Strane creature, le polene, esseri dallo sguardo indefinito e dalle forme fluttuanti, oggetto di desideri e censure nella stessa misura. Legno intagliato e incastrato nella prua delle navi proiettate sul mare, sono figure enigmatiche che nascondono e rivelano ondate di storie. Attorno ai profili di sculture che hanno un’utilità relativa, più che altro ornamentale, Claudio Magris costruisce una rete di connessioni e relazioni, partendo proprio dall’espressione di quei volti appesi alla chiglia: “All’inizio c’è dunque un occhio sgranato e malevolo al pari delle perfide onde, simile a un pesce, con ciglia e sopracciglia irte come pinne sul dorso. L’occhio è l’uovo da cui usciranno le figure femminili protese a prua, i seni regali, le mani che cercano di velarli portando una rosa al petto, i volti composti, le labbra socchiuse”. È vero, salvo qualche rara e buffa eccezione, puntualmente riportata, la polena ha le sembianze di una donna a cui viene affidato un compito gravoso, scrutare verso l’orizzonte, come spiega Claudio Magris: “L’oltre lo vedono le polene femminili, con i loro occhi spalancati su imminenti e inderogabili catastrofi, i loro volti generici e i loro sorrisi elusivi, i seni magnanimi e inappellabili. È la donna che fissa il tremendo”. La navigazione è una sfida irta di incognite e pericoli, riti e superstizioni, “naufragi e tempeste”, vento e bonaccia, collezioni di miti e conchiglie, scoperte e catastrofi, e se “la polena è messa lì, in prua, a scrutare ciò che agli altri è interdetto e fatale, a violare l’interdizione e a prenderne su di sé la colpa e le conseguenze”, il mare, è il vero protagonista, in tutte le sue accezioni, ed è così che lo descrive Claudio Magris: “Il mare è il sublime per eccellenza; è grande e semplice, solitario, insondabile nella tranquillità e indomabile nella tempesta, ricco di tragedie e catastrofi, di seduzione e di obliosa perdizione. Lo sguardo che scivola come un vento sulla sua distesa senza fine scorge l’anonima uniformità di un futuro indeterminato che fa rabbrividire”. È tutto in quella vista: gli occhi del mare, immobili, attoniti e dilatati nell’essenza della loro inutilità, “sono un compendio di tutte le sventure”, contengono visioni e magie nonché la certezza che “il tempo si arresta nella felicità e nella morte”. Tutto questo perché, si capirà, la polena “nella nostalgia marinara, è l’anima della nave, la sua fisiognomica, il suo volto nel quale trapela l’intima natura della nave stessa, il suo ventoso ardimento, la sua panciuta avidità, la sua goffaggine o il suo slancio. La polena viene bandita per non vedere le catastrofi in arrivo e impedire dunque loro di arrivare, perché ciò che la veggente non vede non c’è”: così diventa un totem che Claudio Magris sa interpretare evidenziandone leggende e connessioni, che, nave dopo nave, diventano una trama. È vero che “le polene hanno l’umiltà e la sacralità dell’arte bassa, di ciò che muore presto, della pittura col sapone sui vetri e delle statue di neve, delle figure sulla sabbia”, ma sono state salvate e recuperate un’infinità di volte da una fitta rete di intersezioni letterarie. All’appello rispondono, tra gli altri, Conrad, Pablo Neruda, Günter Grass, Nathaniel Hawthorne e Karen Blixen che definisce la polena, “figura delle indecifrabili corrispondenze del destino”, tutti naturalmente ricordati da Claudio Magris che nel finale si concede un’autocitazione, che, per l’occasione è anche permessa, se non proprio dovuta.
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