, il pensiero sostiene lo sguardo nel trascorrere della luce, nel centro dell’esplosione”) o dai Luoghi del silenzio, che portano verso la neve macchiata da un “tempo crudele-barbarico” a Beslan, attorno a cui matura la convinzione espressa in Principi e apologhi: “Ma vincono le tenebre. A pochi metri il nero fondale. Un drappo che avvolge e rende invisibile”. La visione è più che credibile, ma civilissima e sentita poesia di Amedeo Anelli non dispera: si accorda alle note dell’emozione e trasmette il calore di un focolare, con la giusta devozione al ricordo (“Mi guardi da una fotografia, ti porto con me in incerta navigazione, in questo bianco assoluto in questo bagliore freddo, nel tepore del mio corpo segnato dalla memoria”) e una scrupolosa vicinanza alle sorprese che ancora può riservare una terra piatta e indecifrabile.

venerdì 1 febbraio 2019

Eugenio Montale

Non deve essere stato semplice identificare Ossi di seppia, essendo l’espressione della convinzione di Eugenio Montale che “lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’illustra triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti nei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume”. Ossi di seppia osservava quel rigore fin dalla postilla introduttiva, dove Eugenio Montale avvertiva che “se procedi t’imbatti, tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti, scancellati per giuoco del futuro”. È una libertà che apre scenari maestosi e labirintici, non immediati e da indagare con scrupolo come fece Alfredo Gargiulo nell’introduzione alla seconda edizione, nel 1928: “Sembra che il compito dell’esprimere gli diventi, esso, atto di vita; e come tale gli l’affronti, affidandosi all’impulso, a tutto rischio: come uno che senta nella singolare difficoltà della materia da dominare, fors’anche il pericolo che il compito gli resti interdetto fin dall’inizio. Così, è dir poco che manca in lui la letteratura d’ordinario surrogante la poesia: quasi si vorrebbe dire, invece, che egli opera addirittura, dal primo moto e per tutto il corso dell’esecuzione, letterariamente a caso vergine”. È un coraggio che si scova subito tra Vento e bandiere (“Ahimé, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E scampo n’è: ché, se accada, insieme alla natura, la nostra fiaba brucerà in un lampo”) e ancora di più nel cuore di Ossi di seppia dove Montale manifesta, senza alcun timore, la sua indipendenza: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Le parole sono levigate una per una, i versi si stendono con la dolcezza delle onde liguri, ma con la forza di una frustata. Non sorprende che Mario Luzi, in Vicissitudine e forma, sostenesse che “Montale, in altre parole, tende a una poesia esplicita con mezzi del tutto interni; esprime una crisi della conoscenza, divenuta provvidenzialmente crisi dell’esistenza, ne trae conclusioni che vanno al di là del contegno intellettuale: ma si affida all’imponderabile dei suoi soprassalti di vitalità, alle incursioni della memoria e dei desideri frustrati; e insomma obbedisce alla sua vicissitudine umana che, repressa, non ha perduto ma forse acquistato potenza”. Rimangono i panorami in tutti i dettagli, da Portovenere (“Là non è chi si guardi o stia di sé in ascolto. Quivi sei alle origini e decidere è stolto: ripartirai più tardi, per assumere un volto”) all’abbraccio di tutto il Mediterraneo, un orizzonte in cui Montale vede come “nel destino che si prepara, c’è forse per me sosta, niun’altra mai minaccia”. È la cornice ideale di Ossi di seppia così come la evidenziava Sergio Solmi: “Fasi del tempo, aspetti del mare e delle terre di Liguria, e le labili esperienze d’una vita rassegnata e abbandonata al fluire dei suoi minuti spersi, che nelle cose ritrova a volte rispecchiati i segni della propria sconsolata fatalità, questi sono in genere i temi delle liriche qui raccolti. Questi Ossi di seppia scintillanti e duri ci giungono ancora intrisi d’azzurro marino e diffondono al perduta malinconia dei rottami che il mare rigetta sulle sponde del suo abisso ignaro del trapasso dei giorni. Questo mare, se non è certamente il tranquillo specchio decorativo delle cartoline illustrate, non è neppure un concetto o un supporto metafisico. È un mare vivo e cangiante nei suoi multiformi aspetti, che corrode la terra col salso delle sue maree e impregna del suo fiato gli olivi e i limoni delle ripe ardue”. È quello l’aroma definitivo degli Ossi di seppia, a cui va aggiunto soltanto l’ultimo consiglio ricevuto nell’occasione da Umberto Saba: “Sorvegliati molto, e non abbandonarti all’affluire delle belle immagini”. Un bel suggerimento.

mercoledì 30 gennaio 2019

Francesco Biamonti

C’è qualcosa di shakesperiano in Edoardo, e non solo per via del nome. Il protagonista di Attesa sul mare coltiva i dubbi e le perplessità verso “un mondo di malinconia e di sforzi umani”, che ha come azimut la destinazione del suo ultimo viaggio da capitano. Deve portare una vecchia nave, l’Hondurian Star, da Saint-Malo a un punto non precisato delle coste bosniache. La missione è ambigua e foriera di presagi, non ultimo perché gli viene affidata a Tolone, nello stesso porto in cui, nel 1942, la flotta francese si è autoaffondata per non cadere nelle mani del nemico. Nella stiva c’è un carico di armi che aspettano di partecipare al massacro, l’ultima guerra civile europea sulle rovine della Jugoslavia. Al momento della partenza, Edoardo si lascia alle spalle il tormentato legame con Clara, l’amicizia con Giovanni, gli ulivi e le rocce e s’inoltra in un labirinto marino, guidato dall’astronomia. La natura della navigazione è furtiva: sulla superficie del Mediterraneo incombono scogli, correnti e portaerei che è necessario evitare perché “il mare è mare, ha una sua innocenza”, ma gli uomini hanno un’innata vocazione a tradirsi. Sull’Hondurian Star prevalgono allora i silenzi: le parole, nella babele di lingue di ufficiali e marinai, sono un impaccio e i gesti sono centellinati e tutti mirati a mantenere la calma e la  rotta. Si scrutano le costellazioni, si versa un po’ di gin, si evitano le luci, si annusa il vento. L’Attesa sul mare trascorre nella condivisione di piccoli momenti, dopo il tramonto, prima nell’alba, nelle ore più umili della notte, quando la memoria diventa “un naviglio leggero” e, cogliendo il senso della traversata in tutti i suoi misteri e le sue difficoltà, Edoardo arriva a concludere che “La vita è vita, ci giochiamo una carta”. La voce di Francesco Biamonti collima con quella di Edoardo: è parca, essenziale, concentrata sulle luci, sulle ombre e sui riflessi, che sottolineano ogni frase. Nell’evenienza, può essere stridente o dolcissima, ma è ricamata su misura per i paesaggi non meno che per i personaggi di Attesa sul mare. Un’attenzione meticolosa che però non perde di vista un orizzonte più ampio, così come lo descriveva Francesco Biamonti in Scritti e parlati: “In realtà volevo provare se ciò che c’è di fondamentalmente umano, può tenere davanti al caos, agli odii storici contemporanei: cioè se l’uomo può contemplare o agire dentro queste situazioni mantenendo una visione del mondo antica, fatta di un umanesimo a volte tragico, a volte anche intimistico”. Il dilemma dell’Attesa sul mare è un riverbero di tempi sanguinosi: la guerra è “solo una malattia” da cui non si guarisce ed Edoardo è testimone di un’interminabile tragedia che Francesco Biamonti ha saputo accostare quella straordinaria premura, che lui stesso ha descritto così: “Rispetto agli altri libri Attesa sul mare tocca un punto più cruciale, e quindi mi è occorso maggior pudore, maggiore riservatezza, per non portare la scrittura al grado della cronaca, ma fare in modo che mantenesse la complessità poetica di una visione del mondo basata anche sull’umanizzazione di ciò che circonda gli uomini. Perché è destino umano abitare un mondo, ma è anche destino umano sognarne un altro”. Toccante.

sabato 26 gennaio 2019

Claudio Magris

Gli Alfabeti di Claudio Magris rispecchiano la sua propensione a vedere tutto come parte di un ampio movimento, a partire dalla considerazione che “la letteratura è un continuo viaggio fra la scrittura diurna, in cui un autore si batte per i propri valori e i propri dei, e quella notturna, in cui uno scrittore ascolta e ripete ciò che dicono i suoi demoni, i sosia che abitano nel fondo del suo cuore, anche quando dicono cose che smentiscono i suoi valori”. L’approccio critico e analitico è trasversale ai temi trattati dalla letteratura e le letture sono numerose e poliedriche: Salgari, Kipling, Cervantes, Borges, DeFoe, Camus, Novalis, Grillparzer, Kafka, Turgenev, Sologub, Kraus, Walser, Musil, Ibsen. Se la cultura mitteleuropea (“un mondo di ex e un mondo ex”)  è la costante degli Alfabeti, compresi gli scrittori di Praga (Urzidil, Hrabal, Marek) il confronto con la tradizione anglosassone è altrettanto continuo (DeFoe, Melville, Faulkner). Gli Alfabeti radunano molte voci diverse e dissonanti che hanno in comune la forma del romanzo intesa da Claudio Magris come “il genere letterario dello stadio adulto, ossia della moderna età del lavoro, ed è la storia del rapporto fra l’individuo e i fini oggettivi del processo sociale, un rapporto visto ora come dolorosa antitesi fra poesia del cuore e prosa del mondo ora come conciliazione. Il romanzo è avventurosa conquista del mondo ma, molto più spesso, odissea del disincanto e della delusione”. Da Omero in poi, dentro quella cornice, per Claudio Magris “ogni scrittore conosce, più o meno intensamente, l’esperienza estraniante e creativa di quest’incontro con un sosia o almeno con una componente ignota o perfino sgradita di sé stesso. Se è un vero scrittore, la lascia parlare anche quando preferirebbe dicesse altre cose”. Magris ha il gusto, l’eleganza e la capacità di annodare ogni singolo libro all’idea di scoperta, di avventura che traduce nell’idea che “la vita è insieme questa fonda oscurità e questa luce fioca ma tenace. Le filosofie, le religioni, le articolate visioni del mondo devono responsabilmente scegliere tra queste due verità, pur facendo i conti con entrambe; devono dire se prevale la luce o la tenebra, se l’esistenza è illuminata da un significato o se è precipitare nell’abisso. La letteratura invece non ha doveri di coerenza ideologica, non ha messaggi da proporre né sistemi filosofici e morali da enunciare; può e deve rappresentare la contraddittoria esperienza del tutto e del nulla della vita, del suo valore e della sua assurdità. Per questo lo scrittore più grande è spesso quello che non sembra avere una filosofia e forse nemmeno una personalità precisa; come Shakespeare, è un nessuno che parla per tutti, dando voce alla disperazione come alla felicità”. Dalla lettura alla scrittura, il passo è, almeno per Claudio Magris, simultaneo, ma non indolore perché “scrivere, in certi casi, significa pure dar voce, anche senza accorgersene, a quelle esperienze che non sono state utilizzate e rielaborate nella consapevole costruzione della propria personalità e della propria visione del mondo, ma che sono rimaste dimenticate e sepolte in qualche sottoscala dell’anima, come materiali non adoperati per costruire o arredare la propria casa”. Neanche a dirlo, Claudio Magris preferisce gli outsider ai best seller e ricorda Vento sottile di Stefano Jacomuzzi o Dalla vita di un fauno di Arno Schmidt per non dire di Prima della fine di Ernesto Sabato e Aurora boreale di Drago Jancar, ma anche Chinua Achebe o Jamaica Kincaid come esempi del fatto che “la letteratura è manipolazione, falsificazione, imbroglio e menzogna, ma ciò che la fa vivere è la sua nostalgia della verità e della vita” e “cerca di coprire e addomesticare l’orrore originario della vita, ma contemporaneamente non può fare a meno di scatenarlo, squarciando sé stessa e la propria ordinata tessitura”. Gli Alfabeti di Claudio Magris sono, in effetti, piccole lezioni che, nella loro brevità, colgono però la letteratura in una posizione vitale, non accademica, non elitaria, ricordando, scrittore dopo scrittore, e romanzo dopo romanzo, che “forse la funzione di ogni arte, a differenza della filosofia o della religione, è quella di raccontare e rappresentare ciò che succede al cavallo che ci tira giù o meglio a noi quando lo lasciamo a briglia sciolta e lo seguiamo, non solo in disordinate ma forti passioni, bensì pure in vane astiosità, anche nelle invidie testimoniate da quegli insulti fra poeti, forse inevitabili nella debolezza umana”. La letteratura diventa così una mappa, un codice, quell’insieme di Alfabeti che spiegano, in modo molto pratico, come “un’idea, per essere efficace e agire sulla realtà, deve diventare un’energia. Infatti a un agorafobico non basta sapere razionalmente, per sfatare la sua angoscia e attraversare una piazza, che in essa non ci sono pericoli, ma ha bisogno che questa conoscenza sia divenuta sentimento spontaneo, vissuto con tutta la sua persona, anche con il corpo, e non solo con la mente. Questo vale per tutte le convinzioni, pensieri, stati d’animo e affetti di un individuo o di una collettività”. Come un naufrago che avvista qualcosa all’orizzonte e non sa se è un’isola o soltanto un miraggio ma, in ogni caso, non può fermarsi. 

giovedì 17 gennaio 2019

Gianni Celati

Le note di viaggio che si sviluppano tutte attorno alla vita dei Gamuna nascondono, dietro lo sguardo etnografico e antropologico, e l’illusione di un popolo, o due, una forma di narrativa che torna ad essere strumento e mezzo di indagine, di comprensione, di conoscenza, se non altro un coraggioso tentativo di avvicinare “la grande allucinazione del mondo”. In questo processo, Fata Morgana ha solide radici nelle Avventure in Africa e non soltanto per gli orizzonti e i paesaggi che condivide, ma proprio per la stessa predisposizione a rincorrere “dietro soltanto a quello che non si è capito bene”. La fantasmagorica realtà dei Gamuna, che hanno una lingua che cambia intonazione e significati con il trascorrere della giornata, che sembrano schivare con innata naturalezza ogni tensione, e che coltivano pazientemente il gusto del paradosso (uno dei motti degli anziani Gamuna è: “Tutto quello che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo quello”), si riflette, in un mirabile gioco di specchi, di ombre e di luci, con gli effimeri passaggi di un’altra civiltà, quella occidentale, quella cosiddetta moderna. Nella Gamuna Valley si presenta con una galleria variopinta di personaggi (Victor Astafali, Augustìn Bonetti, sorella Tran e tutti gli altri da scoprire tra le righe) che evocano colonie, missioni, avventure, studi e reportage insieme all’ombra, costante ed inquietante, di una guerra che non finisce mai. Separati simmetricamente, i due mondi guardano però nella medesima direzione, che è poi l’unica, come scrive Gianni Celati in un passaggio che è un po’ la chiave di volta di Fata Morgana: “Dicono che ognuno corre dietro a certe illusioni e nessuno può farne a meno, perché tutto fa parte d’uno stesso incantesimo. Dicono che alcuni miraggi sono mortali o procurano guai, altri danno l'impressione di soddisfare la fame o la sete, le voglie carnali o i sogni di gloria. E i miraggi del deserto sono particolari solo per questo: perché mostrano che inseguendo le illusioni ci si sbaglia sempre, e non c’è modo di non sbagliarsi, e la vita non è che un perdersi in mezzo ad allucinazioni varie”. A quel punto, il resoconto dei viaggi nelle terre dei Gamuna, un popolo immaginifico che è nello stesso tempo complesso e ingenuo, diventa qualcosa in più dell’occasione per il ritratto fedele di una varia umanità di outsider, viandanti, avventurieri, filosofi, soldati, sognatori e fuggitivi d’ogni specie, perché poi “ognuno va per la sua strada, poi ci si ritrova come sopravvissuti a epoche di buone amicizie, col pensiero d’essere rimasti fermi là con la testa, e quel che viene dopo è un epilogo”. Le storie, sembra di capire, sono l’unica mappa che può essere ancora utile a fuggire l’incubo della realtà e a coltivare l’illusione di esseri vivi, ma anche in quel senso Gianni Celati, forte dell’esperienza nel deserto, reale o immaginaria che sia, si mantiene a distanza di sicurezza: “Io non mi occupo dei miraggi degli altri. Lo so, lo so che ognuno ha i suoi, ma non sta bene farli notare. Altrimenti insorgerebbe l’altro miraggio di volerli curare, di voler estirpare un altro dalle proprie stravaganti illusioni”. La distinzione s’impone, i pensieri fermentano, l’avventura continua.