giovedì 5 novembre 2020

Paolo Scardanelli

L’estate del 1979 comincia il 4 maggio quando la Thatcher viene eletta primo ministro. È il primo e definitivo segnale che il mondo occidentale è avviato a una rapida metamorfosi, a senso unico e senza possibilità di tornare indietro. Qualche settimana dopo, Paolo appena superata la maturità parte dalla Sicilia per il Friuli e si trova in a un campo di giovani comunisti, dove la disillusione aleggia nell’aria, tra la nostalgia dei vecchi partigiani e l’incombere feroce della lotta armata, che all’inizio dell’anno aveva colpito Guido Rossa, una svolta tanto netta quanto brutale. Paolo e i suoi amici, convinti che “una volta la vita è tragedia, un’altra miracolo, ma questo non vuol dire che non ci sia una vita”, sciolgono in anticipo i nodi dell’ideologia e si ritrovano a confrontarsi con le incombenze dell’esistenza che, incuranti della storia, della politica, della religione e della letteratura, restano lì, immobili, pesanti e inarrivabili come l’ombra dell’Etna che si stende lungo tutto L’accordo. Ben sapendo che, come diceva Schopenauer “conosciamo la vita prima tramite la poesia che tramite la realtà”, nel suo esordio Paolo Scardanelli genera un prisma mutevole attraverso il quale filtrano appunti filosofici (parecchi), un flusso di coscienza fatto di memorie e riflessioni, e un’Italia vista dentro un lente d’ingrandimento caleidoscopica che, alla fine, ce la fa vedere per quello che è. Una somma di delusioni, di limiti e di rimpianti aggrovigliati attorno ad alcuni capisaldi inamovibili (la famiglia, il lavoro, le tradizioni), ma non per questo così solidi. La visione di Scardanelli sorvola e supera le considerazioni sociologiche, che comunque sono evidenti, e pur con un sommo gusto per la dissertazione (e la divagazione) riporta tutto alla condizione transitoria dei suoi protagonisti, che ammettono senza omissioni: “Siamo figli dell’usura; il tempo deve segnare noi e gli oggetti che ci sono intorno perché siano attivi, abbiano vita e senso per noi. E lì, nella fiamma del contatto, comincia già il decadimento; è un costante braccio di ferro tra obbligo d’andare avanti e nostalgia di un perduto che non è mai stato”. Il personaggio su cui si riflette Paolo è l’amico Andrea Algino, simbolo a suo modo degli imperativi economici e del nuovo che avanzava senza incontrare resistenze. Per lui il cambiamento ha radici antiche, visto che si ritrova dietro una scrivania dell’azienda guidata dal padre e così bisogna ammettere che “siamo costretti all’azione, ad agire su di un terreno paludoso, col rischio continuo di sprofondare nella sabbie mobili. E ogni nostra mossa ci conduce inevitabilmente al fallimento”. Attorno agli Algino, L’accordo prende una piega più cupa, comprensiva di un assassinio che però non insegue i consunti cliché polizieschi, ma assume un carattere simbolico e riporta al nucleo della storia, dove pulsa in continuazione una domanda: “Che senso può avere un minuscolo ma intensissimo dolore in uno spazio sterminato, apparentemente infinito?”. Per Paolo e gli amici distribuiti alle estremità della penisola e disturbati dalle evenienze della realtà non resta che schivare le interferenze di un mondo che sta scomparendo, chiudendo “la porta senza far rumore, svanendo in un remoto punto d’osservazione, oltre la stratosfera”. La scrittura florida e ipersensibile di Paolo Scardanelli affronta il “mestiere di vivere” e allora va ricordato che Pavese diceva che “la poesia nasce non dall’our life’s work, dalla normalità delle nostre  occupazioni, ma dagli istanti in cui leviamo il capo e scopriamo con stupore la vita”, ma alla fine di quella lunga estate non c’è più tempo, nemmeno per la buona sorte. Quello che sopravvive è specificato con estrema decisione ed è persino parte integrante del titolo, così come viene espresso da Paolo Scardanelli: “L’elezione. Senz’altro ci unisce. La comunità del sentire elegge persone differenti per provenienza, estrazione, esperienze. Come la vita ci sembra debba essere ci collega in un ipotetico cerchio magico cui sino a oggi solo la musica ha saputo dare risposta collettiva”. Questo è senza dubbio molto chiaro nella playlist che L’accordo lascia scorrere nelle sue pagine: si trovano Brian Eno, Tom Waits, Vashti Bunyan, Jimi Hendrix, Mike Bloomfield, Walk On By nella versione di Isaac Hayes e poi in quella originale di Burt Bacharach, e infine Jeff Buckley, ma ormai siamo nel 1997 e tutto è ormai un ricordo, o un sogno che torna a galla.

martedì 3 novembre 2020

Fabrizio Poggi

Storicamente, il blues è nato in un momento crepuscolare in cui alcune magie, religioni e culture hanno trovato una nuova forma. Un passaggio che ha visto anche tradizioni di consuetudini e di folklore diventare canzoni, proprietà pubblica e mutevole, materiale di lavoro, di suono e d’amore per quanto contrastato e faticoso. La sintesi, senza dubbio un “prodotto” sociale e culturale straordinario, non ha portato soltanto alla genesi di una suono che è poi stata la fonte primaria di una larga parte della musica occidentale, ma anche alla creazione di uno slang che, di secolo in secolo, si è trasformato in un vero e proprio linguaggio. Fabrizio Poggi con un lavoro certosino di ricerca e di assemblaggio ha ricostruito l’idioma degli Angeli perduti del Mississippi, vocabolo per vocabolo, frase per frase, titolo per titolo e personaggio per personaggio, allineando le Storie e leggende del blues un po’ per comodità e un po’ per le logiche stringenti di un dizionario in ordine alfabetico. La schematicità della disposizione non ha pesato sull’interpretazione di Fabrizio Poggi così come non influisce sulla lettura. Angeli perduti del Mississippi si può prendere dall’inizio alla fine leggendolo come un romanzo dove si intrecciano racconti di demoni e chitarristi, di fantasmi e radici, di uno o più Delta e nomi di bluesmen che evocano gesta epiche: Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Slim Harpo, Lightnin’ Hopkins, Elmore James e Bob Dylan. Sì, perché alla voce Dylan, Bob è dedicato un ampio ritratto, come non potrebbe essere diversamente perché pur non avendo scritto “bluesman” sulla sua carta d’identità è uno snodo fondamentale che Fabrizio Poggi non poteva evitare. In un altro senso, Angeli perduti del Mississippi si può leggere come un manuale linguistico, colto e approfondito, il cui tenore non ha assolutamente nulla da invidiare a uno studio universitario, ma che a differenza di tanti tomi pieni di note a piè di pagina, scorre senza esitazioni sulle onde di una passione che Fabrizio Poggi conosce dal vivo, per via di una lunga e fruttuosa frequentazione. Avvicinatosi giovanissimo (è nato nel 1958) al mondo della musica, trova il suo strumento d’elezione nell’armonica a bocca, uno degli aggeggi fondamentali del blues, di cui diventa uno dei più noti solisti italiani. Con la sua band, Chicken Mambo, e altre formazioni incide una ventina di album, molti dei quali prodotti e registrati negli Stati Uniti, paese che ha ben conosciuto grazie a numerosi viaggi, soprattutto negli stati del Sud. Questo per dire che è un libro “cool”, già ma cosa vuol dire “cool”? C come “cool”, e per tutti gli Angeli perduti del Mississippi, Fabrizio Poggi richiama (a ragione veduta) Amiri Baraka alias LeRoi Jones: “Il termine cool significa avere un rapporto speciale con tutto ciò che ti circonda. Essere cool vuol dire continuare ad avere un atteggiamento positivo anche di fronte all’orrore che la vita ogni giorno ci propina”. Citazione appropriata perché Angeli perduti del Mississippi è davvero frutto di un “rapporto speciale” con il blues. Un glossario, studiato parola per parola, biografia per biografia, da Bill Abel a Ike Zinnerman, diventa una lunga e appassionata cavalcata alle origini della grammatica e di ogni singolo rituale del blues, dalle accordature aperte alle aperture ad altre musiche perché “chi non ama il blues ha un buco nell’anima”. Tenetelo a portata di mano.

lunedì 2 novembre 2020

Claudio Magris

Le testimonianze che raccoglie L’infinito viaggiare si dipanano in un arco tra il 1981 e il 2004. Claudio Magris si divide tra lo spazio mitteleuropeo, ma anche il Vietnam, i paesi scandinavi, l’Iran, Berlino. L’identità del viaggiatore si forma nello sguardo e si trasforma nel corso del viaggio perché “chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un  ritorno e insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa”. Con la consueta attenzione, L’infinito viaggiare mette anche un punto ai luoghi comuni e all’enfasi attribuita al viaggio in tempi recenti. Secondo il parere di Claudio Magris, “il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’errore, alla sopraffazione e all’aridità, al naufragio”. Ecco allora che “andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’intensità domestica”, e sfidare i confini, l’ignoto con uno spiccato senso dell’avventura e un’indomita curiosità e con la consapevolezza che “se ci si sente estranei o stranieri, non è per la sensazione di essere uomini che s’avventurano in un paese di nebbia, ma piuttosto per la sensazione di essere noi creature di nebbia o giochi di ombre che camminano fra persone vive, un po’ più minacciate dalla morte di quanto lo siamo noi, ma vive”. Claudio Magris si sofferma a più riprese sulle dimensioni concettuali del viaggio e avverte che “muovendosi avanti e indietro nello spazio, senza seguire percorsi obbligati e affidandosi alla digressione più che alla linea retta, il viaggiatore per qualche breve momento sospende il tempo, lo tiene un po’ in scacco come il giocoliere che lancia e lascia per qualche attimo sospesi in aria i suoi bastoncini, anche se sa che, prima o poi, gli cadranno tutti sulla testa”. È proprio in quel momento, transitorio ed effimero finché si vuole, ma a suo modo definitivo, che Claudio Magris identifica l’intersezione fondamentale tra passaggio e paesaggio, tra tempo e spazio che definisce puntualmente così: “Beninteso, questa sensazione dell’irrealtà della storia, che è invece fatta di carne e ossa, di lacrime e sangue, di individui concreti e delle fedi concrete per le quali essi hanno combattuto, sono vissuti e sono morti, è una tentazione intellettuale e morale, un’ingannevole seduzione degli ingranaggi e dei meccanismi sociali, che tendono a distogliere gli uomini dalle domande sul loro significato e dalla fiducia di poterli mutare. L’odissea del disincanto, il nostro viaggio quotidiano nella realtà, si gioca tutta nella capacità di resistere a queste sirene del disincanto, di ascoltare senza turarsi le orecchie la loro canzone e riconoscere anche quanto c’è di vero in essa, quali aspetti della nostra stagione storica essa ci dice e ci svela, ma senza cedere supinamente alla sua lusinga, senza credere che quella verità sia definitiva e totale, che non esistano più le cose e le domande ultime”. A quel punto, L’infinito viaggiare di Claudio Magris diventa anche un punto di vista sulla storia, oltre che sulla geografia, anche se non perde l’occasione di ribadire che “il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca”. Con il passo e il ritmo determinato dai luoghi, la riduzione in parole diventa a sua volta una peripezia imprevedibile e allora bisogna convincersi, come dice Claudio Magris, che la letteratura “è anche trasloco” ed è per quello che L’infinito viaggiare è perfetto sia nella valigia che sul comodino.