giovedì 5 novembre 2020

Paolo Scardanelli

L’estate del 1979 comincia il 4 maggio quando la Thatcher viene eletta primo ministro. È il primo e definitivo segnale che il mondo occidentale è avviato a una rapida metamorfosi, a senso unico e senza possibilità di tornare indietro. Qualche settimana dopo, Paolo appena superata la maturità parte dalla Sicilia per il Friuli e si trova in a un campo di giovani comunisti, dove la disillusione aleggia nell’aria, tra la nostalgia dei vecchi partigiani e l’incombere feroce della lotta armata, che all’inizio dell’anno aveva colpito Guido Rossa, una svolta tanto netta quanto brutale. Paolo e i suoi amici, convinti che “una volta la vita è tragedia, un’altra miracolo, ma questo non vuol dire che non ci sia una vita”, sciolgono in anticipo i nodi dell’ideologia e si ritrovano a confrontarsi con le incombenze dell’esistenza che, incuranti della storia, della politica, della religione e della letteratura, restano lì, immobili, pesanti e inarrivabili come l’ombra dell’Etna che si stende lungo tutto L’accordo. Ben sapendo che, come diceva Schopenauer “conosciamo la vita prima tramite la poesia che tramite la realtà”, nel suo esordio Paolo Scardanelli genera un prisma mutevole attraverso il quale filtrano appunti filosofici (parecchi), un flusso di coscienza fatto di memorie e riflessioni, e un’Italia vista dentro un lente d’ingrandimento caleidoscopica che, alla fine, ce la fa vedere per quello che è. Una somma di delusioni, di limiti e di rimpianti aggrovigliati attorno ad alcuni capisaldi inamovibili (la famiglia, il lavoro, le tradizioni), ma non per questo così solidi. La visione di Scardanelli sorvola e supera le considerazioni sociologiche, che comunque sono evidenti, e pur con un sommo gusto per la dissertazione (e la divagazione) riporta tutto alla condizione transitoria dei suoi protagonisti, che ammettono senza omissioni: “Siamo figli dell’usura; il tempo deve segnare noi e gli oggetti che ci sono intorno perché siano attivi, abbiano vita e senso per noi. E lì, nella fiamma del contatto, comincia già il decadimento; è un costante braccio di ferro tra obbligo d’andare avanti e nostalgia di un perduto che non è mai stato”. Il personaggio su cui si riflette Paolo è l’amico Andrea Algino, simbolo a suo modo degli imperativi economici e del nuovo che avanzava senza incontrare resistenze. Per lui il cambiamento ha radici antiche, visto che si ritrova dietro una scrivania dell’azienda guidata dal padre e così bisogna ammettere che “siamo costretti all’azione, ad agire su di un terreno paludoso, col rischio continuo di sprofondare nella sabbie mobili. E ogni nostra mossa ci conduce inevitabilmente al fallimento”. Attorno agli Algino, L’accordo prende una piega più cupa, comprensiva di un assassinio che però non insegue i consunti cliché polizieschi, ma assume un carattere simbolico e riporta al nucleo della storia, dove pulsa in continuazione una domanda: “Che senso può avere un minuscolo ma intensissimo dolore in uno spazio sterminato, apparentemente infinito?”. Per Paolo e gli amici distribuiti alle estremità della penisola e disturbati dalle evenienze della realtà non resta che schivare le interferenze di un mondo che sta scomparendo, chiudendo “la porta senza far rumore, svanendo in un remoto punto d’osservazione, oltre la stratosfera”. La scrittura florida e ipersensibile di Paolo Scardanelli affronta il “mestiere di vivere” e allora va ricordato che Pavese diceva che “la poesia nasce non dall’our life’s work, dalla normalità delle nostre  occupazioni, ma dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita”, ma alla fine di quella lunga estate non c’è più tempo, nemmeno per la buona sorte. Quello che sopravvive è specificato con estrema decisione ed è persino parte integrante del titolo, così come viene espresso da Paolo Scardanelli: “L’elezione. Senz’altro ci unisce. La comunità del sentire elegge persone differenti per provenienza, estrazione, esperienze. Come la vita ci sembra debba essere ci collega in un ipotetico cerchio magico cui sino a oggi solo la musica ha saputo dare risposta collettiva”. Questo è senza dubbio molto chiaro nella playlist che L’accordo lascia scorrere nelle sue pagine: si trovano Brian Eno, Tom Waits, Vashti Bunyan, Jimi Hendrix, Mike Bloomfield, Walk On By nella versione di Isaac Hayes e poi in quella originale di Burt Bacharach, e infine Jeff Buckley, ma ormai siamo nel 1997 e tutto è ormai un ricordo, o un sogno che torna a galla.

martedì 3 novembre 2020

Fabrizio Poggi

Storicamente, il blues è nato in un momento crepuscolare in cui alcune magie, religioni e culture hanno trovato una nuova forma. Un passaggio che ha visto anche tradizioni di consuetudini e di folklore diventare canzoni, proprietà pubblica e mutevole, materiale di lavoro, di suono e d’amore per quanto contrastato e faticoso. La sintesi, senza dubbio un “prodotto” sociale e culturale straordinario, non ha portato soltanto alla genesi di una suono che è poi stata la fonte primaria di una larga parte della musica occidentale, ma anche alla creazione di uno slang che, di secolo in secolo, si è trasformato in un vero e proprio linguaggio. Fabrizio Poggi con un lavoro certosino di ricerca e di assemblaggio ha ricostruito l’idioma degli Angeli perduti del Mississippi, vocabolo per vocabolo, frase per frase, titolo per titolo e personaggio per personaggio, allineando le Storie e leggende del blues un po’ per comodità e un po’ per le logiche stringenti di un dizionario in ordine alfabetico. La schematicità della disposizione non ha pesato sull’interpretazione di Fabrizio Poggi così come non influisce sulla lettura. Angeli perduti del Mississippi si può prendere dall’inizio alla fine leggendolo come un romanzo dove si intrecciano racconti di demoni e chitarristi, di fantasmi e radici, di uno o più Delta e nomi di bluesmen che evocano gesta epiche: Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Slim Harpo, Lightnin’ Hopkins, Elmore James e Bob Dylan. Sì, perché alla voce Dylan, Bob è dedicato un ampio ritratto, come non potrebbe essere diversamente perché pur non avendo scritto “bluesman” sulla sua carta d’identità è uno snodo fondamentale che Fabrizio Poggi non poteva evitare. In un altro senso, Angeli perduti del Mississippi si può leggere come un manuale linguistico, colto e approfondito, il cui tenore non ha assolutamente nulla da invidiare a uno studio universitario, ma che a differenza di tanti tomi pieni di note a piè di pagina, scorre senza esitazioni sulle onde di una passione che Fabrizio Poggi conosce dal vivo, per via di una lunga e fruttuosa frequentazione. Avvicinatosi giovanissimo (è nato nel 1958) al mondo della musica, trova il suo strumento d’elezione nell’armonica a bocca, uno degli aggeggi fondamentali del blues, di cui diventa uno dei più noti solisti italiani. Con la sua band, Chicken Mambo, e altre formazioni incide una ventina di album, molti dei quali prodotti e registrati negli Stati Uniti, paese che ha ben conosciuto grazie a numerosi viaggi, soprattutto negli stati del Sud. Questo per dire che è un libro “cool”, già ma cosa vuol dire “cool”? C come “cool”, e per tutti gli Angeli perduti del Mississippi, Fabrizio Poggi richiama (a ragione veduta) Amiri Baraka alias LeRoi Jones: “Il termine cool significa avere un rapporto speciale con tutto ciò che ti circonda. Essere cool vuol dire continuare ad avere un atteggiamento positivo anche di fronte all’orrore che la vita ogni giorno ci propina”. Citazione appropriata perché Angeli perduti del Mississippi è davvero frutto di un “rapporto speciale” con il blues. Un glossario, studiato parola per parola, biografia per biografia, da Bill Abel a Ike Zinnerman, diventa una lunga e appassionata cavalcata alle origini della grammatica e di ogni singolo rituale del blues, dalle accordature aperte alle aperture ad altre musiche perché “chi non ama il blues ha un buco nell’anima”. Tenetelo a portata di mano.

lunedì 2 novembre 2020

Claudio Magris

Le testimonianze che raccoglie L’infinito viaggiare si dipanano in un arco tra il 1981 e il 2004. Claudio Magris si divide tra lo spazio mitteleuropeo, ma anche il Vietnam, i paesi scandinavi, l’Iran, Berlino. L’identità del viaggiatore si forma nello sguardo e si trasforma nel corso del viaggio perché “chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un  ritorno e insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa”. Con la consueta attenzione, L’infinito viaggiare mette anche un punto ai luoghi comuni e all’enfasi attribuita al viaggio in tempi recenti. Secondo il parere di Claudio Magris, “il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio”. Ecco allora che “andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica”, e sfidare i confini, l’ignoto con uno spiccato senso dell’avventura e un’indomita curiosità e con la consapevolezza che “se ci si sente estranei o stranieri, non è per la sensazione di essere uomini che s’avventurano in un paese di nebbia, ma piuttosto per la sensazione di essere noi creature di nebbia o giochi di ombre che camminano fra persone vive, un po’ più minacciate dalla morte di quanto lo siamo noi, ma vive”. Claudio Magris si sofferma a più riprese sulle dimensioni concettuali del viaggio e avverte che “muovendosi avanti e indietro nello spazio, senza seguire percorsi obbligati e affidandosi alla digressione più che alla linea retta, il viaggiatore per qualche breve momento sospende il tempo, lo tiene un po’ in scacco come il giocoliere che lancia e lascia per qualche attimo sospesi in aria i suoi bastoncini, anche se sa che, prima o poi, gli cadranno tutti sulla testa”. È proprio in quel momento, transitorio ed effimero finché si vuole, ma a suo modo definitivo, che Claudio Magris identifica l’intersezione fondamentale tra passaggio e paesaggio, tra tempo e spazio che definisce puntualmente così: “Beninteso, questa sensazione dell’irrealtà della storia, che è invece fatta di carne e ossa, di lacrime e sangue, di individui concreti e delle fedi concrete per le quali essi hanno combattuto, sono vissuti e sono morti, è una tentazione intellettuale e morale, un’ingannevole seduzione degli ingranaggi e dei meccanismi sociali, che tendono a distogliere gli uomini dalle domande sul loro significato e dalla fiducia di poterli mutare. L’odissea del disincanto, il nostro viaggio quotidiano nella realtà, si gioca tutta nella capacità di resistere a queste sirene del disincanto, di ascoltare senza turarsi le orecchie la loro canzone e riconoscere anche quanto c’è di vero in essa, quali aspetti della nostra stagione storica essa ci dice e ci svela, ma senza cedere supinamente alla sua lusinga, senza credere che quella verità sia definitiva e totale, che non esistano più le cose e le domande ultime”. A quel punto, L’infinito viaggiare di Claudio Magris diventa anche un punto di vista sulla storia, oltre che sulla geografia, anche se non perde l’occasione di ribadire che “il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca”. Con il passo e il ritmo determinato dai luoghi, la riduzione in parole diventa a sua volta una peripezia imprevedibile e allora bisogna convincersi, come dice Claudio Magris, che la letteratura “è anche trasloco” ed è per quello che L’infinito viaggiare è perfetto sia nella valigia che sul comodino.

martedì 6 ottobre 2020

Tiziano Cantatore

Ci sono almeno tre livelli che distinguono le possibilità di affrontare Aerosol & canzoni, primo tentativo narrativo di Tiziano Cantatore, songwriter, motociclista e giornalista con l’America nel cuore. In superficie, è una storia dove la nostalgia gioca un ruolo importante, se non proprio determinante. Frank alias Franco Carrieri lavora in un negozio di strumenti musicali a Pittsburgh, Pennsylvania (per sicurezza, anche all’ufficio del turismo), arrivato lì sull’onda della passione per l’american music, una componente fondamentale, non solo per il titolo, ma anche perché nelle prime pagine lo dichiara apertamente. Frank torna in Italia per il matrimonio della figlia, Irene, con Alberto, e insieme ai residui del suo passato (l’ex moglie Livia e il nuovo marito) si incontra con uno sconosciuto che gli ricorda in tutto e per tutto l’amico Roby scomparso molti anni prima. Una faringite lo costringe a usare degli aerosol con proprietà lisergiche e le visioni che gli procurano spalancano ampi panorami dalle remote lande del passato. È tutto legato in modo indissolubile alla musica, ma qui “il romanzo di una vita e la sua colonna sonora” si tinge di un aspetto fantastico, e naviga tra una ghost story e il flusso di coscienza di Frank, che ripesca i suoi anni selvaggi e innocenti, ma nello stesso tempo vede che attorno a lui niente è più come prima, a partire dalla città, Milano, che non riconosce più. Anzi, che ormai gli risulta “odiosa”. Gli rimangono i ricordi, rimescolati dall’aerosol e sospinti dalle chiacchiere con lo spettro di Roby: “Domeniche passate a suonare, suonare, suonare. La musica che ti faceva piangere perché lei ti aveva lasciato. Le canzoni che ascoltavi quanto ti giurava eterno amore. La musica che ti stringeva il cuore mentre camminavi nella notte. La musica dei baci rubati, la musica del mare d’estate, delle stelle cadenti che non riuscivi a vedere, la musica dei desideri per questo mai realizzati”. Spuntano episodi di vita vissuta da una rock’n’roll, spezzoni di racconti che vivono di vita propria come la rocambolesca Notte di polizia che conduce dritto dritto all’epilogo. Dove diventa palese l’ultimo (e il principale, senza dubbio) motivo che condiziona Aerosol e canzoni, reso plausibile del resto, nel sottotitolo: Finché c’è musica di tengo su dice Tiziano Cantatore alia Frank Carrieri pescando da una canzone dei Rokes e si capisce perché, per ogni passo, per qualsiasi scelta, per modellare uno stato d’animo o soltanto per cominciare ad affrontare una nuova giornata, ci siano le parole di John Prine, dei Beatles, dei Rolling Stones, di Jackson Browne, di Bruce Springsteen, di Van Morrison, di Nick Drake, di Bob Dylan e dei Kinks. È il linguaggio dei “ragazzi di strada”, che Aerosol & canzoni condensa in una piccola favola moderna che, con quell’estrema leggerezza che è il suo pregio migliore, ci ricorda, en passant, dove siamo stati e dove siamo arrivati, ma soprattutto che senza la musica, “siamo così perché la vita ci ha resi così”, ed è vero anche questo.

lunedì 21 settembre 2020

Rote Zora

Come un germe impazzito e inarrestabile, nel corpo virulento del Regno Unito guidato dall’ineffabile Thatcher, il nucleo della Mutoid Waste Company nasce nel 1984 a Portobello. Sono ragazzi e ragazze che hanno scoperto un modo diverso di inventarsi arte e vita sulla scia delle turbolenze punk: recuperano rottami e li assemblano in sculture e mezzi che irrompono nelle feste con sonorità tambureggianti, acrobati, peripezie, fuoco e fiamme. In superficie, l’immaginario rimanda direttamente alla saga cinematografica di Mad Max, ma “il gene e il genio mutoide specializzato nel riuso di materiali di scarto, facilmente reperibili, per ricreare scenari cyberpunk in edifici occupati o magazzini abbandonati”, attinge alle radici letterarie di William Gibson, J. G. Ballard e (più di tutti) William Burroughs. È da lì che matura l’idea portante e determinante della mutazione che “si manifesta come un modello dinamico” quando “i rifiuti prendono sembianze zoomorfe e antropomorfe, i veicoli diventano fantasmagorici mezzi di trasporto o bizzarre case su ruote, mentre gli edifici abbandonati vengono occupati per viverci dentro”. Quello di Rote Zora alias Elisa Fosforino è proprio un viaggio lungo i trent’anni della Mutoid Waste Company, assemblato attraverso la forma di una storia orale, dove le testimonianze e i ricordi dei protagonisti hanno la precedenza, per quanto raccordati in senso storico e cronologico. Così si scopre, con   Giles, che l’idea “era quella di divertirsi attraverso la creatività e di lasciare che altri possano capire cosa si può ottenere se si dà spazio all’immaginazione. Più caos puoi creare, meglio è. Siamo stati anche un esempio di uno stile di vita e di una modalità di lavoro alternativo, perché abbiamo vissuto e lavorato al di fuori del sistema, di cui non avevamo bisogno per realizzare tutto ciò che abbiamo fatto recuperando quello che la società scartava”. In fuga dalla repressione thatcheriana, la Mutoid Waste Company attraversa l’Europa passando dai Paesi Bassi e da Berlino (dove, nelle sue costruzioni, finiscono persino dei cacciabombardieri MiG-21 e dei carri armati) per approdare in Italia, sui bordi in una cava dismessa. A Santarcangelo di Romagna, la zona temporaneamente autonoma e perennemente in movimento della Mutoid Waste Compagny, trova un luogo dove stabilirsi, senza fermarsi perché, come dice ancora Giles “l’atto di fare arte dai rottami, di trovare qualcosa di abbandonato a cui ridare la vita è una sorta di mutazione, la reinterpretazione dei rifiuti in qualcosa di diverso e con un nuovo significato”. Nasce allora Mutonia, mentre “un’arte del rifiuto sia in termini di strategia esistenziale sia in chiave creativa”, continua la sua diaspora disseminando la visione mutoid in tutto il mondo, da Tokyo ai deserti americani. Lasciando spazio alle singole voci, Rote Zora ha la grazia infinita di riuscire a districare le vicende personali e il complesso background della cultura mutoid, in un racconto fluido e ricco di suggestioni che non perde mai di vista quell’estremo senso di libertà che ha trasformato una sensibilità artistica e un’utopia in una realtà che si erge, con tutta la sua ruggine e le sue bizzarre saldature, come una fiera alternativa a un mondo annoiato, decadente e già morto. C’è qualcosa di eroico, alla fonte dell’intensità del concetto di Mutate Or Die, almeno secondo la definizione di Lu Lupan, ovvero che “un eroe non è uno che sta seduto a guardare un’ingiustizia, ma che si alza e fa valere il senso di umanità”. Sì, c’è un’anima pulsante e creativa che assembla e muove i resti metallici e li trasforma in creature sopravvissute al consumo, allo spreco e al disastro.

giovedì 17 settembre 2020

Ennio Speranza

Con l’accuratezza che distingue Le biciclette bianche, Joe Boyd si chiedeva: “La musica di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi con il pubblico quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di farne la propria”. La risposta è molto parziale, anche se contiene il nucleo essenziale dell’affascinante enigma che è la musica di Nick Drake. Ennio Speranza, musicologo, drammaturgo e sceneggiatore, consapevole che “ogni scrittura, a ben vedere, è riassunto”, ha deciso di concentrarsi su un unico album, Pink Moon, come esemplare di “una disgregazione” destinata a diventare un classico. La definizione affiora dalla considerazione di Ennio Speranza per cui “proprio perché apparentemente fuori da un tempo infinito e da uno spazio circoscritto, sebbene musicalmente e testualmente vi siano delle coordinate che sottilmente le qualificano, proprio perché allo stesso modo sgretolate e coese e apparentemente specchio di una crisi messa in scena e in divenire, sebbene bloccata in una registrazione, le canzoni di Pink Moon più di altre appartengono, o sembrano appartenere, a un costante, continuo presente che, guarda caso, è anche soprattutto il nostro”. Il processo di comprensione di Pink Moon appare sterminato, ma Ennio Speranza, supportato da una florida scrittura, ha organizzato un rete di sicurezza a un minuzioso approfondimento, canzone per canzone (con tanto di analisi strumentale), che però ha uno sviluppo molto lineare e metodico. A scanso di equivoci, evita di inoltrarsi nelle pieghe dell’esistenza di Nick Drake, un po’ perché altri si sono già cimentati con assiduità, e un po’ sapendo “che la biografia, e anche l’autobiografia se proprio vogliamo, ci raccontano le cose sino a un certo punto. Siamo scatole nere. Ogni persona lo è. Non possiamo fare altro che congetture. E queste, pur affascinanti, congetture rimangono”. Sono più che sufficienti le note introduttive a collocare i risvolti personali, poi Ennio Speranza si dedica con una convinzione ammirevole a una singolare disanima di Pink Moon che, per naturale estensione, svela che “ciò che stava veramente a cuore a Nick Drake era il dettaglio, il fremito, la vibrazione, il come sul cosa, anche perché, a pensarci bene, in qualsiasi manifestazione artistica, il come determina il cosa”. La dissertazione segue proprio questo alternarsi: l’analisi del come (le accordature aperte, i passaggi armonici, i toni della chitarra e della voce) si sposta e si sovrappone al racconto del cosa (i desideri, i sogni, i dolori e ogni singola atmosfera emanata da ogni singolo brano) arrivando alla conclusione, in qualche modo definitiva, che “Nick (Drake) si sofferma sugli argomenti, sulle cose, sulle parole, sulle immagini, sulle metafore, sempre quelle, sempre rimuginate, magari ripetute enfatizzate o replicate canzone dopo canzone, sentimento dopo sentimento, assomigliando sempre più a un meditante che osserva i propri pensieri e le proprie ossessioni, cercando a un tempo di accoglierle per liberarsene e non riuscendovi mai fino in fondo”. Il quadro è completo ed è uno invito a riscoprire Nick Drake a cui non si può rinunciare, anche perché, come diceva Robyn Hitchcock, “le sue canzoni sono andate alla deriva per vent’anni e poi sono sbarcate nel futuro”. È incredibile, ma come ha ben capito Ennio Speranza, è andata proprio così.

giovedì 4 giugno 2020

Loris Cantarelli

Parlare di Bono è parlare degli U2. Le due realtà, va da sé, sono inseparabili e la biografia di Loris Cantarelli è affettuosa e dettagliatissima, ma non nasconde neanche i lati più controversi, soprattutto nell’evoluzione da Achtung Baby in poi. Nella linearità del suo racconto Loris Cantarelli racconta gli U2 senza enfasi, sottolineando molti aspetti che il più delle volte passano in secondo piano (l’organizzazione economica, i legami famigliari, le questioni tecnologiche) e dando l’impressione, tutto sommato, di uno sguardo ravvicinato e scrupoloso. Tutto parte da lontano: crescere nell’Irlanda divisa e impaurita, con i Troubles all’orizzonte non è stato per niente facile. Ricorda l’amico e consigliere di sempre Gavin Friday: “Allora l’Irlanda era molto differente, era tutto proibito... E con Bono abbiamo creato il nostro mondo immaginario, come reazione”. È soltanto l’inizio di una ragnatela di amicizie che si incroceranno grazie all’annuncio di Larry Mullen, il futuro batterista degli U2, in cerca di compagni per le sue avventure musicali. Si racconta che Bono fosse arrivato con la pretesa di occupare il posto di chitarra solista, poi fosse stato declassato a quella ritmica e, infine, rimandato alla funzione di manager. “Quando inizi in una band è tutto un mistero” sostiene il diretto interessato (che poi, come è noto, si è accomodato nel ruolo di frontman) e le tappe forzate verso il successo sono una piccola saga di sacrificio e ambizione nello stesso tempo. La musica, per il momento è ancora al centro dell’attenzione e Loris Cantarelli rileva bene i passaggi tra Boy e October e tra War e The Unforgettable Fire, notando quest’ultimo giustamente come uno degli apici degli U2, e arricchendo la cronaca di molte dichiarazioni degli stessi protagonisti, compreso The Edge che, all’epoca di The Joshua Tree, disse: “La musica gospel mi ha fortemente toccato perché è esattamente l’opposto di quanto costituisce la musica moderna. Oggi la musica è un nascondersi, è tutto posa e immagine. Il gospel per me è abbandono totale, cioè l’inizio dell’anima”. La dichiarazione del chitarrista è ambivalente e vista in prospettiva dice molto di quello che gli U2 sono diventati da lì in poi. La ricostruzione di Loris Cantarelli è minuziosa e preziosa, capace di assecondare la sfumatura tra Bono e gli U2 e di ripercorrerla giorno per giorno: lo schema del racconto segue una collocazione cronologica piuttosto rigorosa, anche per tenere conto dei radicali cambiamenti che li hanno distinti dal turning point di Achtung Baby. Una volontà ferrea e coraggiosa (come dice Bono: “Vedo gli U2 solo come una lunga lista di fallimenti: le canzoni che non abbiamo scritto e i concerti che non abbiamo suonato”) che non sempre ha trovato le risposte giuste. Ma forse è anche il mondo intorno che è cambiato, come notava Bono: “Ho la sensazione che l’11 settembre abbia cambiato l’America per sempre. Prima pensavo fosse un continente che si comportava come un’isola. Ora penso sia chiaro che non può essere un’isola di prosperità in un mare di disperazione. E se l’11 settembre ci ha insegnato qualcosa, è che il mondo è un luogo molto più interdipendente e interconnesso”. Questo sarà particolarmente vero per gli U2 che amplieranno il loro raggio d’azione trasformando una piccola rock’n’roll band irlandese in una sorta di industria globale. Loris Cantarelli, per quanto fan di lunga data del gruppo irlandese, non manca di sottolineare le contraddizioni che hanno distinto gli U2 negli ultimi anni e, in parte, anche l’attività filantropica di Bono. C’è spazio infatti anche per le controversie fiscali, per i rapporti (non del tutto privi di ambiguità) con le multinazionali tecnologiche (Apple, in primis) e per la fatidica immagine di Bono a passeggio con Bush (che non si può vedere) che, in tutta sincerità, ha almeno il coraggio di dire: “A volte l’idea che viene fuori è che io sono entrato negli U2 per salvare il mondo. Io sono entrato negli U2 per salvare me stesso” e, a ben guardare, è la sua miglior definizione possibile.

domenica 17 maggio 2020

Gianrico Bezzato

Zeb, un enigmatico personaggio, dissemina di manoscritti una piccola cittadina di provincia. Chi li trova deve inseguirlo nel suo personalissimo delirio facendosi avvolgere da un mondo variopinto e vagamente surreale. Come in una delle più misteriose canzoni di Bob Dylan, anche l’esordio di Gianrico Bezzato sulla lunga distanza di un romanzo (all’epoca aveva già pubblicato parecchi racconti su diverse riviste e scritto canzoni per i Knot Toulouse) mette in scena una varietà picaresca di personaggi (ivi compresi gli animatori di uno stralunato circo di passaggio). Alimentata da una fantasia onirica, notturna e caleidoscopica e relegata in una riserva della provincia, in Plays si muove, seguendo percorsi piuttosto imperscrutabili, una moltitudine di sbandati, outsider, disperati e tutta una serie di volti per cui Zeb pensa che “forse è meglio fare così, incrocio le braccia sul tavolo e ci appoggio la testa sopra. Magari sogno, magari ricordo tutta la storia. Forse alla fine della storia uscirò di qui. Fuori di me c’è tanta altra gente”. La florida scrittura di Gianrico Bezzato rende giustizia a tutto questo demi monde e si accorge che quelle vite scorrono a senso unico e così “magari cominci a capire bene che non è tutto rose e fiori. È un po’ tipo treno. La mia memoria vede tanti treni, tutti con i colori fastidiosi delle case in riviera. Là il profumo della maggiorana. Qui, in una stazione immobile sotto un soffitto a volte, l’odore del ferro, della gomma bruciata, dei cessi mai puliti. Scusa se le mie mani puzzano di mazzo di carte da quaranta”. A tutti gli effetti Plays è praticamente una raccolta di ritratti annodati l’uno con l’altro da un impercettibile filo comune, che però è reso piuttosto esplicito dal titolo. Nel sottile e ambiguo gioco di Plays umoni e donne sono tutti in cerca di autore e trovargli un luogo e un tempo è un po’il senso ultimo delle fantasmagorie tratteggiate da Gianrico Bezzato e interpretate da Zeb che si riserva sempre l’ultima parola, anche e soprattutto quando si parla di amore: “Ciao amore. Colpo basso di prima mattina. Amore chi... Io? Non ce lo vedo proprio tutto quest’amore in questo corpo da pseudo replicante quarantacinquenne. Ti va di fare l’amore? Ma chi è che fa l’amore... Io? Lo fai tu. Mettiamo su una società a responsabilità limitata? Ieri ho fatto venti chili d’amore, due metri d’amore, un bell’amore in noce piemontese, l’amore all’arrabbiata (be’, questa non è male). E meno male che il romanticismo crepuscolare predecadente a cui abbiamo avviluppato la nostra storia le ha sempre impedito di venirsene fuori con frasi tipo: ti va di scopare? Non ce l’avrei fatta”. Questo il tono generale: nel gran varietà di Gianrico Bezzato le storie e le genti sono là fuori confuse nel tran tran del mondo e non c’è altro, se non il sogno della scrittura, per raccontarle e per farle vivere. Compresi i titoli di coda, dove, in prospettiva, il finale oggi appare come un presagio autobiografico: “L’ultima frase non la leggo. Adesso me la ricordo. Guardo nello specchio dietro le bottiglie e mi vedo ridermi in faccia. L’ultima frase adesso me la ricordo bene. Dice più o meno così. Se sono stato qui, ci sono stato per poco. Giusto il tempo di soffiare forte in una trombetta di carta”. Gianrico Bezzato se ne sarebbe andato da lì a poco, ma il suo mondo è ancora tutto intatto qui dentro.

lunedì 27 aprile 2020

Francesco Biamonti

Italo Calvino spiegava così la trama dell’esordio di Francesco Biamonti: “Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos’è quella spinta di autodistruzione che si sente nell’aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d’un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s’annullano”. Nell’aspro entroterra di Ponente, a ridosso del confine con la Francia, un giovane, Jean-Pierre, viene trovato morto, sotto uno spuntone di roccia da cui probabilmente è caduto. Per la rarefatta e dispersa comunità della valle ligure, che asseconda i ritmi delle stagioni e le partenze sul mare e dove ogni cosa “sapeva di dignitosa miseria”, è una sferzata di dolore che lascia tutti avvolti in un cupo sudario di silenzio e di frasi lasciate sospese nel vento. È vero che “una parte di gioventù si è sempre perduta”, ma la fine di Pierre spalanca le porte a un’inquietudine imprevista. Gregorio, marinaio insofferente e in attesa di destinazione, pur sapendo che “no, non era l’uomo adatto a condurre un’indagine”, si trova a collezionare scaglie di conversazioni e impressioni, tra un bicchiere di vino e un “arsenale dei sogni”. Parla con Edoardo che, chissà, forse è lo stesso di Attesa sul mare, segue Ester sui sentieri di sassi e osserva il dolore di Martine Haillier, la madre di Jean-Pierre, chiedendosi se fosse “anche lei attratta da una vertigine?”. Quel dubbio è un passo obbligato, perché “sparire, tentazione che si era sempre accompagnata alla vita e sempre accarezzata da qualche giovane disperato, era un processo solitario” e nei dintorni di Avrigue hanno trovato rifugio molti randagi e “toxicos” che negli anfratti delle montagne e nei resti dei bunker della frontiera conducono un’esistenza marginale e passiva. Il destino di Jean-Pierre è maturato in quel milieu, tra l’arenarsi di esistenze raminghe e il silenzio rassegnato dei villaggi incastrati tra le rocce. L’unica alternativa è il mare, il cui riflesso lontano ha le pieghe di un miraggio che, quando “il passato all’improvviso si chiuse nella pace”, per Gregorio diventa un orizzonte inevitabile. La lingua di Francesco Biamonti è una scorza ruvida e contagiosa, costruita con un ritmo fatto di lunghi intervalli dove s’insinua il paesaggio degli ulivi, una presenza costante che, di fatto, delinea L’angelo di Avrigue in tutto il suo scorrimento. Le pennellate di Biamonti sono tratteggi impressionisti, ispirati dai pittori provenzali (“La collina era irruvidita nel lungo tramonto. La notte non riusciva a toccare gli ulivi soprani trasformati in vaste farfalle nere. Era arrivata una di quelle tristissime sere in cui sul mare si sentiva lo stridio del ferrame”) e conditi con un vocabolario gergale, preso un po’ dal dialetto, un po’ dal francese e un po’ da un afflato poetico che distribuisce le parole secondo un’armonia segreta, e ancora in evoluzione. Secondo Italo Calvino, L’angelo di Avrigue vive di “una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi”, una peculiarità che rende alla perfezione l’atmosfera crepuscolare del Mediterraneo su un’umanità dolente e smarrita.

venerdì 17 aprile 2020

Gianni Celati

Cominciando in Un paesaggio con centrale nucleare nel maggio 1986 e finendo Verso la foce nello stesso mese, ma nel 1983, il viaggio di Gianni Celati va a ritroso nel tempo, come se la direzione lo rendesse arbitrario, relegandolo ad una delle tante variabili che determinano questi “racconti d’osservazione”. La partenza riporta alla primavera atomica di Černobyl’, con le radiazioni che sono una presenza costante e minacciosa nell’aria e nel “frigido” linguaggio dei notiziari. Curiosando attorno alla centrale di Caorso, prima tappa lungo le sponde del Po, Gianni Celati annota sui suoi quaderni la desolazione della pianura, appiattita dalle colture intensive e dalle costruzioni industriali, ma quando si addentra nei piccoli paesi che si affacciano sul fiume, sa riportarne l’atmosfera, un po’ desolata e un po’ confortevole. L’attitudine è quella discreta e silenziosa che Gianni Celati riassume così: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla mostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi”. Ecco allora che scendendo Verso la foce “gli argini fanno venire in mente racconti di barcaioli, braccianti, ghiaiaroli, segantini, uomini di bosco e uomini di fiume. La strada pensile che li percorre permette di vedere insieme il fiume e i campi, e a volte altri argini detti comprensori, che in caso di piena servono ad isolare le zone allagate. Sotto gli argini, dalla parte del fiume o dall’altra, boschetti golenali che un tempo dovevano essere soprattutto di salici. Adesso dovunque pioppeti disposti su linee scalate (da qualunque parte si guardino si vedono linee d’alberi in diagonale), formano assieme agli argini un ordine spaziale che esiste solo da queste parti”. Il paesaggio costituisce un elemento primario e irrinunciabile, non soltanto perché lo sguardo di Gianni Celati si perde spesso e volentieri “là fuori”, seguendo l’idea che “un’intensa osservazione del mondo esterno ci rende meno apatici (più pazzi o più savi, più allegri o più disperati)”. Il percorso, disseminato da ostacoli (una macchina che non va, una piaga sul piede, il fango nelle rive), si fa più rarefatto mentre Verso la foce si avvia al suo sbocco sul mare, ma più movimentato dato che “anche l’immaginazione fa parte del paesaggio: lei ci mette in stato d’amore per qualcosa là fuori, ma più spesso è lei che ci mette in difesa con troppe paure; senza di lei non potremmo fare un solo passo, ma poi è lei che ci porta sempre non si sa dove. Ineliminabile dea che guida ogni sguardo, figura d’orizzonte, così sia”. A quel punto, di nuovo, “là fuori” diventa un refrain martellante che Gianni Celati dedica a quello che vede o non vede (“Mi sembra che là fuori, in ciò che si svolge, ci sia il miraggio d’una presenza commovente. Richiamo dello spazio aperto, viene da tutto ciò che appare, cresce o spunta là fuori”), tracciandone un profilo e forse anche un senso (“Le apparenze là fuori hanno un loro andamento ininterrotto che niente può disturbare: non hanno direzione, hanno solo continuità”), e infine riportando tutto all’alveo della scrittura (“Pretese delle parole, che pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra ben poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?”). Per essere sicuro di rispondere Gianni Celati riporta persino le bestemmie, e sentendosi estraneo più che “straniero”, in terre dove si “respira un’aria di solitudine urbana”, scopre che “le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo nei nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza”. Le condizioni di luce riportano inevitabilmente alle fotografie dell’amico Luigi Ghirri, capace di trovare quelle sfumature e quei singolari profili anche “nello spazio sempre più spalancato della pianura senza punti di riferimento”. Gianni Celati applica e traduce lo stesso procedimento alle parole, cercando di metterle in un ordine plausibile, con la certezza che servano almeno a “chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”. Senza alcuna urgenza (nemmeno quella della scrittura), solo seguendo il tempo di un fiume, che va un po’ come vuole lui. 

martedì 7 aprile 2020

Fabio Cerbone

L’operazione condotta da Fabio Cerbone è singolare e specifica nello stesso tempo dato che trasforma undici canzoni americane in altrettanti racconti. Se le fonti primarie a cui attingere appartengono a visioni particolarmente raffinante ed evolute del songwriting made in U.S.A., la libera interpretazione di Fabio Cerbone consente da una parte di collocare in una nuova e affascinante prospettiva brani come Tecumseh Valley di  Townes Van Zandt, Tennessee Plates, di John Hiatt, $29.00 di Tom Waits o Mr. Bojangles di Jerry Jeff Walker. L’azzardo di Fabio Cerbone porta a rivedere completamente i personaggi di Used Cars di Bruce Springsteen riproponendoli in una Michigan Avenue ben distante dai paesaggi del New Jersey, ma è piuttosto fedele, se non altro nelle tematiche centrali della canzone, a Sam Stone di John Prine e Something Big di Tom Petty, fonti di ispirazione rispettivamente per La scheggia e Qualcosa di grande. Nel primo racconto, le ombre della guerra in Vietnam calano con il ritorno a casa di un veterano, che rimanda direttamente alle sequenze con cui si conclude Il cacciatore, anche se in questo caso la classe operaia dei Missouri affolla “l’industria alimentare e le grandi produzioni agricole della regione”, mentre nel capolavoro di Michael Cimino, combatteva negli altiforni, nelle fonderie e nelle acciaierie della Pennsylvania. Il disorientamento, la desolazione e la tragedia resta gli stessi e per Sam Stone, “l’America è un posto grande”, ma anche senza via d’uscita. La stessa sensazione di claustrofobia, nonostante l’illusione ottica dei grandi spazi e delle terre promesse, avvolge Qualcosa di grande, una short story che racconta la dissoluzione nei meandri della tossicodipendenza e che è impossibile leggere senza pensare in continuazione alla cupa e bellissima ballata di Tom Petty. L’ipotetico viaggio di Fabio Cerbone ha molti anfitrioni e molte guide, ma più di tutti sembra essere Hank Williams il suo fantasma preferito che, infatti, introduce la parte finale, ispirata da Kris Kristofferson (Sunday Morning Comin’ Down e To Beat the Devil) che sono alla fonte di Per battere il diavolo e da (Desperados Waiting For a Train di Guy Clark per I pozzi di Monahans. A quel punto siamo già “dentro il deserto”, dove nelle Frequenze clandestine ispirate da Dave Alvin (Fourth of July e Border Radio) pare di risentire l’urlo famelico di Wolfman Jack e del suo rock’n’roll sparato a tutto volume dalla frontiera messicana fino al Canada. America 2.0 è un tributo appassionato a una nazione che coltiviamo tutti i giorni, una realtà che è ancora disegnata dalle canzoni di Roy Orbison o dai romanzi di Larry McMurtry (o dai dischi del figlio James, qui richiamato da Johnny, tratta da Where’s Johnny, la canzone che apriva Candyland) e in cui Fabio Cerbone sa districarsi con grazia e abilità perché ne conosce i linguaggi, i segreti, le associazioni, i luoghi, i desideri e le sconfitte. È, palesemente, un’America che esiste soltanto in queste circostanze e grazie alla continua trasfusione di una grande passione, ma del resto il sottotitolo è un’avvertenza fin troppo esplicita. Si tratta di Canzoni e racconti di una grande illusione, e tanto dovrebbe bastare a far intuire che Fabio Cerbone dell’America ha capito tutto, o quasi. 

martedì 24 marzo 2020

Agostino Roncallo

Quella di Agostino Roncallo in Notturno è poesia civile e di testimonianza, nel senso più ampio del termine, che fugge le banalità televisive per offrire un appiglio alla memoria, per non dimenticare i buchi neri recenti della storia italiana, e non. Agostino Roncallo parte, spogliando le singole storie dei luoghi comuni, dalle intemperie degli inutili conflitti politici e riportandole al centro dell’attenzione, che si tratti delle moderne odissee dei migranti, della follia omicida verso le donne o di un ponte destinato a unire e, crollato per l’incuria, diventato il simbolo di un paese spezzato, diviso e senza direzione. A confronto, pur con tutte le torture, le sofferenze, le privazioni, i viaggi narrati in Migranti! almeno comportano l’inderogabile necessità di una speranza. È la risposta che, ripetendosi quasi come il ritornello di una canzone, definisce l’identità di Aurora: “Vengo da un luogo lontano e questa luce, questa è venuta con me”. Le figure femminili sono preponderanti e Agostino Roncallo sceglie un galleria di vittime per svelare “una realtà distorta nelle sue componenti più autentiche”, quella che si nasconde dietro l’orribile neologismo di Femminicidio. Le sue “murder ballad” riportano a galla le motivazioni più oscure e tragiche e, come dice lo stesso Roncallo, “il punto di vista è multiforme, e comprende il pensiero dell’uomo violento, assassino, la sua volontà autodistruttiva”. La versione lirica è, volendo, ancora più attenta, mentre scorre in La scatola vuota: “La vita, è una scatola vuota che l’uomo riempie di sfruttamento, di dolore di tutto l’egoismo possibile; la vita, è una scatola vuota nella quale entra, talvolta qualcuno che ha fede nel buono nel bello, nel perfetto anche se sono solo un’ombra niente altro che un’ombra”. È un’ammissione che vale “il romanzo della vita”, perché senza dubbio il “tempo passerà, ma non fermiamoci qui, questo cammino qualcosa, un giorno, accadrà”. I versi di Notturno non si possono scindere dall’interpretazione, nel progresso verso la forma delle canzoni allegate, di Michele Anelli che nell’appendice allarga all’ambito musicale i versi di Agostino Roncallo. Nella coabitazione che prende forma nella comune urgenza espressiva e nella stessa fiducia nel potere delle parole nel rendere giustizia a storie che rischiano di essere dimenticate, troppo presto, anche se appartengono al secolo scorso. Comincia con La scrittura umana che “è come la tua voce, ha il ritmo spezzato, a volte accelerato, lento” e “parla del mondo, rimane un po’ amara, non ama il silenzio”, per poi addentrarsi nelle pieghe degli Invisibili (“Invisibili i miei giorni, raccolti in un quaderno, i miei passi silenziosi sulla neve, le mani che vogliono afferrare il tuo sguardo”), per arrivare, compreso l’omaggio a John Berger e a Woody Guthrie a convergere su Duemilaeuno, canzone che riporta alla conclusione del Notturno di Agostino Roncallo. Genova, scuola Diaz, anno 2001 è un grido di dolore, perché altro probabilmente non si può, che riporta a quella tragica estate, una lacerazione profonda e mai sanata nella nostra cosiddetta civiltà. Rileggerla a distanza di vent’anni, nella coraggiosa cronaca poetica di Agostino Roncallo che rimette tutti i dettagli, anche quelli più efferati e brutali, secondo un ordine ben preciso, ha un effetto straziante. Ancora di più se si paragonano le sue parole, intense e accorate, ai linguaggi istituzionali di quel cupo momento. Il presidente della repubblica disse nel discorso inaugurale del G8: “Alle generazioni più giovani dobbiamo dimostrare che le nostre scelte sono scelte di civiltà”. Auguri, perché il ministro degli esteri concluderà così la sua relazione al parlamento, qualche giorno dopo: “È  con grande dolore che ho constatato come i mezzi di informazione abbiano voluto sottolineare quasi esclusivamente i momenti di scontro e di violenza e non quelli di progresso e di speranza”. Non hanno capito prima, non hanno capito dopo, non capiranno mai.

giovedì 5 marzo 2020

Antonino Trizzino

Nell’Anatomia dell’influenza, Harold Bloom ricordava che gli elementi caratteristici della letteratura americana, e per estensione di quella anglosassone tutta, si potevano ricondurre al “mare, la madre, la notte, la morte”. Per questo è singolare che Il punto cieco a cui fa riferimento Antonino Trizzino sia circoscritto, alle sue estremità, dalle visioni e dai tormenti personali di Philip Dick e Melville, che delimitano le incursioni negli abissi e nelle onde di Gottfried Benn, Walter Benjamin, Robert Walser, Edgar Allan Poe, tra la Germania e il New England, Bartleby e Nexus-6. L’ordine non è costituito: Il punto cieco asseconda piuttosto l’imprevedibilità delle strategie oblique di Brian Eno, consentendo ad  Antonino Trizzino di scandagliare con grande libertà l’oscurità attraverso le prove di scrittori che hanno lacerato la letteratura, pagando per intero il prezzo della loro estraneità, ben sapendo che “fare arte significa avere un po’ le palle piene della vita”. Detto in modo prosaico, ma sicuramente efficace, condensa i richiami che Il punto cieco rivolge agli outsider che hanno respirato a pieni polmoni “l’aria pura della sconfitta”. Philip Dick introduce alle curve della fantascienza che secondo Trizzino “è una variante del gotico e perciò è quasi sempre pessimistica; non nasce dalla volontà di esplorare muovi mondi e nuove forme di vita (Star Trek), ma dell’orrore che brulica nei nostri spazi interni”. Considerazione più che condivisibile, ma il ritratto di Philip Dick va oltre e abbraccia il ruolo degli androidi e dell’intelligenza artificiale e del loro impatto sul nostro modo di vivere, ricordando che “come gli incubi, la fantascienza guarda dalla parte giusta, dalla parte della rivelazione, che è alla radice sia della magia che della scienza”. Sono pagine sorprendenti che vagano tra la dolorosa biografia di Philip Dick e l’insorgenza di esseri artificiali la cui tassonomia andrebbe aggiornata. Lo stesso, spiazzante meccanismo è applicato a Robert Walser, con la doverosa premessa che “la poesia prospera nella dissipazione: può rinnegarsi, dichiararsi finita, ma senza smettere di essere potente. Il suo interesse va all’equilibrio instabile, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste al crollo ma mantiene la costante del pericolo. Il poeta ama il pericolo e non ha comprensione del proprio gesto; deve voler soffrire, non può dimenticarsi di soffrire, altrimenti si normalizza e allora soffre davvero”. Dal canto suo, Walser la chiama“una felicità del tutto particolare”, un bel modo per edulcorare la solitudine, la sofferenza e la fatica legate alla scrittura. Secondo Claudio Magris, Robert Walser “è un grande scrittore che vive la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disgregazione della totalità e del grande stile classico che aveva costretto le dissonanze del mondo nella compatta armonia della forma e del significato. Il soggetto individuale, che si era posto superbamente quale centro ordinatore della vita, si accorge che la sua sorte è invece quella di disperdersi e disseminarsi nel fluire delle cose”. Antonino Trizzino sembra raccogliere il testimone e, con maggiore precisione, scrive che “Robert Walser è un esempio per chiunque voglia fallire nella vita e, eventualmente, sfondare nell’arte. Anche se su quest’ultimo punto il risultato non è garantito. L’artista non deve spassarsela, altrimenti finirà per morire in una serie di gratificazioni: senza abissi, resta dimezzato”. Il genio si nutre di ossessione e follia e il salto carpiato fino a Moby Dick è più naturale e spontaneo di quello che appare, se non altro per aver riesumato l’apologia di Melville: “Chi non ha mai fallito da qualche parte non può essere un grand’uomo. Il fallimento è il vero indice della grandezza. E se si dicesse che il successo ininterrotto è la prova che un uomo conosce le proprie capacità, basta solo aggiungere che, in quel caso, questi sa che sono limitate”. Il punto cieco avvince e avvolge come un tuffo nell’oceano, e merita un adeguato riconoscimento anche e soprattutto perché giunge alla giusta conclusione che “la potenza della letteratura è tutta nella capacità di fare silenzio, nel minimo che ha da dire, in una condizione in cui si annulla il dovere di scrivere”. Il mare è vasto e la notte è lunga, ma, volendo, non è così difficile fare chiarezza.

martedì 3 marzo 2020

Claudio Magris

Dietro le parole nasconde e insieme rivela il lavorio di Claudio Magris, trattandosi di una raccolta di articoli che vanno dal 1973 al 1978 che comprendono ritratti e saggi dedicati a Novalis, Tolstoj, Kafka, Canetti, Svevo, Nietzsche, Ibsen, London, Handke, Kundera, Musil, Singer, Borges, Walser. Si trova la consueta attenzione alla cultura mitteleuropea (che poi troverà una sua pregiata definizione in Danubio) qui declinata soprattutto sul versante asburgico perché, come scrive Claudio Magris, “la civiltà austroungarica è stata invece assunta nella vera poesia come un modello nel senso sperimentale del termine, ossia come una costruzione ipotetica da contrapporre alla realtà per meglio capirne l’essenza e il funzionamento”. Una porzione consistente degli articoli è dedicata alla poesia, a partire dalla precisa distinzione di August Wilhelm Schlegel (“La poesia degli antichi era quella del possesso, la nostra è quella della nostalgia”) alla definizione coniata dallo stesso Magris: “La poesia è il regno della pluralità, la dimostrazione della molteplicità delle vie che conducono alla civiltà, la negazione di ogni gelosa autarchia; sentire e far sentire questa corale eguaglianza nella diversità significa conservare la libertà e la forza dell’individuale”. Da Brecht a Saba, da Hofmannsthal a Rilke, da Borges a Biagio Marin (“La bellezza della poesia di Marin è la perfezione delle cose che hanno bisogno di molto tempo per crescere e formarsi, rispecchia i tempi lunghi delle sue amate conchiglie che assumono lentamente sul fondo del mare la loro levigata e impeccabile simmetria; è una bellezza da cui sembra spirare la saggezza di Hokusai, il pittore giapponese che si proponeva di arrivare all’essenza del disegno quando avesse raggiunti i cent’anni), le digressioni di Magris hanno una costante nell’assidua ricerca nella e per la scrittura non solo come strumento di conoscenza, e di elevazione, ma anche di autodifesa perché “soltanto l’astrazione e la riduzione più rigorosa paiono promettere di rivelare il senso dell’esistenza, come se solo sfrondando e definendo la vita dell’intrico degli affannosi dettagli che l’avviluppano si potesse liberarne la sostanza, come se il nocciolo fondamentale fosse raggiungibile unicamente dopo aver amputato e potato quanto appare accessorio”. Le articolazioni, per quanto vengano approfondite nella ricerca Dietro le parole, appaiono persino relative: si tratti di fiabe (Andersen), saggi (Cases), storia (Tamerlano, Francesco Giuseppe), appunti di viaggio o riflessioni filosofiche, secondo Magris “scrivere e leggere, trasportare l’esistenza sulla carta permette di mettersi al sicuro dalla durezza e dal caos del presente; solo nell’immateriale rarefazione operata dal ricordo e dalla penna è possibile cogliere quella luce dell’essenziale che, nel presente, è oscurata dalle angosce occasioni che incalzano da ogni parte”. Questo vale anche e soprattutto nella formazione del linguaggio rispetto alle evenienze e alle urgenze quotidiane che trova in Critica delle istituzioni un esempio particolarmente efficace, ma che traspare sempre nel tono di Magris, in particolare quando ricorda che “la confusione della piazza è, come sempre, un riflesso della confusione della reggia”. Da leggere, e rileggere.