venerdì 26 aprile 2024

Paolo Scardanelli

L’Irlanda e la Provenza, la Grecia e la Sicilia, Milano e Firenze, il viaggio di mille vite che in ogni sua tappa diventa una rappresentazione del pensiero e un riflesso della geografia delle emozioni. Tra Greta e Bruno, Paolo e Francesca, Andrea e Anna si profila un nuovo ordine, come se le costellazioni di Scardanelli abbiano infine trovato un’impossibile logica tra i fantasmi che si rincorrono verso gli orizzonti che L’accordo ha aperto nelle puntate precedenti, con repentini salti nel tempo e nello spazio. Uno squarcio porta nella Firenze new wave, quella dei Litfiba e dei Diaframma, dove Paolo vive un’intensa e tormentata love story con Francesca. Molti anni dopo è diventato, per sua stessa ammissione “una sentinella del tempo presente” e intorno a lui ruotano il passato, i ricordi, i sogni e la concezione definitiva che la vita sia “una dannata benedizione: appesi su di una croce, il volto contratto in una smorfia di dolore ma sorridenti per una consapevolezza che prezzo non ha. La vita vale la pena d’essere vissuta solo per questo: la benedetta consapevolezza che siamo fottuti. Tutto il resto è noia”. Il racconto di Paolo, l’alter ego di Scardanelli e protagonista della saga, rimbalza da una personalità all’altra, senza temere cambi di prospettiva. C’è Bruno, braccato da feroci criminali, c’è Anna, la madre, più volitiva e affascinante che mai e, di nuovo, c’è lo spettro di Andrea, e ancora Milano, la torre Velasca come un totem che sorveglia ritorni e partenze in continuazione, con un’assiduità estenuante perché la vita è fatta proprio così, senza sosta, e “non apparteniamo mai davvero a un posto sino a che non l’abbandoniamo; a quel punto il ricordo di ciò che eravamo in un’altra vita, in un altro luogo, ci afferra il collo e ci fa provare la più struggente delle nostalgie”. Restano istantanee di famiglie sfuggenti, ma tutto rientra nel flusso inarrestabile della scrittura di Paolo Scardanelli perché “i nomi sono connessi alle persone, le persone alle cose e ai luoghi. E, quindi, ai nomi. I nomi stanno alla vita come il sale agli ingredienti: ne determinano il sapore. E l’orientamento”. Le tormentate creature di Paolo Scardanelli esprimono tutta una gamma di sfumature dell’esistenza, con un finale eclatante dove l’intersecarsi delle vite si risolve in tragedia perché, pare di capire, davvero non c’è Un posto sicuro. La loro posizione è definita dagli eventi che si succedono, e che tentano di comprendere, e “allora tutto quello che s’agita in queste pagine, tutto il sangue e le lacrime e il dolore e i ricordi e le vite e le morti che trasudano da queste come innumerevoli altre pagine, altro non sono che un’epifania; quella dell’inconscio che, attraverso la memoria, si fa realtà”. Questo scostamento è necessario per penetrare in Un posto sicuro e del resto Scardanelli pensa che “forse dovremmo passare tutti una settimana in un campo di zingari. Guardare il mondo che crediamo ci giri intorno dritto negli occhi, soccombendo se necessario, e lo è necessario, ve l’assicuro. A onta del nostro orgoglio. Della benevolenza e dell’amore verso il prossimo”. A volte, il ritmo accelera (senza pietà) o, al contrario, rallenta alla velocità di un brindisi con un vino pregiato scoperto per caso (e per fortuna) o asseconda le canzoni di Ben Watt, Robert Wyatt, Neil Young e Amy Winehouse (su tutti) e fiorisce di citazioni esplicite e implicite, condito dalle digressioni filosofiche o dalla certezza che “talvolta abbiamo bisogno di dire bugie. Prima a noi stessi di modo che possiamo crederci, quindi, una volta che ci siamo bene convinti, possiamo estenderle agli altri, mettere la testa nella sabbia e andare avanti così. Anche per anni. Per una vita intera se necessario”. E così Un posto sicuro non si troverà mai tra le pur intense coordinate geografiche, piuttosto Paolo e Scardanelli avvisano che “la salvezza è una questione di volontà”, e soltanto nel florilegio in sé della scrittura resta una nota di speranza.

venerdì 8 marzo 2024

Marco Fazzini, Roberto Jacksie Saetti

Un testimone di molti tempi, un viaggiatore, un grande songwriter, un esploratore infaticabile, Eric Andersen si è sempre trovato nel luogo giusto: il Village, Woodstock, la Rolling Thunder, insieme a Janis Joplin e a Joni Mitchell, accanto a Bob Dylan o a Lou Reed, come se avesse prenotato un posto da osservatore privilegiato. In realtà è stato a sua volta un protagonista assoluto, capace di assorbire una quantità spropositata di bellezza in forma di romanzi, canzoni, viaggi e poesie, album in omaggio a Byron, García Lorca, Heinrich Böll e molto altro ancora. In Mingle With The Universe li racconta confidandosi a un manipolo di amici italiani (e americani) che hanno libero accesso alle sue passioni, e spesso le hanno condivise in un modo o nell’altro. In cima alla lista, Marco Fazzini e Robert Jacksie Saetti sono in realtà i cardini di una moltitudine di autori (Giorgio Checchin, Anthony DeCurtis, Barbara Di Dio, Gregory Dowling, Michele Gazich, Ian MacFayden, Stephen Petrus, Paolo Vites) che rincorrono Eric Andersen nelle sue odissee e seguono i non pochi fantasmi lungo la strada. È così che Mingle With The Universe è un caloroso omaggio a Eric Andersen, ma anche e soprattutto alla sua curiosità, emanazione diretta della stessa fame di arte & meraviglia dell’amica Patti Smith, ma convogliata con un entusiasmo immediato, diretto e contagioso. Eric Andersen è un raro esempio di artista che coltiva la cultura senza sosta ed è insaziabile nel procurarsi il pane quotidiano. Nelle pagine di Mingle With The Universe la sua attitudine è esplorata con lo stesso entusiasmo e nella lunga ed esaustiva intervista introduttiva, viene descritta la sua dedizione alla letteratura (“I grandi scrittori per me sono come angeli protettori, angeli posati su una spalla a controllare che il lavoro sia ben fatto. Non si tenta mai di imitare i propri eroi. Ti stanno solo accanto, e controllano che ci proceda, che non si finisca in acque basse o nel cliché di pensiero e immagine. Ti dicono che non sei solo. E ti incoraggiano”), l’ammirazione per i sogni e le strade della Beat Generation (“L’eredità dei Beat sta nel fatto che hanno introdotto gli americani, e la gente d’ogni parte, a un nuovo modo di pensare e di vedere, offrendo una alternativa e un modo libero di esistere, facendo respirare la vita, goderla, esserci dentro”), l’afflato verso la scrittura e la lettura (“I libri sono come delle finestre sacre verso mondi sconosciuti”) e le dissertazioni sulle magie del songwriting (“Forse le canzoni non hanno un’origine nel reale. Forse fluttuano solamente nelle nubi, e aspettano di essere tirate fuori dall’aria sottile”). Non a caso il centro di Mingle With The Universe è occupato da una selezione di quelli che chiama i suoi “documentari interiori”, ovvero le canzoni che, secondo l’illustre parere di Anthony DeCurtis, “senza tener conto dei suoi diversi soggetti, sembra aver scritto da un luogo profondo dentro se stesso”. Forse, tra i tanti indizi autobiografici, vale la pena ricordare che in Time Run Like a Freight Train celebrava “il poeta che aveva impegnato il suo mistero per un poco di sollievo”. È il segnale di un cerchio che si chiude da quando i suoi eroi “erano quegli spiriti ribelli e senza restrizioni che stavano scrivendo di una vita oltre l’ovvio, e che potessero demolire barriere”. Se c’è un senso nella ricca e composita formazione di Mingle With The Universe è proprio quello: è schierato in senso univoco (ma come si fa a non essere di parte con uno che ha scritto Blue River?) ed essendo bilingue, bisogna dire che è un labour of love come ce ne sono pochi e rende a Eric Andersen quel tanto di giustizia poetica che si meritava, da almeno mezzo secolo.