venerdì 30 settembre 2022

Luciano Federighi

In Confessin’ The Blues, Luciano Federighi un navigatore di lungo corso, ascolta le grandi voci del blues e del jazz cantare e, seguendole negli incontri, osserva gli sviluppi della musica nelle città. Da Los Angeles, che “sfugge perennemente allo sguardo, sorniona, informe, maliziosa, traditrice a San Francisco, dove, annota Luciano Federighi, “la realtà non abita i suoi marciapiedi, o meglio non li abita la realtà che conosciamo e che ci conforta” fino Las Vegas (“C’è genialità e potenza nell’orrore di questo strano, dilatato avamposto del mondo civile, in questo debordante fortino lambito dal niente”) è una ricerca assidua che coinvolge un moltitudine di cantanti: da Mike Henderson e Bill Henderson fino a Dee Dee Bridgewater, Luciano Federighi ricostruisce le interviste con una scrittura florida, rispettosa e discreta nei confronti degli interlocutori, ma approfondita nei temi e le adorna di una congrua dose di consigli discografici, e in quello Confessin’ The Blues si rivela una vera e propria miniera inesauribile. Gli aneddoti si sprecano, da Esther Phillips con una mazza da baseball a una rocambolesca e comica intervista telefonica con Etta Jones, eppure il cuore dei tête-à-tête restano le canzoni, la musica, le interpretazioni, le radici e se, come dice Johnny Otis, “quello delle influenze è sempre un gioco complicato da dipanare, un aspetto della tua evoluzione personale che è arduo sondare”, Luciano Federighi trova comunque il modo di chiedere conto di passioni e punti di riferimento e le personalità che emergono sono Dinah Washington, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e, più di tutti, Billie Holiday. C’è spazio anche per ricordare altri grandi protagonisti e i nomi che ricorrono spesso sono quelli di Art Tatum, Cole Porter, Bill Evans, Frank Sinatra, Gene Krupa, Buddy Rich, Bill Evans e altri raffinati accompagnatori attenti a ogni singola sfumatura delle melodie, delle parole e degli umori degli interpreti. Per loro vale l’apologia che Luciano Federighi raccoglie parlando con Tony Bennett: “Troppe persone non si rendono conto del livello artistico straordinario che possono raggiungere gli strumentisti che improvvisano, i musicisti di jazz. Sono individui perlopiù estremamente dediti alla loro arte, capaci di lavorare duramente sul loro strumento. E ti insegnano anche a vivere; spesso i musicisti di jazz meritano di essere ascoltati, perché sono dei grandi filosofi, che compenetrano una visione lucida della vita con un loro peculiare romanticismo, la loro intensità di feeling”. Luciano Federighi dedica molta attenzione ai molteplici aspetti della vocalità (dalle prestazioni tecniche alla qualità dello svolgimento delle parole fino alla postura sul palco) anche se poi, in definitiva, ha ragione Little Jimmy Scott, quando dice: “Per me è tutta musica, e i sentimenti che canto non hanno confini”. Su questo Confessin’ The Blues è allineato e attraverso le voci e soprattutto il feeling di Mark Murphy, Carmen McRae, Pony Poindexter, Johnny Adams, Meredith d’Ambrosio, Bobby McFerrin, Betty Carter, Ray Bryant, Houston Person, Anita O’Day, Cassandra Wilson, Jackie Allen, Kevin Mahogany prende forma un’idea “lirico-musicale” della canzone in sé dalle origini blues fino a Broadway, Hollywood e Tin Pan Alley, ovvero una sontuosa saga americana. Per quanto eterogenea, la provenienza degli articoli e degli aggiornamenti non impedisce a Confessin’ The Blues di avere una continuità, una coerenza e una sua logica nel dipanare la natura della voce all’interno di musica di gran classe, ma più di tutto si snoda come una lunga, intensa celebrazione per “il jazz, la libertà creativa”, che comincia, curiosamente, con il sogno di un’intervista a Etta James. Ci voleva.

lunedì 26 settembre 2022

Mario Maffi

Come il fiume sfocia nel mare, per chi scrive è inevitabile affrontare lo scoglio della narrativa, anche dopo anni e anni di intenso lavoro saggistico. È proprio il caso di Mario Maffi che giunge al suo primo romanzo con una lunga e ricchissima serie di volumi alle spalle, in gran parte dedicati alla cultura anglosassone,  nello specifico all’America e dintorni. Proprio lì comincia Quel che resta del fiume: Rhys Campbell è un uomo tormentato da rimpianti e da solitudini, compresa la brusca separazione dalla moglie Alison, ma ha la fortuna di essere circondato da solide amicizie: Gisela e Tom, che vivono su una barca, Marc, con cui condivide gusti, chiacchiere e passioni (politiche) e, soprattutto, Annette che è stata e sarà qualcosa in più di un’amica. Ha trovato un modus vivendi, che poi definisce il ritmo singolare e gentile di Quel che resta del fiume: Rhys ama bordeggiare (un termine ricorrente nel corso del romanzo), come se, arrivato a un punto critico dell’esistenza, avesse deciso di limitare i danni, ma quando alla sua porta appare Belle, figlia dell’amico Sal, artista genialoide di cui ha perso le tracce da tempo, l’onda della vita riprende forza, tra ricordi e passaggi futuri, tra storie e memorie e una lunga teoria di emozioni condivise proprio con gli amici. Le occasioni non mancano: ci sono cibi, bevande, letture, le canzoni di Kris Kristofferson, The Köln Concert di Keith Jarrett, la fisarmonica e le danze quando Belle incontra Arsène e i suoi parenti della comunità cajun, uno dei momenti più vitali del romanzo. In quei frangenti i paesaggi sono quelli di James Lee Burke, con le luci, i riverberi e i riflessi acquatici che filtrano tra le righe, ma il tono e soprattutto i lineamenti caratteriali di Rhys ricordano il tratteggio di Richard Ford con meno pretese, e molto più cordiale. Seguendo turbamenti e gioie del protagonista, Quel che resta del fiume allinea le esplorazioni già note nei saggi di Mario Maffi e qui si va da Mississippi a Nel mosaico della città, dedicato al Lower East Side, perché protagoniste sono le città: New Orleans e la Louisiana sono il baricentro del presente verso il passato di Chicago, Kansas City e New York che è anche una tappa intermedia verso il futuro di Londra. Alle dissertazioni puntuali sulla forma, sull’architettura e sull’essenza delle metropoli, si alternano, nei dialoghi tra Rhys e gli amici, gli eventi simbolici all’inizio nel nuovo secolo.  Dopo Katrina, l’11 settembre, il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, le guerre nel Medio Oriente, la crisi dei subprime del 2008, tutti i drammi americani che hanno così determinato la vita nel mondo. In realtà le scansioni temporali si confondono nella memoria e nello svolgimento della trama che è essenzialmente divisa in due parti, quella americana e poi quella europea (inglese, per la precisione) che si saldano proprio attraverso fitti orditi di storia e il minimo comune denominatore dei fiumi: il Mississippi, l’East River, il Tamigi. Lungo le rive si svolge una sottile rete autobiografica, e non soltanto per i viaggi americani: un po’ affiora in Marc, a partire dalla dedizione per i movimenti operai che sono un sottofondo costante in Quel che resta del fiume, ma in gran parte e ancora di più nel finale è proprio Rhys a inseguire Mario Maffi. All’appello manca solo Parigi (anche se il francese lo accompagna dal bayou all’East End), ma ci sarà occasione: i fiumi scorrono (più o meno) tranquilli, ma non si fermano mai.

mercoledì 14 settembre 2022

Amedeo Anelli

Ha ragione Amedeo Anelli quando scrive nel corso dell’Invernale VIII: “Non ci salverà la teosofia né il viaggio nella mente, ma nei prodigi della percezione il corpo vivente, e l’interrogazione sempre ricominciata, le strade della libertà e il no per affermare non arreso”. Proprio così Invernale e altre temperature affronta e definisce “l’estraneità che abita il mondo”: con una misura delicata e intensa, affacciandosi su “un impasto di terra e luce”, quello della pianura, dove la scrupolosa attenzione di Amedeo Anelli è riservata allo scorrere di una roggia come a un lieder di Schubert, alla definizione del pannerone e della galaverna o a un richiamo a Italo Calvino. Nessuna distinzione: i versi sono liberi, con o senza rime, in piccole stanze o quasi in piccole prose che fluttuano coraggiose e indipendenti, come succede in Nel mutare degli accenti: “Per quel berretto di fili di pioggia, calato sui rami la natura si dilata in assolo, i fili del mondo s’intrecciano anche in noi, nei tempi paralleli del riverbero e del silenzio, come alla fine di una riga andiamo a capo”. È una delle poesie dedicata alla poetessa e traduttrice (verso il francese), Irène Dubœuf: nella sua nota, dice che Invernale e altre temperature “è fondato sulla stessa tonalità, e la partitura è scandita da accordi su tre parole, luce/freddo/suono, declinati all’infinito in variazioni di intensità, il suono può arrivare perfino al silenzio, il freddo fino al caldo, la luce, fino al buio”. I contrasti si riempiono di senso, di calore, di musica e di voci perché la pianura, avvolta in una lattiginosa essenza, non le disperde e le tramanda attutite, con una dolcezza unica. La nebbia, come nota ancora Irène Dubœuf, è il filtro ideale di una poesia sostenuta dallo “sguardo attento e cuor sereno”, e si capisce perché: è il momento in cui l’acqua è sospesa tra la terra e il cielo. Gli elementi naturali e i fenomeni climatici (il vento, il gelo) che si agitano sopra e dentro “una campagna sommersa” sono una chimica delle possibili alterazioni dell’acqua e in Invernale e altre temperature le sue metamorfosi seguono quelle delle parole, dello spazio e del tempo, mentre “il paesaggio estraneo a sé, ci guarda come in sogno”. Ed è vero che “nella nebbia più luce non è più visione”: rende “l’ombra delle cose” visibile, la realtà trova i contorni del sogno e/o del ricordo, oppure una voce dall’infanzia che ritorna come una melodia ricorrente. Frammenti, dettagli, e piccoli particolari si incastrano nell’insieme determinando “l’immagine, la forma e la condizione”: il fuoco della cucina economica dove arde la legna e la fiamma è imprigionata e “i rossi cerchi arroventati della stufa” si liberano in disegni concentrici, mentre si rivela “un mondo insospettato, ed irriflesso nel grande freddo e nella mescolanza dei corpi”. Certo, queste magie succedono se “tutti questi segni se li sai leggere”, e Amedeo Anelli non solo sa riconoscere “ciò che basta nella poca luce contro il mattino”, ma riesce a trasmettere con un afflato partigiano, le dimensioni segrete dell’inverno, della pianura, di una terra che appare inevitabilmente orizzontale ed è invece molto profonda. Senza battere ciglio, anzi con nonchalance e spontaneità, Amedeo Anelli passa quindi dall’omaggio a maestri e amici (Dino Formaggio, Guido Oldani, Franco Loi, Roberto Rebora) alle riflessioni filosofiche, dalle tradizioni popolari all’osservazione acuta della vita quotidiana nella campagna, con uno spiccato senso di appartenenza, perché “se senti questa musica, fatta di caldo buono e silenzio”, sei nel posto giusto”, come scrive in Invernale II. E sì, se c’è qualcosa che ci può salvare è la poesia, e la nebbia.