lunedì 3 dicembre 2018

Cesare Pavese

Il mestiere di vivere è qualcosa di insolito e di diverso: forse è proprio “un ricco racconto di rapporti che equivalga abilmente a un giudizio di valore”, eppure nello stesso tempo è anche l’espressione di un Pavese intimo, spregiudicato e risoluto nella convinzione che “la vita non è ricerca di esperienza, ma di se stessi”. È frutto di un dialogo continuo, serrato, un flusso ininterrotto e inarrestabile di riflessioni, “contemplazioni”, meditazioni, “esami di coscienza”, analisi di fine anno, aforismi, pensieri in libertà, con l’assillo ricorrente del suicidio, riportato con l’intero conteggio dei tentativi. È l’espressione della “filosofia delle proprie attitudini”, che si traduce inpagine che si scrivono da sole. Pavese le osserva quasi divertito mentre prendono forma: “Ho davanti un complesso ritmico, pieno di colori, di passaggi, di scatti e di distensioni, dove i vari momenti di scoperta, di passo avanti, i nuclei, insomma, si scambiano, s’illuminano, perennemente attivati dal sangue ritmico che scorre dappertutto. Ci fumo sopra e tento di pensare ad altro, ma sorrido stimolato dal segreto”. Anche nella sua ricca genesi, non è (solo) una raccolta, un assemblaggio, un work in progress: Pavese concepisce Il mestiere di vivere nel dettaglio scegliendo proprio quello che definisce doveroso, ovvero  “un nuovo punto di partenza. Essendosi la mente abituata a un certo meccanismo di creazione, è necessario uno sforzo altrettanto meccanico per uscirne e sostituire ai monotoni frutti spirituali, che si riproducono, un nuovo frutto che sappia di ignoto, di innesto inaudito”. Un lavoro che comincia mentre è al confino ricordando che “eravamo nobilmente disinteressati, cordialmente alteri, gentili e sorridenti, simpaticamente duri”, come scrive tra i Pensieri cassati del giugno 1938 e via via prosegue, annotando nel marzo 1945, come “alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige solo nell’anima”. Con tutta l’energia e la forza della sua continua introspezione, Il mestiere di vivere diventa il compendio dei tentativi di Pavese di individuare uno schema nell’esistenza: “Ciò che s’impara nella vita, ciò che si può insegnare, è la tecnica del passaggio alla consapevolezza, che diventa così la semplice forma della nostra natura”. È naturalmente una logica del tutto personale, un diario che però diventa, per quanto indefinito, un romanzo scritto con il cuore, spesso un cuore di tenebra, comunque sincero fino all’autolesionismo. Il mestiere di vivere è una rappresentazione insieme fedele e dettagliata dell’esperienza vitale di Cesare Pavese, fatta di ritmo, ritmo quotidiano e ritmo letterario, una ricostruzione della cognizione del tempo, dei fatti, dei gesti, che si evolve nella certezza che “noi abbiamo orrore di tutto ciò che è incomposto, eteroclito, accidentale, e cerchiamo, anche materialmente, di limitarci, di darci una cornice, d’insistere su una conclusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà. Non abbiamo nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Sappiamo che il più sicuro, e più rapido, modo di stupirci, è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà, miracoloso, di non averlo mai visto”. Lo sguardo di Pavese è l’espressione continua di un’immensa solitudine, altrimenti considerata “l’arte di essere solo”, che non viene né nascosta né mitigata in alcun modo. Sa che “niente va perduto. Il disagio, il disgusto, l’angoscia acquistano ricchezza nel ricordo. La vita è più grande e piena di quanto sappiamo”, ma come se fosse stato interrogato dal suo riflesso risponde senza esitazioni: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo”. Quello che Il mestiere di scrivere salva è la certezza che “la letteratura è una difesa contro le offese della vita”, un pensiero che trova la sua logica estensione quando Pavese dice che “leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra, che già viviamo, e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Si ritorna sempre lì, dunque, e le ultime considerazioni di Pavese suonano come avvertimenti perché Il mestiere di vivere resta complicato e “per esprimere la vita, non solo bisogna rinunciare a molte cose, ma avere il coraggio di tacere questa rinuncia”. È il preludio alla resa di Cesare Pavese, quando si accorge di essere arrivato al punto in cui “avendo rinunciato a tutto, giganteggiano le piccole cose che ancora ci restano”. L’uso della prima persona plurale è un diversivo, l’ultimo riscontro è che “aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile”, riepilogo lapidario del mestiere di vivere, e di scrivere.

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