lunedì 16 luglio 2018

Paolo Cioni

Il secondo romanzo di Paolo Cioni va incontro con decisione alla lunga e florida tradizione della commedia italiana, ed è una scelta che rende molto più personale e originale la sua narrativa, rispetto all’esordio di Ovunque e al mio fianco. Le differenze sono sostanziali: se da una parte c’era l’esuberanza di una trama in movimento sulle strade dell’Europa, e con una Cadillac rubata a un fan di Elvis, qui c’è l’immutabilità della provincia, nello specifico di quel paesaggio ondulato alle pendici degli Appenini, tra Parma, Fiorenzuola e Fidenza. L’identificazione territoriale non è funzionale soltanto all’ambiente del romanzo. Si tratta di una collocazione che ricorda i narratori della pianura lungo il versante emiliano Po (Celati, Cavazzoni, Delfini) di cui Paolo Cioni condivide sia la naturale associazione geografica sia il gusto per un tono ironico, leggero, a tratti surreale. Una formula che trova la sua espressione migliore in Adelmo Santini, protagonista indiscusso di Il mio cane preferisce Tolstoj. Il suo è il perfetto ritratto dell’artista sulla via del crepuscolo: è stato uno di quei comici a cui, grazie all’intercessione televisiva, è stato concesso di tutto, radio, teatro, cinema e, immancabile, il libro riempito di battute e amenità assortite, per poi finire “lì, nel piccolo schermo luminoso e sempre più appannato, il mondo dello spettacolo dava la peggiore rappresentazione di sé: vecchi comici, attori sfiatati, giornalisti in sovrappeso, soubrette coperte di cerone, tutti ballavano, sudavano e ridevano e stonavano cantando canzoni di cui non ricordavano le parole, senza smettere mai di lodarsi gli uni con gli altri. Erano tutti grandi artisti, senza nessuna eccezione, i cantanti stonati e le ballerine che inciampavano nei tacchi. Tutti. Toccavamo il fondo insomma”. Solo che la televisione si mangia le sue creature, in particolare quelle che le si rivoltano contro, e per Adelmo Santini, così come per molti suoi colleghi, la stagione dell’oro e della sfortuna sfuma in un limbo indefinito, tanto che “ecco, a volte”, sarebbe addirittura meglio l’oblio. Adelmo Santini, poi, ci ha messo tutto l’impegno possibile tra una lunga teoria di fidanzate, compagne, amanti per una sola notte (e anche  una moglie, Vera), colpi di testa e abitudini bizzarre perché, come ammette con un certo candore, “se si tratta di colare a picco, nessuno più di me ha le carte in regola”. Dovrebbero bastargli la poesia della nebbia tra i pioppi, i suoi cani che gli sgranocchiano mezza biblioteca, i pochi e fidati amici, ma un giorno riceve una strana lettera anonima corredata da una minaccia di morte. In quel momento sta verniciando il soffitto perché come diceva il nonno non c’è “niente al mondo che non si possa sistemare con una buona mano di bianco”, e l’oscura missiva invece gli impone di ricordare che “le vecchie case sono così. Piene di fantasmi e di storie”. Sentendosi in pericolo, anche perché ha ancora molti conti aperti nei suoi turbolenti trascorsi, il Grande Santini (sì, perché se ne trova anche uno Piccolo, tutto da scoprire) prepara un elenco dei possibili mandanti e da lì comincia la lunga serie di avventure picaresche che caratterizzano Il mio cane preferisce Tolstoj. Tra un manager avido e un editore fallito, resta sullo sfondo l’effimero universo dello spettacolo e dell’intrattenimento, che Paolo Cioni sa raccontare con un sorriso brillante, non privo di una malinconica consapevolezza.

martedì 10 luglio 2018

Federico Fellini

Un dattiloscritto di ottantasei pagine rimasto inedito per oltre trent’anni (in parte fotocopiato e conservato presso la Cineteca Comunale di Rimini) rivela il classico sogno rimasto nel cassetto, ma la personalità di Fellini, “un inesausto inseguitore di miti” nella definizione di Sergio Zavoli, e la natura stessa del “soggetto e trattamento cinematografico (anche per la televisione)”, come annotava lo stesso regista nell’intestazione, insistevano per trovargli una giusta collocazione. L’ambizione del particolareggiato progetto, destinato più che a un film, a uno sceneggiato di quattro ore (oggi si direbbe serie) sul modello di Novecento, era di interpretare e trasportare sullo schermo una “scelta narrativa dei miti greci, immenso patrimonio poetico della storia umana”. Un obiettivo mastodontico che trova in queste pagine una prima, essenziale bozza, forse poco più di un biglietto da visita, ma con le idee già molto chiare. La formula scelta da Fellini prevedeva un accostamento umile e rispettoso, un uso accorto degli effetti, un ritorno “al cinema della pura animazione fantastica” e un’attenzione scrupolosa all’atmosfera, già delineata con sufficiente precisione nell’incipit: “Una luce incertissima, né di giorno né di notte, completamente artificiale, perché fuori del tempo; anche il luogo è incertissimo, la cima di una montagna, sembra, o una cava franosa, tra nuvole che scorrono via; o potrebbe essere nebbia, fittissima, o fumo, od incenso di sacrifici”. Per arrivare a cogliere un senso inafferrabile, Fellini compie un minuzioso lavoro di approfondimento, colmo di letture e riletture e ricostruito nel dettaglio dalla ricercatrice e poetessa Rosita Copioli e dallo storico collaboratore del regista, Gérald Morin che, tra l’altro, ha il merito di sintetizzare così la trama rimasta incompiuta: “La storia degli dèi e delle dee dell’Olimpo si svolge con una logica insieme vitale e mortale come una valanga gigantesca che precipita lungo la montagna, trascinando tutto al suo passaggio, con tumulto e terrore, spavento e orrore. Che inizia sul sommo delle cime con l’assassinio di Urano da parte di suo figlio Crono e si conclude all’uscito del Labirinto con un Teseo vittorioso coperto del sangue del Minotauro”. Pur travolgente, Il racconto dei miti è filtrato però dalla sensibilità di Fellini che, con tutte le cautele, riesce a riportarlo in una dimensione molto umana, come annota Rosita Copioli: “Le proporzioni degli dèi, l’alterità mostruosa degli dèi, sono due aspetti del numinoso che ne L’Olimpo hanno una collocazione naturale, e offrono evidenza e giustificazione alla loro continua comparsa nell’immaginazione onirica”. Nonostante la ricchezza e la complessità dei temi trattati, o forse proprio per quello, L’Olimpo non trovò un’adeguata produzione, e rimase una splendida illusione. Fellini pensò persino di rivolgersi all’americana CBS che, all’epoca, stava esportando in Italia la serie televisiva Dallas. In prospettiva, un segno dei tempi, ma comunque troppo poco per un sognatore in cerca di luce e di allegria.

mercoledì 4 luglio 2018

Dino Buzzati

Questi “avvisi di partenza” sono una sorta di Antologia di Spoon River nella versione allegorica e stralunata di Dino Buzzati. Quando Il reggimento parte all’alba non c’è alcun modo di eludere la chiamata: la metafora tratta dalla vita militare che, come ricordava Guido Piovene, per lui “era sacrificio e grandezza inutili ma nobili”, risponde alla necessità del distacco, distribuito in modo equanime, democratico e indiscutibile. È un obbligo perentorio che accomuna Wladimiro Ferraris, ispettore capo delle Dogane e Galileo Tani, libraio e Duilio Ronconi, possidente, Alex Roi, regista e Alfredo Brilli, commercialista, in un solo destino. Ognuno risponde a modo suo, come Celso Bibbiena, tessuti d’arte che pronucia così il suo commiato: “E anche voi leggiadre nuvole bianche fuggite lontano e anche voi leprotti e ghiri venuti a curiosare e anche tu luce del sole appena nato lasciateci. Ho da dire a lei le ultime cose così importanti e inutili, poi me n’andrò per sempre”. Dino Buzzati scompone e ricompone le vite delle sue “creature”, che non comprendono solo gli esseri umani che vengono allertati quando Il reggimento parte all’alba, ma anche la flora, la fauna e altre fantasiose invenzioni. Una simbiosi con le forme della natura e dell’immaginazione che diventa palese in La mosca e, ancora di più, nelle ultime parole famose di Rodrigo Zenon, dirigente dove sono evidenti gli echi delle metamorfosi kafkiane. Dino Buzzati segue però l’invenzione di una lingua congeniale al suo luogo letterario preferito, il frammento, lo schizzo, il piccolo racconto. La brevità, che in sé corrisponde anche all’urgenza ineluttabile dell’addio, non gli impedisce di farcire le pagine di calembour, divagazioni, favole e sorprese, trasformando i congedi in altrettanti squarci del suo immaginario, come è, giusto per esempio, Lo spirito del granaio: “Sono venuto al posto giusto nell’ora giusta per sentirti ancora una volta. Tutto è sistemato nel modo più adatto, sembra perfino impossibile, così non avrei neppure osato sperare… E tu non vieni, perché non vieni? Io non ti dico il perché. Non ti spiego”. Il reggimento parte all’alba ci ricorda la transitorietà dell’essere, una nozione che non dovrebbe sfuggirci anche quando “tutto è baraonda, furia e confusione” e che vede nella prosopopea di Ottavio Sebastiàn, vecchia fornace l’estrema dignità nel sentirsi, alla fine, parte di qualcosa, di un collettivo silenzioso e infinito: “No, non aver paura. Hai fermato la macchina sei sceso, ti sei affiancato all’ultimo plotone del reggimento designato, che marcia nella gloria crudele dell’aurora, dell’alba, del principio della notte senza fine. Meno male; non ti senti più così solo, vero che non ti senti così disperato?”, e la domanda è il ritornello che distingue ogni avvertimento, ogni singolo messaggero.