lunedì 23 ottobre 2023

Marino Severini

Il primo maggio 1991 i Gang arrivarono senza indugi al festival dei sindacati a Roma. Avevano alle spalle quello che risulterà essere l’album più importante della loro lunga storia, Le radici e le ali. Avevano una formazione compatta ed esperta, con tanto di sezione fiati al seguito. C’era la televisione nazionale a riprenderli in diretta, davanti a una platea di centinaia di migliaia di persone. Tutto, ma proprio tutto, concorreva ad annunciare un trionfo. Il coro degli angeli e il vento della primavera cantavano all’unisono nella cornice perfetta delle rovine dell’impero. I Gang dovevano solo abbracciare il loro destino che era lì, davanti, tangibile, benché a loro apparisse come una sorta di miracolo o, al massimo, un miraggio. Salirono sul palco. Lessero un comunicato. Invocarono lo sciopero generale. Amen. È soltanto una delle tante storie che Marino Severini allinea e interseca con le canzoni e con dozzine e dozzine di riflessi che comprendono Joe Strummer, Bob Dylan, Woody Guthrie, Billy Bragg, Sant’Agostino, Pio La Torre, Nebraska e i fratelli Cervi, Elvis e la Banda Bassotti. Un gran bel circo: Marino Severini è un cantastorie che ammalia e coinvolge senza particolari velleità letterarie, è il prestigiatore che sfodera un aneddoto dopo l’altro e seguirlo è un’impresa perché le parole hanno ali leggere, nonostante l’importanza che via via assumono. Il bon ton dello scrittore qui è messo da parte (e del resto anche i Gang sono sempre stati allergici alle regole) e si intuisce lo sforzo di Alberto Sebastiani (abituato a ben altre intemperanze) nel dare forma compiuta al dilagare di ricordi, proclami, emozioni e volti. Persino l’ortografia viene maltrattata neanche fosse una Telecaster. Le maiuscole fioriscono come se fosse sempre la bella stagione. Rimandano a un’entità superiore, sia essa politica, religiosa o musicale. Ma è una fede di tipo diverso soprattutto perché pare essere indirizzata verso una forma di intelligenza collettiva, decisamente più empatica ed efficiente di quella artificiale. Una comunità di intenti che ha i suoi luoghi di elezione (uno su tutti, l’Intifada nella Val di Scalve), i suoi riti, le sue strade. L’ordine, a volerne proprio cercare uno, lo dettano le stesse storie che conducono avanti e indietro nel tempo, come se fosse possibile rileggere il passato o prevedere il futuro. A quel punto, e siamo già addentrati un bel po’, Marino Severini mette le canzoni in valigia (ma qui, con un minimo di dimestichezza tecnologica potete sentirle una dopo l’altra sfogliando le pagine) e parte, e riparte, perché “ogni incontro è una prova” e “o ti trovi, ritrovi te stesso e chi sei veramente, oppure ti perdi”. Attraverso le “storie d’Italia” e degli altri procede a riscoprire le sue origini, il valore della terra, e lo spirito familiare dei muratori che non sapevano nemmeno l’italiano, figurarsi se capivano cosa dicevano i Clash. Eppure è proprio lì che avvengono la vera confessione e la svolta nel riconoscere il dilemma della provincia, “la paura di restare isolati” e nello stesso tempo la curiosità, l’ammirazione per i viaggiatori, la necessità di fuggire, ma anche di avere coscienza di una direzione ben precisa (“Per noi era importante andare comunque, ma al contrario”) che, alla fine, impone di scoprire che oltre all’infinita partenza c’è anche un ritorno, quello che ti tocca, e ti tocca nel profondo. Su questo non c’è dubbio o contraddizione che tenga perché, come spiega fin troppo bene Marino Severini “le cose viste da lontano, anche lontano nel tempo, hanno un altro sapore. Le vedi più chiare dentro di te, anche se fuori sembrano dei fantasmi”. Ed è così, che trent’anni fa mentre il nuovo ordine mondiale avanzava (e guarda un po’ dove siamo arrivati), dopo aver suonato Socialdemocrazia, i Gang non misero più piede in televisione e, se è per questo, nemmeno in un casa discografica, ma si inventarono un altro mondo, e un altro modo di viverlo, e qui dentro lo trovate tutto, ancora intatto, brulicante di vita e sempre schierato dall’altra parte, quella giusta.

lunedì 9 ottobre 2023

Pier Luigi Luisi

Anna e Marcel si incontrano davanti a un quadro di Klimt, a Zurigo, una città su cui persiste ancora l’ombra di Carl Gustav Jung. I due si affrontano al capolinea delle rispettive solitudini: Anna è una violoncellista e Marcel è un neurobiologo che indaga le “immagini asignificative”, ovvero I lampi tranquilli della mente, e che dopo aver perso la moglie, non ha più notizie del figlio, Jonathan. L’intreccio dei rapporti, il confronto psicoanalitico, la coabitazione con la rapidità dei pensieri e dei rimpianti, il continuo inseguirsi dei ricordi e dei sogni fanno capire che “i moti della mente e del cuore sono molto sottili, non si comprendono sempre bene”. La storia con Anna procede spontanea, ma quando lei si ritrova a riavvicinarsi a Bartolomeo, anche lui musicista, che ha il destino segnato e i giorni contati, s’impone un cambio di passo. Dato che “l’amore ha il proprio tempo, cammina con la sua velocità”, Marcel gli concede la divagazione che lei sente necessaria, anche se il loro legame è ancora fragile. Vorrà essere ricambiato quando uno degli sbalzi tra I lampi tranquilli della mente gli fa incontrare Maria Dolores Martinez, che per lui è frutto della nostalgia di un lontano, platonico amore. A sua volta Anna lascia che Marcel segua l’istinto e il suo si rivela un viaggio a ritroso nel tempo piuttosto che nello spazio. Come dice Pier Luigi Luisi nella prefazione “la mente ci suggerisce fantasiose relazione amorose e ci fa perdere in dettagli assurdi” ed è per questo che il tragitto di Marcel da Zurigo ad Acapulco via Mexico City è una specie di pellegrinaggio verso un miraggio sfuggente. Pur continuando a pensare ad Anna, Marcel ritrova se stesso e vive incontri importanti con una gioventù rintracciata in riva all’oceano e reminiscenze che si inseguono come tuoni e fulmini in un temporale. La leggerezza con cui Pier Luigi Luisi sfiora temi vitali permette a Marcel di riorganizzarsi e così I lampi tranquilli della mente si rivelano piccole parti di un mosaico che va via via componendosi. Le sequenze si incastrano una nell’altra mentre la storia scorre un po’ a rimbalzi, ogni salto una scansione temporale e un nuovo, suggestivo personaggio. È di sicuro un riflesso dell’idea che la vita avviene nella nostra testa, dove I lampi tranquilli della mente imperversano costringendoci a svolte impreviste e a decisioni incomprensibili. Se i frammenti vanno a comporsi e a sciogliersi nella scrittura di Pier Luigi Luisi è perché, come gli dice che Felipe, l’amigo chitarrista, la vita è proprio così, “è come una nave che salpa, e una volta salpata, non c’è più ritorno. Si va solo in una direzione”. Il concatenarsi degli eventi si sussegue, mentre Marcel cerca di delineare le immagini e mentre è impegnato a cercare la volubile donna messicana che per lui è ancora un’antica promessa, come capita spesso, trova qualcun altro e questo succede perché, come dice Pier Luigi Luisi “osservare le bizzarrie create dalla mente è in effetti una forma acuta riprendere possesso del proprio territorio”. La ricerca del tempo perduto (il nome del protagonista è un indizio abbastanza evidente, e non è l’unico) si conclude con una sorpresa, ma questo tocca tanto a Marcel quanto al lettore scoprirlo, perché I lampi tranquilli della mente assicurano la partenza, ma le destinazioni restano imprevedibili.