lunedì 21 settembre 2020

Rote Zora

Come un germe impazzito e inarrestabile, nel corpo virulento del Regno Unito guidato dall’ineffabile Thatcher, il nucleo della Mutoid Waste Company nasce nel 1984 a Portobello. Sono ragazzi e ragazze che hanno scoperto un modo diverso di inventarsi arte e vita sulla scia delle turbolenze punk: recuperano rottami e li assemblano in sculture e mezzi che irrompono nelle feste con sonorità tambureggianti, acrobati, peripezie, fuoco e fiamme. In superficie, l’immaginario rimanda direttamente alla saga cinematografica di Mad Max, ma “il gene e il genio mutoide specializzato nel riuso di materiali di scarto, facilmente reperibili, per ricreare scenari cyberpunk in edifici occupati o magazzini abbandonati”, attinge alle radici letterarie di William Gibson, J. G. Ballard e (più di tutti) William Burroughs. È da lì che matura l’idea portante e determinante della mutazione che “si manifesta come un modello dinamico” quando “i rifiuti prendono sembianze zoomorfe e antropomorfe, i veicoli diventano fantasmagorici mezzi di trasporto o bizzarre case su ruote, mentre gli edifici abbandonati vengono occupati per viverci dentro”. Quello di Rote Zora alias Elisa Fosforino è proprio un viaggio lungo i trent’anni della Mutoid Waste Company, assemblato attraverso la forma di una storia orale, dove le testimonianze e i ricordi dei protagonisti hanno la precedenza, per quanto raccordati in senso storico e cronologico. Così si scopre, con   Giles, che l’idea “era quella di divertirsi attraverso la creatività e di lasciare che altri possano capire cosa si può ottenere se si dà spazio all’immaginazione. Più caos puoi creare, meglio è. Siamo stati anche un esempio di uno stile di vita e di una modalità di lavoro alternativo, perché abbiamo vissuto e lavorato al di fuori del sistema, di cui non avevamo bisogno per realizzare tutto ciò che abbiamo fatto recuperando quello che la società scartava”. In fuga dalla repressione thatcheriana, la Mutoid Waste Company attraversa l’Europa passando dai Paesi Bassi e da Berlino (dove, nelle sue costruzioni, finiscono persino dei cacciabombardieri MiG-21 e dei carri armati) per approdare in Italia, sui bordi in una cava dismessa. A Santarcangelo di Romagna, la zona temporaneamente autonoma e perennemente in movimento della Mutoid Waste Compagny, trova un luogo dove stabilirsi, senza fermarsi perché, come dice ancora Giles “l’atto di fare arte dai rottami, di trovare qualcosa di abbandonato a cui ridare la vita è una sorta di mutazione, la reinterpretazione dei rifiuti in qualcosa di diverso e con un nuovo significato”. Nasce allora Mutonia, mentre “un’arte del rifiuto sia in termini di strategia esistenziale sia in chiave creativa”, continua la sua diaspora disseminando la visione mutoid in tutto il mondo, da Tokyo ai deserti americani. Lasciando spazio alle singole voci, Rote Zora ha la grazia infinita di riuscire a districare le vicende personali e il complesso background della cultura mutoid, in un racconto fluido e ricco di suggestioni che non perde mai di vista quell’estremo senso di libertà che ha trasformato una sensibilità artistica e un’utopia in una realtà che si erge, con tutta la sua ruggine e le sue bizzarre saldature, come una fiera alternativa a un mondo annoiato, decadente e già morto. C’è qualcosa di eroico, alla fonte dell’intensità del concetto di Mutate Or Die, almeno secondo la definizione di Lu Lupan, ovvero che “un eroe non è uno che sta seduto a guardare un’ingiustizia, ma che si alza e fa valere il senso di umanità”. Sì, c’è un’anima pulsante e creativa che assembla e muove i resti metallici e li trasforma in creature sopravvissute al consumo, allo spreco e al disastro.

giovedì 17 settembre 2020

Ennio Speranza

Con l’accuratezza che distingue Le biciclette bianche, Joe Boyd si chiedeva: “La musica di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi con il pubblico quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di farne la propria”. La risposta è molto parziale, anche se contiene il nucleo essenziale dell’affascinante enigma che è la musica di Nick Drake. Ennio Speranza, musicologo, drammaturgo e sceneggiatore, consapevole che “ogni scrittura, a ben vedere, è riassunto”, ha deciso di concentrarsi su un unico album, Pink Moon, come esemplare di “una disgregazione” destinata a diventare un classico. La definizione affiora dalla considerazione di Ennio Speranza per cui “proprio perché apparentemente fuori da un tempo infinito e da uno spazio circoscritto, sebbene musicalmente e testualmente vi siano delle coordinate che sottilmente le qualificano, proprio perché allo stesso modo sgretolate e coese e apparentemente specchio di una crisi messa in scena e in divenire, sebbene bloccata in una registrazione, le canzoni di Pink Moon più di altre appartengono, o sembrano appartenere, a un costante, continuo presente che, guarda caso, è anche soprattutto il nostro”. Il processo di comprensione di Pink Moon appare sterminato, ma Ennio Speranza, supportato da una florida scrittura, ha organizzato un rete di sicurezza a un minuzioso approfondimento, canzone per canzone (con tanto di analisi strumentale), che però ha uno sviluppo molto lineare e metodico. A scanso di equivoci, evita di inoltrarsi nelle pieghe dell’esistenza di Nick Drake, un po’ perché altri si sono già cimentati con assiduità, e un po’ sapendo “che la biografia, e anche l’autobiografia se proprio vogliamo, ci raccontano le cose sino a un certo punto. Siamo scatole nere. Ogni persona lo è. Non possiamo fare altro che congetture. E queste, pur affascinanti, congetture rimangono”. Sono più che sufficienti le note introduttive a collocare i risvolti personali, poi Ennio Speranza si dedica con una convinzione ammirevole a una singolare disanima di Pink Moon che, per naturale estensione, svela che “ciò che stava veramente a cuore a Nick Drake era il dettaglio, il fremito, la vibrazione, il come sul cosa, anche perché, a pensarci bene, in qualsiasi manifestazione artistica, il come determina il cosa”. La dissertazione segue proprio questo alternarsi: l’analisi del come (le accordature aperte, i passaggi armonici, i toni della chitarra e della voce) si sposta e si sovrappone al racconto del cosa (i desideri, i sogni, i dolori e ogni singola atmosfera emanata da ogni singolo brano) arrivando alla conclusione, in qualche modo definitiva, che “Nick (Drake) si sofferma sugli argomenti, sulle cose, sulle parole, sulle immagini, sulle metafore, sempre quelle, sempre rimuginate, magari ripetute enfatizzate o replicate canzone dopo canzone, sentimento dopo sentimento, assomigliando sempre più a un meditante che osserva i propri pensieri e le proprie ossessioni, cercando a un tempo di accoglierle per liberarsene e non riuscendovi mai fino in fondo”. Il quadro è completo ed è uno invito a riscoprire Nick Drake a cui non si può rinunciare, anche perché, come diceva Robyn Hitchcock, “le sue canzoni sono andate alla deriva per vent’anni e poi sono sbarcate nel futuro”. È incredibile, ma come ha ben capito Ennio Speranza, è andata proprio così.