lunedì 27 aprile 2020

Francesco Biamonti

Italo Calvino spiegava così la trama dell’esordio di Francesco Biamonti: “Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe comprendere cos’è quella spinta di autodistruzione che si sente nell’aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa d’un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi; ma le solitudini sommandosi non s’annullano”. Nell’aspro entroterra di Ponente, a ridosso del confine con la Francia, un giovane, Jean-Pierre, viene trovato morto, sotto uno spuntone di roccia da cui probabilmente è caduto. Per la rarefatta e dispersa comunità della valle ligure, che asseconda i ritmi delle stagioni e le partenze sul mare e dove ogni cosa “sapeva di dignitosa miseria”, è una sferzata di dolore che lascia tutti avvolti in un cupo sudario di silenzio e di frasi lasciate sospese nel vento. È vero che “una parte di gioventù si è sempre perduta”, ma la fine di Pierre spalanca le porte a un’inquietudine imprevista. Gregorio, marinaio insofferente e in attesa di destinazione, pur sapendo che “no, non era l’uomo adatto a condurre un’indagine”, si trova a collezionare scaglie di conversazioni e impressioni, tra un bicchiere di vino e un “arsenale dei sogni”. Parla con Edoardo che, chissà, forse è lo stesso di Attesa sul mare, segue Ester sui sentieri di sassi e osserva il dolore di Martine Haillier, la madre di Jean-Pierre, chiedendosi se fosse “anche lei attratta da una vertigine?”. Quel dubbio è un passo obbligato, perché “sparire, tentazione che si era sempre accompagnata alla vita e sempre accarezzata da qualche giovane disperato, era un processo solitario” e nei dintorni di Avrigue hanno trovato rifugio molti randagi e “toxicos” che negli anfratti delle montagne e nei resti dei bunker della frontiera conducono un’esistenza marginale e passiva. Il destino di Jean-Pierre è maturato in quel milieu, tra l’arenarsi di esistenze raminghe e il silenzio rassegnato dei villaggi incastrati tra le rocce. L’unica alternativa è il mare, il cui riflesso lontano ha le pieghe di un miraggio che, quando “il passato all’improvviso si chiuse nella pace”, per Gregorio diventa un orizzonte inevitabile. La lingua di Francesco Biamonti è una scorza ruvida e contagiosa, costruita con un ritmo fatto di lunghi intervalli dove s’insinua il paesaggio degli ulivi, una presenza costante che, di fatto, delinea L’angelo di Avrigue in tutto il suo scorrimento. Le pennellate di Biamonti sono tratteggi impressionisti, ispirati dai pittori provenzali (“La collina era irruvidita nel lungo tramonto. La notte non riusciva a toccare gli ulivi soprani trasformati in vaste farfalle nere. Era arrivata una di quelle tristissime sere in cui sul mare si sentiva lo stridio del ferrame”) e conditi con un vocabolario gergale, preso un po’ dal dialetto, un po’ dal francese e un po’ da un afflato poetico che distribuisce le parole secondo un’armonia segreta, e ancora in evoluzione. Secondo Italo Calvino, L’angelo di Avrigue vive di “una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi”, una peculiarità che rende alla perfezione l’atmosfera crepuscolare del Mediterraneo su un’umanità dolente e smarrita.

venerdì 17 aprile 2020

Gianni Celati

Cominciando in Un paesaggio con centrale nucleare nel maggio 1986 e finendo Verso la foce nello stesso mese, ma nel 1983, il viaggio di Gianni Celati va a ritroso nel tempo, come se la direzione lo rendesse arbitrario, relegandolo ad una delle tante variabili che determinano questi “racconti d’osservazione”. La partenza riporta alla primavera atomica di Černobyl’, con le radiazioni che sono una presenza costante e minacciosa nell’aria e nel “frigido” linguaggio dei notiziari. Curiosando attorno alla centrale di Caorso, prima tappa lungo le sponde del Po, Gianni Celati annota sui suoi quaderni la desolazione della pianura, appiattita dalle colture intensive e dalle costruzioni industriali, ma quando si addentra nei piccoli paesi che si affacciano sul fiume, sa riportarne l’atmosfera, un po’ desolata e un po’ confortevole. L’attitudine è quella discreta e silenziosa che Gianni Celati riassume così: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla mostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi”. Ecco allora che scendendo Verso la foce “gli argini fanno venire in mente racconti di barcaioli, braccianti, ghiaiaroli, segantini, uomini di bosco e uomini di fiume. La strada pensile che li percorre permette di vedere insieme il fiume e i campi, e a volte altri argini detti comprensori, che in caso di piena servono ad isolare le zone allagate. Sotto gli argini, dalla parte del fiume o dall’altra, boschetti golenali che un tempo dovevano essere soprattutto di salici. Adesso dovunque pioppeti disposti su linee scalate (da qualunque parte si guardino si vedono linee d’alberi in diagonale), formano assieme agli argini un ordine spaziale che esiste solo da queste parti”. Il paesaggio costituisce un elemento primario e irrinunciabile, non soltanto perché lo sguardo di Gianni Celati si perde spesso e volentieri “là fuori”, seguendo l’idea che “un’intensa osservazione del mondo esterno ci rende meno apatici (più pazzi o più savi, più allegri o più disperati)”. Il percorso, disseminato da ostacoli (una macchina che non va, una piaga sul piede, il fango nelle rive), si fa più rarefatto mentre Verso la foce si avvia al suo sbocco sul mare, ma più movimentato dato che “anche l’immaginazione fa parte del paesaggio: lei ci mette in stato d’amore per qualcosa là fuori, ma più spesso è lei che ci mette in difesa con troppe paure; senza di lei non potremmo fare un solo passo, ma poi è lei che ci porta sempre non si sa dove. Ineliminabile dea che guida ogni sguardo, figura d’orizzonte, così sia”. A quel punto, di nuovo, “là fuori” diventa un refrain martellante che Gianni Celati dedica a quello che vede o non vede (“Mi sembra che là fuori, in ciò che si svolge, ci sia il miraggio d’una presenza commovente. Richiamo dello spazio aperto, viene da tutto ciò che appare, cresce o spunta là fuori”), tracciandone un profilo e forse anche un senso (“Le apparenze là fuori hanno un loro andamento ininterrotto che niente può disturbare: non hanno direzione, hanno solo continuità”), e infine riportando tutto all’alveo della scrittura (“Pretese delle parole, che pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra ben poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?”). Per essere sicuro di rispondere Gianni Celati riporta persino le bestemmie, e sentendosi estraneo più che “straniero”, in terre dove si “respira un’aria di solitudine urbana”, scopre che “le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo nei nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza”. Le condizioni di luce riportano inevitabilmente alle fotografie dell’amico Luigi Ghirri, capace di trovare quelle sfumature e quei singolari profili anche “nello spazio sempre più spalancato della pianura senza punti di riferimento”. Gianni Celati applica e traduce lo stesso procedimento alle parole, cercando di metterle in un ordine plausibile, con la certezza che servano almeno a “chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”. Senza alcuna urgenza (nemmeno quella della scrittura), solo seguendo il tempo di un fiume, che va un po’ come vuole lui. 

martedì 7 aprile 2020

Fabio Cerbone

L’operazione condotta da Fabio Cerbone è singolare e specifica nello stesso tempo dato che trasforma undici canzoni americane in altrettanti racconti. Se le fonti primarie a cui attingere appartengono a visioni particolarmente raffinante ed evolute del songwriting made in U.S.A., la libera interpretazione di Fabio Cerbone consente da una parte di collocare in una nuova e affascinante prospettiva brani come Tecumseh Valley di  Townes Van Zandt, Tennessee Plates, di John Hiatt, $29.00 di Tom Waits o Mr. Bojangles di Jerry Jeff Walker. L’azzardo di Fabio Cerbone porta a rivedere completamente i personaggi di Used Cars di Bruce Springsteen riproponendoli in una Michigan Avenue ben distante dai paesaggi del New Jersey, ma è piuttosto fedele, se non altro nelle tematiche centrali della canzone, a Sam Stone di John Prine e Something Big di Tom Petty, fonti di ispirazione rispettivamente per La scheggia e Qualcosa di grande. Nel primo racconto, le ombre della guerra in Vietnam calano con il ritorno a casa di un veterano, che rimanda direttamente alle sequenze con cui si conclude Il cacciatore, anche se in questo caso la classe operaia dei Missouri affolla “l’industria alimentare e le grandi produzioni agricole della regione”, mentre nel capolavoro di Michael Cimino, combatteva negli altiforni, nelle fonderie e nelle acciaierie della Pennsylvania. Il disorientamento, la desolazione e la tragedia resta gli stessi e per Sam Stone, “l’America è un posto grande”, ma anche senza via d’uscita. La stessa sensazione di claustrofobia, nonostante l’illusione ottica dei grandi spazi e delle terre promesse, avvolge Qualcosa di grande, una short story che racconta la dissoluzione nei meandri della tossicodipendenza e che è impossibile leggere senza pensare in continuazione alla cupa e bellissima ballata di Tom Petty. L’ipotetico viaggio di Fabio Cerbone ha molti anfitrioni e molte guide, ma più di tutti sembra essere Hank Williams il suo fantasma preferito che, infatti, introduce la parte finale, ispirata da Kris Kristofferson (Sunday Morning Comin’ Down e To Beat the Devil) che sono alla fonte di Per battere il diavolo e da (Desperados Waiting For a Train di Guy Clark per I pozzi di Monahans. A quel punto siamo già “dentro il deserto”, dove nelle Frequenze clandestine ispirate da Dave Alvin (Fourth of July e Border Radio) pare di risentire l’urlo famelico di Wolfman Jack e del suo rock’n’roll sparato a tutto volume dalla frontiera messicana fino al Canada. America 2.0 è un tributo appassionato a una nazione che coltiviamo tutti i giorni, una realtà che è ancora disegnata dalle canzoni di Roy Orbison o dai romanzi di Larry McMurtry (o dai dischi del figlio James, qui richiamato da Johnny, tratta da Where’s Johnny, la canzone che apriva Candyland) e in cui Fabio Cerbone sa districarsi con grazia e abilità perché ne conosce i linguaggi, i segreti, le associazioni, i luoghi, i desideri e le sconfitte. È, palesemente, un’America che esiste soltanto in queste circostanze e grazie alla continua trasfusione di una grande passione, ma del resto il sottotitolo è un’avvertenza fin troppo esplicita. Si tratta di Canzoni e racconti di una grande illusione, e tanto dovrebbe bastare a far intuire che Fabio Cerbone dell’America ha capito tutto, o quasi.