venerdì 29 giugno 2018

Leonardo Sciascia

L’affaire Moro è un caso raro, se non proprio unico, di lettura della storia contemporanea italiana, in un frangente complesso e oscuro, che non cede alla tentazione di ricostruire la realtà, o di usarla, o di collocarla in funzione dell’evenienza o dell’ideologia del momento. Leonardo Sciascia compie, a priori, una scelta rigorosa, ponendo chiarendo la prospettiva, piuttosto che gli obiettivi: “Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità, e quindi, spiegazione, nel tutto”. Leonardo Sciascia evita la palude delle dietrologie, dei complotti, dei dettagli investigativi e giudiziari, anche se ne è cosciente, come si può notare nella relazione (di minoranza) della commissione parlamentare che porta la sua firma e affronta L’affaire Moro da un punto di vista dialettico, basandosi soltanto sull’analisi delle lettere di Moro dalla prigionia. Il riferimento qui è ancora e sempre a Pasolini  quando diceva che “come sempre solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. Nella sua condizione, nel suo “stato di necessità”, di prigioniero “prelevato”, Moro, deve fare i conti con la “ragione di stato” che, prima del 16 marzo 1978, nella sua idea coincideva con un’indefinita “volontà generale”. Sciascia è lucido, a suo modo impietoso, nel sottolineare come Moro ha sviluppato “un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata”. Per districarsi nella labirintica prosopopea di Aldo Moro (e non meno, nei diktat dei suoi rapitori), Sciascia sceglie di infilarsi in un dedalo letterario con Elias Canetti, Voltaire, Tolstoj, Poe, Manzoni e infine Borges, Unamuno e Cervantes riuniti nel nome di Don Chisciotte. Matura una percezione di una realtà attraverso la letteratura, usata come un filtro per discernere il falso, le ambiguità, le mistificazioni, gli arrembaggi e le ritirate verbali, le cortine fumogene dei luoghi comuni e della retorica, utili soltanto a quello che, alla fine, anche Aldo Moro chiama molto semplicemente “il potere”. Ne nasce per ammissione dello stesso Sciascia “una sintesi, una tirata di somma: ma nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta, le sintesi non poteva apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità, quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla, sembrò generarsi dalla letteratura”. A quasi mezzo secolo di distanza dagli eventi, L’affaire Moro resta un caposaldo raziocinante, preciso, nitido di una grande solitudine intellettuale, e civile.

mercoledì 27 giugno 2018

Pierpaolo Vettori

L’amicizia tra Hans e Max nasce dall’illuminazione per il jazz, che è “folle, e senza senso, eppure ce la fa, resta coerente”. Sono soltanto ragazzi, l’unica guerra che conoscono è quella tra una banda e l’altra, o il naturale scontro con i genitori che sentono “la musica classica, che è quella roba priva di ritmo che ascoltano gli adulti stando seduti con l’espressione di chi aspetta il suo turno dal dentista”. Max suona la tromba, Hans scova un banjo e si applica, nella speranza che prima o poi arrivi (e arriverà) una chitarra. Il legame si moltiplica in un effervescente momento di scoperta, che comprende anche i barlumi dell’amore, dato che Hans vive una passione (platonica) per la sorella di Max, Kitty. Un senso di libertà, per quanto sotterranea e sfumata, li avvolge ed è spontaneo ricordare che “non si può resistere al jazz, non puoi schiacciare la testa della gente una volta che ha sentito lo swing. Anche se sta zitta, dentro continua a battere il piede a tempo”. Questo deve essere stato uno dei motivi per cui il jazz, e lo swing nel suo epicentro, non era tollerato (per poi essere bandito) nella Germania nazista. Un articolo su un giornale locale del 1938, riportato da Mike Zwerin in Musica degenerata ammoniva: “Non abbiamo simpatia per gli sciocchi che vogliono trapiantare la musica della giungla in Germania. A Stettino, come in altre città, si può vedere la gente che balla contorcendosi come se avesse il mal di stomaco. Lo chiamano swing. Non è uno scherzo. Mi prende una gran rabbia. Quegli individui sono dei ritardati mentali. Soltanto i negri in qualche angolo della giungla pesterebbero i piedi in un modo simile. Non c’è nulla di negro nei cromosomi germanici. Bisogna fermare questo pandemonio della febbre dello swing”. Il jazz non sarà l’unico problema. Max è l’amico che tutti vorremmo avere: è perfetto, sempre in difesa dei più deboli, che conosce tutti i passaggi e che, in una parola, è sempre “cool”, ma ha un difetto: la sua famiglia è ebrea. Non solo: è benestante, colta, elegante ed educata, tanto che Hans, nel confronto, sente tutti i limiti della sua, di famiglia. L’avvento del nazismo e delle imposizioni razziste ribalta la situazione: Pierpaolo Vettori è meticoloso e molto scrupoloso nell’evidenziarne, prima di tutto, il peso tra le persone, come ha influito nei rapporti e nei legami, ancora prima che nelle dimensioni politiche. Il contrasto è fortissimo e passa attraverso la figura di Gerd, un veterano della prima guerra mondiale (fratello del padre di Hans) e personaggio che funge da cerniera storica e insieme narrativa. Fino all’avvento del nazismo, Gerd non è altri che un povero reduce in caduta libera, pieno di rancore e di rimpianti. Abbracciato il nascente partito nazista, Gerd diventa all’improvviso una persona rispettabile e sarà protagonista dell’odiosa svolta tra le due famiglie. Le conseguenze si possono immaginare con facilità, ed è quello che inevitabilmente succede in un mondo di “adulti senza swing”. Sullo sfondo, nelle pieghe di lampi e ombre della Lanterna per illusionisti, c’è un maniaco (pedofilo) con cui Hans dovrà fare i conti molto più in là nel tempo perché “il passato non è solido come pensiamo, assomiglia a una vecchia rete da pesca smagliata. Crediamo di ricordare chi siamo e cosa abbiamo fatto, ma, a ben guardare, riusciamo solo a distinguere dei percorsi tenui e sfilacciati. Il resto sono buchi enormi che non riusciamo a giustificare”. Labirintico e stratificato, affilato come un coltello a serramanico, ma armonioso come una ballata di Jimmie Lunceford, la Lanterna per illusionisti emana una luce chiarissima che non cede né alle ambiguità né alla retorica e che Pierpaolo Vettori  dipana in un romanzo a immagine e somiglianza del jazz: istintivo, imprevedibile e affascinante.

martedì 12 giugno 2018

Diego Gabutti

Cospiratori e poeti mette in chiaro i motivi per cui Parigi è diventata lo snodo intellettuale, artistico, sociale e politico per più di due secoli. Dalla Comune di Parigi al Maggio 68, come recita il sottotitolo, si alternano nel manifestare vocazioni utopiche, ribellioni e inversioni di rotta “pittori, studenti, rivoluzionari, imbroglioni internazionali, turisti, psichiatri, gente equivoca, scultori e cortesi spie a corto d’informazioni”. Un milieu esplosivo di “uomini d’azione la cui azione consisteva nel sognare” che alla fine, passandosi il testimone di idiosincrasie, colpi di mano, barricate e follie, hanno generato la particolare tessitura culturale della Ville Lumière. Per dare forma all’esuberanza di Cospiratori e poeti, Diego Gabutti parte dai singolari protagonisti, tutti leader alla ricerca della “trama segreta del mondo, o meglio dei mondi plurali che si rincorrono eguali o sottilmente diversi attraverso l’infinito”, come diceva di Louis-Auguste Blanqui. Attorno alle biografie di Victor Serge, Paul Lafargue, François Maric Francois Maric, Victor Noir, André Breton, Pierre-Joseph Proudhon o Léo Malet si catalizza l’idea di Novalis di “romanticizzare il mondo”, applicata però alla realtà cittadina, con “la necessità di realizzare immediatamente le condizioni oggettive dell’emancipazione individuale. L’inizio del momento rivoluzionario deve segnare per tutti un aumento immediato del piacere di vivere”. Lo sosteneva uno dei principali Cospiratori e poeti, Charles Fourier, e Diego Gabutti, pur dando vita a un racconto ricco, colto, attraente ed effervescente, resta lucido quel tanto che basta da ricordare che “l’idea che i poeti si facevano della rivoluzione e dei rivoluzionari era un’idea da poeti”. Una distinzione indispensabile anche soltanto per mettere in risalto i momenti salienti vissuti da Cospiratori e poeti, in ordine rigorosamente sparso: l’affaire Dreyfus e la nascita dell’opinione pubblica moderna, il futurismo e il dadaismo, la guerra imperiale e la guerra civile, Fantômas e La società dello spettacolo, surrealisti e situazionisti, nichilisti e dadaisti, polemiche e amicizie, un flusso di idee senza sosta e rivolte celebrate, il più delle volte, tagliando salami e stappando bottiglie. L’avant-garde fatta “corpi armoniosi, movimenti ritmati, voci melodiose” resterà, per definizione, incompiuta, ma Cospiratori e poeti costituiranno una solida tradizione metropolitana alla radice, in conclusione, delle bandiere ribelli del 1968, perché,  ça va sans dire, “è soltanto a Parigi che scocca l’ora X”. I precedenti, illustrati da Diego Gabutti con savoire faire, sono evidenti e inamovibili e rispondono alla perfezione alla definizione finale di Guy Debord: “Era la poesia moderna, da cent’anni, che ci aveva condotti lì. Eravamo alcuni a pensare che bisognava attuarne il programma nella realtà; e in ogni caso non fare nient’altro”. Il sapore della sconfitta, che hanno assaporato più o meno tutti i Cospiratori e poeti non toglie nulla alla genialità, all’irruenza, alla fantasia e in definitiva all’estemporaneità delle loro visioni. Parigi è una culla per profeti, avevano capito per tempo, che il vero potere è nell’arte di sognare. 

venerdì 8 giugno 2018

Claudio Magris

Il viaggio lungo il Danubio di Claudio Magris è fratello e parallelo di quello di Predrag Matvejević nel Mediterraneo, e in comune ha anche il dato, indiscutibile, che “ogni esperienza è il risultato di un tenace metodo”. Nel caso di Claudio Magris si tratta di una continua, insistente e reiterata sovrapposizione con la letteratura, usata come una bussola capace di superare le latitudini e le longitudini, perché proprio “così il viaggiatore si inoltra fra le proprie allergie e i propri scompensi, sperando che in quelle fessure, incise come lame nelle quinte del teatro quotidiano, ci sia almeno un soffio o uno spiffero proveniente dalla vita vera, celata dal paravento del reale. Le manovre letterarie diventano allora una strategia per proteggere quegli strappi mal rattoppati nel sipario sulla lontananza, per impedire che quei minimi spiragli si chiudano del tutto; l’esistenza dello scrittore, diceva monsignor Della Casa, è uno stato di guerra”. Se la corrente del Danubio porta, senza alcuna possibilità di equivoco, nel cuore della cultura mitteleuropea, che Claudio Magris coltiva e sfoglia con devozione e leggerezza, e poi nei meandri balcanici, affrontati con acuta discrezione, nell’attraversare un confine dopo l’altro, prende forma una dimensione temporale astratta. Come se la storia finisse in un’ansa del fiume, “si vivono come contemporanei eventi accaduti da molti anni o da decenni, e si sentono lontanissimi, definitivamente cancellati, fatti e sentimenti vecchi di un mese. Il tempo si assottiglia, si allunga, si contrae, si rapprende in grumi che sembra di toccare con mano o si dissolve come banchi di nebbia che si dirada e svanisce nel nulla; è come se avesse molti binari, che s’intersecano e si divaricano, sui quali esso corre in direzioni differenti e contrarie”. Lungo le sponde del Danubio, da Vienna a Budapest, il tempo è un imbarazzo difficile da concedersi visto che “l’identità è una ricerca sempre aperta e anche l’ossessiva difesa delle origini può essere talora una regressiva schiavitù quando, in altre circostanze, la complice resa dello sradicamento”. Il viaggiatore che “non ha l’assillo di fuggire, ma vorrebbe fermarsi, portarsi dietro persone e paesaggi” è obbligato a trovare un modo di interpretare la realtà proprio perché quando “sta venendo cancellata con violenza, pensarla diventa un atto di fede”. È lì che le riflessioni del potamologo si evolvono in un atlante dove la letteratura è vista prima “come trasloco”, dove  qualcosa “va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati”, e poi come “contabilità, libro mastro del dare e dell’avere, inevitabile bilancio di un deficit. Ma l’ordine del registro, la precisione e la completezza del protocollo possono dare un piacere che compensa la sgradevolezza di ciò che viene annotato”. Sul Danubio l’elenco delle occasioni da conteggiare è sterminato: imperi decadenti e decaduti, Wagner e Canetti, biblioteche e castelli, ponti e frontiere, finché “sul ciglio del silenzio” Claudio Magris si accorge che “forse scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza, quel nulla che si apre d’improvviso nelle ore e nei giorni, fra gli oggetti della camera, risucchiandoli in una desolazione e in un’insignificanza infinita”. A quel punto Danubio diventa qualcosa di più e il pellegrino, con il bagaglio pieno di un viaggio meticoloso e appassionato può sentirsi soddisfatto si accorge che “lungo il fiume che d’estate, ci dicono, talora scompare, il passo accanto al mio è inconfutabile come quel corso d’acqua e nella sua onda, seguendo la curva delle rive, forse so chi sono”. Il carattere del Danubio, aristocratico in superficie, democratico in profondità, consente l’immediato passaggio dall’epifania individuale a quella collettiva che Claudio Magris, in conclusione, riassume così: “Noi siamo ciò in cui crediamo, gli dèi che alberghiamo nella nostra mente, e questa religione, alta o superstiziosa, ci segna indelebile, s’imprime nei nostri lineamenti e nei nostri gesti, diviene il nostro modo di essere”. Una splendida avventura.