lunedì 6 dicembre 2021

Liborio Conca

I mondi che possono essere contenuti all’interno di una canzone sono vasti e interminabili, ma non sempre così appariscenti e nitidi. Spesso, ovvero il più delle volte, confluiscono all’interno di un vortice tra strofe e ritornelli, dove è facile perdere di vista i dettagli suggeriti dai versi e dalle parole. A maggior ragione quando l’atmosfera in cui si riversano i significati è quella turbolenta del rock’n’roll, dove tutto è giustificato, anche quando non ha molto senso. L’ha ben compreso Liborio Conca andando a cercare proprio lì quella connessione tra “musica e letteratura” che è alla base di Rock Lit, titolo ristretto, esplicito ed esauriente nello stesso tempo. Si comincia con una festa in onore a William Burroughs, a New York, ma giusto un passo prima, Liborio Conca si premura di ricordare come “la prima volta che ascolti una canzone c’è solo la canzone, e può benissimo bastare a se stessa. Dietro quelle voci e quelle note, però, non c’è il vuoto ma la sensibilità artistica di chi l’ha scritta, attingendo a quella cassetta per gli attrezzi che comprende le esperienze di vita, le passioni, i gusti musicali, e quelle letture che hanno il potere di cambiarti o di mostrarti la realtà davanti ai tuoi occhi in un modo prima sconosciuto, come un’epifania che si allunga con il contorno di un’ombra e non ti lascia più”. Conoscere e descrivere quei meccanismi è già un’altra arte e in Rock Lit le suggestioni sono numerose, ben collocate, descritte con gusto e precisione, sapendo che “quando ci imbattiamo in un’opera destinata a cambiare la percezione che abbiamo delle cose, cose come il modo di intendere la vita o di stare al mondo, o che riguardano la complessa costruzione dei sentimenti, è in quel preciso momento che l’arte assurge alla sfera più alta della propria essenza. Nel caso di un romanzo o di un racconto accade quando una certa storia non si limita a passarci attraverso, ma ci penetra; e rimane parte di noi”. Così  Rock Lit è una carte-du-vin con preziosi assaggi che Liborio Conca presenta con dissertazioni appassionate, ma anche con un linguaggio informale, che garantisce la possibilità di comprensione a tutti, neofiti compresi. È come sentirsi a casa e nello stesso tempo dentro un viaggio infinito perché i nomi sono conosciuti, ma la destinazione ogni volta resta ignota. Si incontrano i R.E.M., Kurt Cobain, Mark Linkous e i suoi Sparklehorse, Vic Chesnutt e Franz Kafka, Nick Cave e Flannery O’Connor, Leonard Cohen e García Lorca. Molti legami prendono forma via via e Leonard Cohen è giustamente ospitato come spartiacque tra la prima parte, che fa riferimento in gran parte alle esperienze americane e la seconda dove le attenzioni di Liborio Conca si spostano sul versante europeo, inglese in particolare, pur restando nell’ambito del linguaggio anglosassone. Per cui arrivano “legami, intrecci, visioni” tra Kate Bush e Cime tempestose, Robert Smith dei Cure e Albert Camus, e ancora Kafka, l’Alice di Lewis Carroll (un’influenza enorme su tutto l’immaginario del rock’n’roll), Ian Curtis con l’onnipresente Burroughs e Ballard, i Radiohead e Douglas Adams. Una bella riflessione è dedicata anche all’affaire del Nobel a Dylan e da lì infine si arriva a Springsteen, Patti Smith e, tornando al punto di partenza, di nuovo Burroughs. Merita una lettura a parte riguarda il sottotesto che scorre nelle note a piè di pagina, dove spesso si incontra la voce più personale di Liborio Conca, come quando racconta Michael Stipe nel dichiarare che “a causa di Patti Smith ho letto tutta l’opera di Rimbaud, a sedici anni”. In calce, l’appunto relativo è un riassunto breve e complessivo dell’intero Rock Lit: “Questa frase, per quanto possa suonare un po’ affettata, è una di quelle che per certi versi racchiudono il senso di questo libro. Michael Stipe ascolta Patti Smith e poi che fa? Corre a leggere tutto Rimbaud”. Funziona proprio così.

giovedì 18 novembre 2021

Gianni Marchetti

La poesia di Gianni Marchetti è piena di “blue note”, una caratteristica sonora del blues e del jazz che viene celebrata proprio come prologo a Lo sbadiglio dell’elefante. Suona un po’ come excusatio non petita (“Forse i puristi della poesia troveranno le note dissonanti, i musicofili troveranno le note ridondanti. Falsa ogni premessa non sono in venta di fugare l’incertezza, tanto lo so, lo canta Paolo Conte con il suo kazoo, non si guadagna con le note blu”), ma è utilissima per introdurre l’estrema musicalità che si estende con Lo sbadiglio dell’elefante. Biagio Marin, Vivian Lamarque e Borges sono le “cotte giovanili” su cui Gianni Marchetti costruisce le fondamenta della sua poesia, con il tributo gergale al primo (Gente meccanica: “Siamo gente meccanica, di pìcciol affare, sempre intenta ad aggiustarsi o a farsi aggiustare”), la raffinata eleganza della seconda (per esempio in Alternata, incatenata, baciata: “Poesia è quando io e te facciamo rima”) e l’enigmatica natura del terzo (che si nota in Il giusto: “Non si sbaglia mai troppo né di poco si sbaglia sempre il giusto”). Detto questo, Gianni Marchetti giostra con le rime con leggerezza, ma anche con un saggia profondità nel toccare le parole (“L’amore si fa con due mani, una che tiene il presente, l’altra che fruga il domani”), e nella prima parte, giustamente intitolata Non farla lunga, si scopre che c’è un’interlocutrice e una destinataria femminile. All’inizio in incognito e un po’ defilata, ma decisamente più presente nella seconda tranche, Poi passa. Protagonista è spesso e volentieri “il sacrificio dell’amore”, e Gianni Marchetti, sfoderando quell’ironia che è un ingrediente irrinunciabile delle sue liriche, arriva a spiegare “a cosa servono di notte le poesie d’amore”. Le ipotesi sono parecchie e una particolarmente brillante, che inaugura proprio la sezione centrale di Lo sbadiglio dell’elefante, Sentinelle, gioca con i ruoli degli amanti, proprio come Sentinella, il classico racconto fantascientifico di Fredric Brown, scambiava le identità dei combattenti, condividendo il sottinteso che c’è sempre qualcosa di alieno in noi. Ed è così l’incipit della stessa Poi passa a definire la missione: “Il compito delle persone adulte dovrebbe essere liberare se stessi e gli altri dai demoni molesti”, e qui diventa fondamentale il ruolo della poesia (definita in Nubili “la sorella più fortunata della follia”), a cui in modo molto spontaneo e naturale Gianni Marchetti associa la musica con il jazz (soprattutto) e il rock’n’roll nell’ultima, effervescenze sezione, Strumenti diversi sotto innumerevoli dita. Un titolo eloquente per un capitolo che ha per protagonisti musicisti particolari come il “pianoforte speciale” di Michel Petrucciani o un ritratto molto fedele delle doti misteriose dei bassisti in Contro e abbasso (“Il contrabbassista di solito è uno calmo che se la tira ma non troppo. È lo scopo nascosto di un’armonia e il suo finto contrario. È una vecchia zia che la sa lunga è lo sbadiglio dell’elefante nella giungla”). D’altra parte, il ritmo è una questione di coppia e diventa evidente in Tempo debito, dove si capisce che “nasciamo tutti batteristi, poi diventiamo ansanti cantanti”, o forse poeti, che non è molto diverso. Nello stesso modo scorrono i ritratti e le avventure di John Scofield, John Coltrane, Sonny Rollins, Clifford Brown, Wynton Marsalis, Louis Armstrong, Miles Davis, Pat Metheny, Glenn Gould, Dylan, Frank Zappa, con una bella dedica a Roy Buchanan, grande e sfortunato chitarrista (Gianni Marchetti ha un debole per i loser) e un’altra, irriverente a Eric Clapton sulle cui note, alla fine, si scopre il nome dell’altra metà a cui è indirizzato Lo sbadiglio dell’elefante, ed è una sorpresa poetica anche quella. Da scoprire.

lunedì 15 novembre 2021

Eleonora Bagarotti

Eleonora Bagarotti, che ha una certa dimestichezza con Tom Waits, avendogli già dedicato a suo tempo un’analisi specifica delle canzoni, in La voce e l’oblio riesce a condensarne la multiforme carriera in un racconto agile, chiaro e diretto, soprattutto comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Quest’equilibrio è la componente determinante che rende La voce e l’oblio un valido ripasso per chi conosce già la lezione ed è un’ottima introduzione ai futuri fans, che non mancheranno. Il racconto fa tutti gli sforzi possibili e immaginabili per mostrare la musica di Tom Waits ed è un’impresa non da poco perché la sua composizione (eccentrica per antonomasia) è tanto sfuggente quanto ricchissima. La stessa evoluzione, dagli esordi bohémien, vagando senza sosta sulle strade di Jack Kerouac negli stessi quartieri di Charles Bukowski, alla metamorfosi cubista della seconda metà della sua carriera, è delineata in modo chiaro, laddove è tutto un po’ più complicato. Si comincia da un’intervista impossibile e l’incipit detta subito l’atmosfera che si respirerà da lì in poi: “Un giorno benedetto dal cielo, al piccolo Tom fu regalato un vecchio pianoforte. Su questi tasti bianchi e neri ebbero inizio storie stonate e straordinarie, di quelle che somigliano ai dipinti di Hopper e alla solitudine di un bar sulla Route 66. Tom viveva a Los Angeles, dietro al Troubadour, dentro la sua auto. Lì, si rasava e si profumava prima di entrare in scena”. Nel mondo di Tom Waits ci si entra in punta di piedi ed è necessario confrontarsi con traiettorie linguistiche imprevedibili, con il gusto impavido del nonsense e del calembour, con suite inventate dal nulla e melodie che spezzano il cuore, e con l’ironia che rimane un’arma a doppio taglio. Il paesaggio che si attraversa è condensato così da Eleonora Bagarotti: “Le immagini descritte somigliano a fotogrammi scattati per caso da un viaggiatore notturno del fine settimana: ci sono le autostrade, gli addii, le bottiglie, i malfattori, le prostitute e anche il freddo, il movimento, l’attesa e la speranza. Il sabato notte diventa metafora di queste ultime poiché la vita sta tutta lì mentre il resto del tempo è obbligatorio, pesante, vegetativo”. La voce e l’oblio riesce nell’intento di riassumere senza semplificare, rendendo la complessità di Tom Waits in tutte le sue angolazioni, senza perdersi in voli pindarici (che pure le canzoni di Tom Waits invogliano e stuzzicano) e concentrandosi sull’essenza: i musicisti, gli aneddoti, i tratti biografici e, a scandire con naturalezza lo scorrere della sua storia nei suoi capitoli principali, gli album. Da Closing Time alla provvisoria conclusione di Bad As Me, la dissertazione discografica diventa l’occasione per ricordare Chuck E. Weiss, parte del leggendario triangolo delle notti californiane che comprendeva anche Rickie Lee Jones, così come la rivoluzione copernicana di Swordfishtrombones e, a seguire, di Rain Dogs, mettendo in primo piano i compagni delle avventure sonore di Tom Waits. Non a caso, La voce e l’oblio si conclude con un’intervista a Marc Ribot, chitarrista che l’ha seguito a lungo nelle sue peripezie, che infine il Tom Waits portatile di Eleonora Bagarotti racchiude in una precisissima definizione: “Così come Tom si è spesso inventato gli strumenti musicali prendendo oggetti apparentemente inanimati e dando loro voci di suono, allo stesso modo rende le memorie della casa vive e laceranti. Ogni oggetto parla, nel mondo di Tom, che è poi la nostra stessa vita con le sue strazianti solitudini nascoste e lui, curioso e intenerito, invece di scappare dalle disperazioni, s’avvicina per carpirne i sospiri. Basterebbe già questo per comprendere quanto al mondo faccia un gran bene l’esistenza di qualcuno come Tom Waits”. Ben detto, e se proprio andava aggiunto qualcosa è una galleria dei suoi personaggi femminili, che di sicuro a Eleonora Bagarotti non sono sfuggiti ma, come si dice sempre, non c’è il due senza il tre.

giovedì 14 ottobre 2021

Ilaria Vajngerl

Le emozioni di bambini perduti nel tempo rivissute dentro un prisma che le proietta su più dimensioni. Gli habitat famigliari sezionati dal vivo, e senza esclusione di colpi. Le dinamiche dei rapporti affettivi scardinate all’improvviso. Scene da matrimoni, con vari livelli di difficoltà da superare, come se fossero dei videogame. Tutto scandito con una leggerezza, intesa nel senso che gli dava Italo Calvino, che sostiene Le magie di Ilaria Vajngerl e che convive e alimenta una tensione insolita, frutto di una scrittura tersa, densa, sincopata, che pare sostanzialmente istintiva, ma è lavorata di cesello. Forse ha ragione Piero, il protagonista di Grammatica: basta “capire le parole e metterle in gruppo”, ma c’è anche bisogno di capire cosa raccontare, e come raccontarlo, e Le magie si dispiegano con un’elegante rarefazione, con ogni singola frase soppesata, misurata, centellinata. Il registro è agrodolce e Ilaria Vajngerl conduce per mano in territori sfumati, sospesi tra una realtà provinciale dove “il mondo è già tutto pronto”, come scrive ancora in Grammatica, e “il lavoro è il lavoro”, un totem, oltre a una necessità inderogabile. L’ambiente naturale è una cornice, uno scenario ricorrente (“Ogni tanto vorrei chiedere al torrente se non abbia voglia di riavvolgersi, tornando indietro verso la montagna”) e l’unica possibile evasione da quel recinto è costituita da piccoli, furtivi momenti, che bisogna cogliere al volo. Non succede niente di speciale, ma la sorpresa è dietro l’angolo: c’è sempre quello scarto, o qualcosa che non combacia, una frattura che si palesa o un trauma latente che esplode. Non è molto (anche se c’è qualcuno che brucia vivo e arriva anche un’esplosione), ma, nell’accurata condivisione delle vite dei personaggi, gli aspetti conflittuali emergono nelle fenditure delle storie e tra un episodio e l’altro: la povertà, gli abusi, la violenza, il dolore, e un’inquietudine di fondo. Succede in continuazione e Ilaria Vajngerl scava proprio in quegli interstizi, tra un istante e l’altro: un lavoro svolto con cura, e con un profondo garbo per le vittime, e per il lettore. Si capisce allora quel velo di malinconia, perché, come si legge in Il primo uomo, “ci sono segreti che bisogna dimenticare, come le paure”. L’infanzia è il luogo da cui cominciare, e a cui tornare, come diceva García Lorca in Svolta, ed è la componente determinante che Le magie pongono in risalto a partire da Boomerang, sistemato (non a caso, si suppone) all’inizio della raccolta. L’idea delle sofferenze vissute e rivissute dai bambini si estende altrove lungo Le magie: pur nella loro brevità i racconti riescono a prestare un punto di vista oculato e preciso, evidentemente scaturito da una sensibilità per il dettaglio che Ilaria Vajngerl mostra di possedere quando deve descrivere “tutto quello che c’è dentro la parola casa”, la normalità (o presunta tale) in Le bestie, o quella sorta di ossimoro che è “la sconfitta migliore” in Gli invincibili. Ancora meglio è reso il rapporto tra padre e figlio in Andrea, ovvero l’attrito tra le contingenze del primo, in quella che viene chiamata “l’inconciliabilità delle loro vite” e le velleità artistiche del secondo, tra cui “un monologo di quaranta minuti in cui parlava di scelte davanti a un forno a microonde”. La forza che attraversa Le magie è proprio nel tatto con cui Ilaria Vajngerl accompagna i suoi personaggi condividendone le disavventure: un’osservatrice privilegiata, distaccata, ma partecipe nel seguire le storie che si incastrano una nell’altra, toccando toni sognanti e ironici, divertenti e crepuscolari, accorati e disturbanti, un po’ come la vita vera.

lunedì 4 ottobre 2021

Manlio Sgalambro

La musica è diventata una nota piè di pagina. Non c’è incontro, aperitivo, sagra, festa, appuntamento, convegno che non abbia la sua brava colonna sonora, distribuita un po’ a caso, come uno dei tanti fenomeni di distrazione di massa, senza gusto e senza speranza. Una condizione che è frutto di una lunga e complessa involuzione: già nel 1994, al tempo della prima edizione di questo pungente pamphlet, Manlio Sgalambro aveva capito che “la musica ha raggiunto il suo stato attuale da quando poté contare sull’ascoltatore come strumento inconsapevole”. A distanza di quasi trent’anni, quell’intuizione e gran parte delle argomentazioni che ne discendono sono ancora più valide e sensate, oggi, che la musica impazza ovunque, a dispetto della sua utilità o della sua inutilità, dato che “le implicazioni metafisiche” a cui  necessariamente dovrebbe essere legata “sembrano sparite davanti a quelle sociali”. Sgalambro è perentorio fin dal preambolo, che è indispensabile comprendere a fondo i suoi legittimi strali: “Contro la musica: il significato dunque dev’essere inteso. Non è una volgare polemica che qui s’innesca ma una delicata questione metafisica”. Su questa precisazione, i dotti discernimenti che seguono portano a spostare la musica in ambiti non usuali, dove viene vista in prospettiva dentro e contro il mondo e se stessa. In estrema sintesi, il filosofo separa musica, suono e ascolto, in cerca di un senso che ci è sfuggito: “Tutti i suoni sono stati uditi, tutte le sonorità ascoltate. Noi soggiaciamo a questa monumentale idiozia, la musica. Solo un nuovo ascolto ci può salvare. Si deve dunque rinnovare l’ascolto, fargli carico della sua essenza riflessa e poi tornare ad ascoltare. Nell’ascolto rinnovato si deve scorgere come deve essere ascoltata la musica. Il nuovo tipo d’ascoltatore, ascolta l’ascolto”. Questo succede perché secondo Sgalambro, “la musica dovrebbe farci rimpiangere che ci sia un mondo”, compito che per essere assolto prevede che “ogni opera deve assumersi il proprio naufragio, come sorte”. Le divagazioni, necessarie e frequenti, raccolgono Strawinsky, Wagner, Mahler, Bach, Cage, Bloch, Adorno, Kant, Haydn, Schopenauer in cerca degli elementi per aggiornare un’etica e un’estetica dell’ascolto come le uniche ancore a cui si può saldare la musica, perché resti viva. Si capisce che la paradossale natura del titolo non è soltanto messa lì per il piacere della provocazione. È l’inizio di un’espressione ironica che Sgalambro dispensa sornione sapendo che “l’importanza della forma nella filosofia attuale, o che in essa sia entrata di prepotenza la parodia, mostra che la filosofia ha imboccato la strada che porta alla canzonatura, ma per disperazione”. Questa deviazione dipende dal fatto che “la felicità da musica è una felicità ristagnata. Il trionfo odierno della musica purchessia indica il bisogno di felicità a zero costo”, e un po’ di eccentricità serve almeno quanto una boccata d’aria. Per districarsi nelle proiezioni di Manlio Sgalambro serve tornare indietro di qualche secolo, nel 1733, quando Voltaire diceva: “chi non sente nulla, non sopporta nulla”. Riconoscere le banalità di una musica diffusa e generica non è evidentemente sufficiente e serve “la critica dell’ascolto, che deve essere perseguita con altri mezzi, s’affaccia qui in modo improprio nel corso di un regolamento di conti con la musica, con l’assuefazione sociale ad essa”. Sgalambro pur con una prosa volubile ed effervescente, nel caso è molto specifico quando dice che “la nascita della musica dall’ascolto è un cattivo scherzo dopo che ci si promise chissà cosa. Si crea dunque musica per l’ascolto, laddove si dovrebbe creare solo per istituire un ordine dei suoni. Per realizzare una costruzione”. Questo è un passaggio definitivo ed è un po’ l’arcano per capire che “noi dobbiamo ascoltare musica a dispetto, pur sapendo che nessuna redenzione ne seguirà e che il mondo vince pure nei suoni”. È una rassegnazione vitale che trascende l’oggetto del contendere (la musica stessa), il suo destino (il mondo e la sua rappresentazione), le sue applicazioni pratiche, verso quell’elevazione che dovrebbe essere la sua collocazione ideale.

lunedì 20 settembre 2021

Antonio Coletta

La madre alla deriva nello spazio, il padre (che è “lo sconosciuto che regalava caramelle piene di droga ai bambini all’uscita delle scuole) perso tra il calcio, la televisione e la birra come è logico che sia per la stragrande maggioranza silenziosa che vive sul pianeta e due fratelli che pensano a fuggire, ed è chiaro che sarà giusto così. Mia madre astronauta comincia con questi presupposti ed è altrettanto evidente che, dopo il primo racconto, bisogna aspettarsi di tutto: la scrittura di Antonio Coletta è elettrica, contagiosa ed è un campo minato. Gioca con i luoghi comuni, il nonsense, la boutade, il calembour, le reiterazioni come se il mondo frammentario in cui viviamo si fosse riflesso in uno specchio rotto. La lingua italiana diventa un curioso argot frutto di un frullatore che gira alla velocità del suono, macinando simboli e icone, da Elvis a Cappuccetto Rosso (uno dei suoi bersagli preferiti), da Beethoven a Hegel alla ricomparsa (sfortunata) di Ettore Majorana. Il tono passa dal cinico al naïf senza soluzione di continuità in una specie di zapping letterario scoppiettante e irriverente, dove una comicità al vetriolo spiazza e coinvolge, con una punta di amaro e lasciando sempre qualcosa in sospeso per il lettore. Succede un po’ in tutte le storie di Mia madre astronauta e, per esempio, in Io amo lei, che parte a razzo già dall’incipit: “Io non ero mai stato felice, poi un giorno mi sono iscritto ai terroristi. Mia madre non era d’accordo, diceva che quella del terrorismo era solo un’altra stupida moda e che se volevo davvero cambiare il mondo dovevo iscrivermi all’azione cattolica”. Tutto rigorosamente minuscolo perché il rapporto di Antonio Coletta con le maiuscole è piuttosto imprevedibile, un po’ come tutto il resto. E così il protagonista ammette: “Io ero sempre stato infelice, poi i capi del terrorismo mi hanno affidato una strage ma ho fatto irruzione nell’appartamento sbagliato. Toc toc”. Da lì in poi il racconto prende un’altra piega, ma dato che i colpi di scena sono all’ordine del giorno, è meglio scoprirseli da soli. Anche perché i racconti di Antonio Coletta hanno il gusto della divagazione e tendono a essere elusivi, come sogni che evaporano al mattino, ma hanno un filo tagliente che non concede un lieto fine, se non in rari casi. L’equivoco è dietro l’angolo, come succede in Prove tecniche d’integrazione tra il popolo italiano e quello bengalese e il più delle volte si nasconde in snodi linguistici fonti di incomprensioni e misunderstanding, giusto per ricordare che La mancata conoscenza della lingua inglese limita la libertà di movimento nello spazio e nel tempo, come recita il titolo di un’altra avventura a Vivacchio nell’Emilia (e se volete cercarlo sulle mappe, auguri). Nei racconti di Mia madre astronauta tutto finisce in un’equazione misteriosa, dove i personaggi scompaiono all’improvviso o riappaiono e spesso sono imprigionati in viaggi temporali che, insieme a quelli spaziali, sono un’ossessione per Antonio Coletta e si capisce anche la strana geografia tra Vivacchio nell’Emilia e alcuni punti cardinali che gravitano attorno o dentro Roma, ma restano inequivocabilmente periferici, così come quella specie di bestiario dove gli esseri umani si accomodano con animali parlanti e pensanti. In effetti, ne succedono di tutti i colori, il finale delle storie è imprevedibile, l’estro di Roberto Bolaño vigila dall’alto, ma sotto l’epidermide dell’ironia e del sarcasmo, affiora il denominatore comune dei nostri tempi che naturalmente Antonio Coletta non declina mai in modo esplicito, ma lascia filtrare in una storia surreale (ma neanche tanto) ambientata addirittura al confine tra le due Coree, dall’altra parte del pianeta. In Saluti da Pyongyang, dove finire in una fossa comune è considerato “estremo antidoto contro la solitudine” ed è un capolavoro compresso in una pagina. Incredibile, ma vero.

giovedì 9 settembre 2021

Marco Codebò, Domenico Gallo

Nella letteratura resistenziale, Fermammo persino il vento è destinato a trovare ben presto un posto speciale perché rappresenta un snodo particolare. Pur senza presentare alcunché di inedito, l’antologia acquista un peso specifico perché i racconti sono valorizzati e focalizzati dalla rinnovata lettura di Marco Codebò e Domenico Gallo, che costruiscono nell’introduzione iniziale (soprattutto) e in quelle tematiche che aprono ogni singolo capitolo, una costituzione di senso, attraverso un’analisi importante, che indica un percorso raziocinante sui valori della Resistenza, per una volta, schivando i rischi della retorica, degli anniversari e delle celebrazioni. La vocazione è dichiarata con estrema precisione nel saggio iniziale, Anteriorità della Resistenza, dove i curatori delineano un’aggiornamento, molto utile e molto necessario, dell’idea di Resistenza, spiegando che “resistere è la capacità della singolarità, di mantenersi al di là del rapporto di potere. Ma per far ciò la resistenza deve precedere il momento in cui una certa singolarità si colloca all’interno di un determinato rapporto di forze: la resistenza è la forza che resta prima e fuori. Il passo iniziale della resistenza è infatti l’autonomia dal rapporto di potere”. Il suggerimento trova applicazione pratica nello svolgimento dell’antologia che offre uno spettro pratico ed esaustivo nello stesso tempo. L’origine eterogenea delle storie trova una collocazione coerente proprio grazie a questa struttura che offre una lettura da angolazioni diverse, perché come notano i curatori, “è accaduto infatti, a causa della tragedia della guerra e del progredire dei fronti, che i letterati siano stati protagonisti e non meri osservatori, e allora romanzi e racconti divengono i tasselli della storia. Non è una storia solo militare, ma uno strano racconto fatto di fughe, resistenza civile, opposizione, solidarietà e non collaborazione con i nemici, così da rappresentare quel quadro complessivo che si era formato nell’Italia occupata e che aveva abbracciato il movimento partigiano”. Il racconto si svela la forma ideale, per la concisione, per l’immediatezza e per la densità dei dettagli ed è collocato in un’ottica adatta a una svolta, dove “per uscire dalla fede e tornare coi piedi per terra possiamo partire dalla Resistenza che racconta, o meglio da quella particolare esperienza della resistenza che è il raccontare”. Ovviamente, le particolari condizioni in cui si è sviluppata questa letteratura sono ben evidenziate, a partire da quello che scriveva Alba De Céspedes nel settembre 1944, ovvero che “ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d’aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni, mutilazioni”. Ma in Fermammo persino il vento le storie sopravvivono proprio grazie alla qualità della narrazione e valgano, come esempi, il racconto di Angelo Del Boca, vivido e realistico nello stesso tempo o Calce sul muro scritto da Gino De Sanctis con lo pseudonimo di Partizan, che ricostruisce con metodica accuratezza un eccidio dei nazisti in ritirata. Gli eventi bellici sono una costante, ma in Fermammo persino il vento trovano posto anche amicizia e solidarietà e una tensione intellettuale nel cercare di comprendere uno sforzo stoico e generoso. La valutazione di Marco Codebò e Domenico Gallo è essenziale e, in sé, attualissima: “Chi sceglieva di combattere con i partigiani sapeva di certo contro cosa lo faceva, ovvero il fascismo e l’occupazione tedesca. Meno nitida era la cognizione del per cosa si combatteva, quale tipo di Paese uno si aspettasse di costruire attraverso la Resistenza. L’Italia libera era l’obiettivo chiarissimo sul livello ideale, ma meno nella sostanza, perché dopo vent’anni di dittatura nessuno aveva un’idea di cosa fosse davvero la libertà, di quali istituzioni la garantissero e di quali limiti la costringessero”. È un interrogativo che parte proprio da quei giorni, quando, con grande lucidità, Alba De Céspedes scriveva: “Il conto non può farsi oggi e del resto un certo pudore vieterebbe di farlo. Anche perché la partita singola prende corpo e valore solo se associata a quella degli altri. E gli altri, in questo caso, sono molti, e sconosciuti, e distanti. È il totale che conta, e non la cifra particolare. Ma la storia, invece, è fatta di particolari, dell’apporto minimo che ciascuno ha recato, del granello di fede, di speranza, di rischio, di tenacia che ciascuno ha bruciato”. Ecco, allora è validissimo il consiglio dei curatori di Fermammo persino il vento quando dicono che queste storie dovrebbero essere utilizzate “come un grimaldello con cui aprire a viva forza altri racconti della Resistenza per cavarci fuori quello che dovrebbe essere in realtà già visibile, nascosto com’è sotto l’evidenza”. Una lettura necessaria.

martedì 31 agosto 2021

Alberto Magnaghi

Quella formulata da Alberto Magnaghi con Il principio territoriale è una ragionevole proposta di opposizione allo sviluppo forzato delle megacity, come le chiama lui, e va cercata in un diverso modo di intendere il territorio e la presenza umana nel suo contesto. L’analisi è solidissima ed espressa molto chiaramente, pur tenendo conto delle necessità scientifiche e accademiche dell’esposizione indispensabili a chiarire come “la spropositata crescita dimensionale dell’urbanizzazione, una volta recise le radici territoriali dell’urbano, ci presenta così il quadro di un’umanità priva di identità, degradata, impoverita, affamata”. Quella che viene minacciato, in definitiva, è quell’idea “patrimonio territoriale”, beninteso non come “un bene statico, ma un evento dinamico, che cresce e si arricchisce della continua riscoperta dei suoi elementi potenziali da parte delle società locali che ne reinterpretano i valori e se ne prendono cura”. La “coscienza di luogo”, altrimenti ridefinita da Giacomo Becattini, necessita secondo Alberto Magnaghi di “un linguaggio che torna a essere comune da parte di una comunità locale che si autodefinisce riscoprendo i propri valori patrimoniali”. Le sue ricerche, dal Piemonte alla Toscana, le applicazioni pratiche, contribuiscono a formulare una “democrazia dei luoghi” costituita da “opposizioni e conflitti che, a partire dalla constatazione del peggioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita nel territorio (in primis la qualità ambientale), ritrovano nei processi di auto-organizzazione di nuove forme e finalità produttive e di ricostruzione di legami con l’identità locale, di riaffezione ai luoghi e alla loro cura, forme di difesa ma anche di riappropriazione di senso della comunità sociale e produttiva, che il processo di astrazione del comando sul lavoro (ma anche sulla vita quotidiana) ha allontanano e distrutto”. La prospettiva che sottintende Il principio territoriale riguarda “un’organizzazione territoriale che sia in grado al contempo di riprodurre in modo equilibrato il proprio ciclo di vita, di elevare la qualità dell’abitare, urbana e territoriale, e di armonizzare fra loro fattori produttivi, sociali, ambientali, culturali, estetici per la produzione di ricchezza durevole”. Gli elementi costitutivi di questo approccio passano necessariamente dalla definizione e dallo sviluppo di una “nuova dimensione dell’abitare” che ha nella struttura della “bioregione” il suo centro di gravità permanente. La sfida che sottolinea ruota proprio attorno al valore della “bioregione” che, a saldo di tutte le sue caratteristiche, nella sua attuazione necessita comunque di “una cura collettiva, da parte degli abitanti, dell’ambiente dell’uomo (il territorio) e dei diversi luoghi che lo caratterizzano, per affrontare le gravi criticità, prodotte sul territorio stesso dal divorzio della civiltà contemporanea fra natura e cultura, attraverso la sua patrimonializzazione come bene, in quanto strumento determinante per ricondurre l’insediamento umano ad essere ospitale per la vita della specie sul pianeta”. Alberto Magnaghi non si limita ad illustrare per via teorica, ma indica anche passaggi e pratiche molto concrete da attuare: l’attenzione ai bacini idrografici, lo sviluppo delle economie locali (“Un cambiamento culturale verso la gestione sociale, solidale, relazionale del sistema produttivo bioregionale finalizzato al benessere degli abitanti richiama lo sviluppo di principi di un’economia orientata e gestita eticamente, fondata su sperimentazioni concrete di modelli economici alternativi o paralleli al mercato capitalistico”), la difesa della qualità del paesaggio e, per estensione, “la realizzazione di equilibri dimensionali, relazionali ed ecologici”. E due belle citazioni riescono a riassumere l’intera prospettiva di un rinnovato rapporto con l'ambiente che Il principio territoriale vede come primo atto per preservare “le unicità, le peculiarità, le specificità, in una parola la personalità di ogni luogo che ci permette di individuare stili di sviluppo peculiari con i quali ogni sistema locale può scambiare beni regionali nel mondo, nell’ambito di un riconoscimento universale dei diritti, delle libertà, delle culture”. La prima è di André Gorz e spiega che “la lotta contro la mercificazione delle risorse primarie riguarda la terra, le sementi, il genoma, i beni culturali, i saperi e le competenze comuni, costitutivi della cultura del quotidiano, prerequisiti dell’esistenza di una comunità; l’unità ristabilita fra soggetto della produzione e soggetto del consumo restituisce autonomia nella definizione dei nostri bisogni e dei nostri modi di soddisfarli”. La seconda, di Giuseppe Dematteis, esprime tutto Il principio territoriale in estrema sintesi: “La terra diventa territorio quando è tramite di comunicazioni, quando è mezzo e oggetto di lavoro, di produzioni, di scambi, di cooperazione”. Da leggere, rileggere e studiare: il futuro passa di qui.

martedì 15 giugno 2021

Daniele Follero, Luca Masperone

Secondo Lester Bangs, l’heavy metal “è un treno espresso con destinazione il nulla”, ed è proprio lì che bisogna andare, se si vuole comprendere a fondo la natura di quel “figlio bastardo del rock’n’roll”, come lo definiva Lemmy dei Motörhead, un’autorità nel campo. L’heavy metal è stato maltrattato a lungo e forse è giusto così perché non è roba per educande e qualche danno bisogna metterlo in conto, ma è altrettanto doveroso e sacrosanto sottolineare, e qui lo si capisce molto bene, il suo carattere popolare, irruente e irriverente, che ha dato dignità a una moltitudine di outsider. Lo esprime senza mezzi termini Robb Flynn dei Machine Head che, per esempio, dice: “Eravamo degli emarginati. Ma nell’heavy metal abbiamo trovato una vera e propria comunità”. La sua è una delle innumerevoli voci che compongono quella che, di fatto, è una storia orale raccontata dai protagonisti, a partire proprio dall’opinione confermata nell’introduzione di Michael Weikath, quando scrive che all’inizio era “la musica preferita dei disadattati”. La formula organizzata da Daniele Follero e Luca Masperone è congeniale: non si tratta di un’enciclopedia, anche se la quantità di informazioni e la mole in sé del volume lo lascerebbe supporre, perché La storia di hard rock & heavy metal è svolta in modo fluido, senza l’ansia da prestazione della completezza o del dettaglio all’ultimo sangue, che poi lascia il tempo che trova. Per essere esaustivo, il quadro presuppone un’applicazione specialistica che gli autori pur possedendola, anche su un piano squisitamente tecnico, dissimulano nel racconto, tessendo una fitta trama di collegamenti in un lavoro di ampia portata, ma agile e scorrevole. Di sicuro un punto di partenza nell’associare (tra gli altri) Iron Maiden, Def Leppard, Krokus, Suicidal Tendencies o Dream Theatre: difficile collegarli perché, da un punto di vista stilistico, i gruppi che hanno fatto La storia di hard rock & heavy metal, spesso sono contrastanti, se non agli opposti. Un filo conduttore è evidente proprio in quel definirsi a parte, forse ancora più del punk, facendo dell’emarginazione la propria forza, infine. L’apparato iconografico contribuisce (e non poco) a rendere quest’idea, snocciolando tutto il colorito immaginario dell’heavy metal che, dai loghi dei gruppi alle copertine degli album ai costumi alle chitarre via via più elaborate e complicate, vanta un background di tutto rispetto, che merita di essere esplorato nel dettaglio. Tra l’altro non si fa mistero anche di abitudini malsane con risvolti tragici o delle disturbanti vicende dell’heavy metal norvegese, ma senza accenti scandalistici o sensazionali, piuttosto tenendo conto nell’insieme di tutte le deviazioni ai limiti del possibile. Ma è sempre la musica la protagonista e l’heavy metal si rivela molto più elastico e malleabile delle sue apparenze, tale da agganciarsi a forme sonore molto distanti e diverse. Se il motto “louder, faster, harder” (più rumoroso, più veloce, più duro) è una logica monolitica e destinata a durare in eterno (così come conferma Trent Reznor: “Credo che il rumore contenga qualcosa di musicale”) e se l’identità viene difesa a ogni buona occasione (come dice Kerry King degli Slayer: “Qualcuno dice che la musica degli Slayer non cambia mai e non si evolve. Fanculo, noi la suoniamo così perché ci piace”), la linea di demarcazione che vale per tutti è quella tracciata da Aaron Stainhope: “Ci piace creare musica autentica ed emotiva, piena di passione, rabbia, amore e desiderio collocati in un mondo intrappolato nella malinconia”. Quello, è in definitiva, il punto: l’heavy metal pur tenendo conto di tutte le sue metamorfosi resta una forma dal basso, spontanea, fragorosa, non edulcorata. È per tutti, ma non tutti lo capiscono. Diceva ancora David Lee Roth: “Il motivo per cui così tanti giornalisti non amano i Van Halen e apprezzano tanto Elvis Costello è che somigliano tutti a Elvis Costello”. C’è un fondo di verità in quello che dice il cantante dei Van Halen: per gli irremovibili snob e per gli intellettuali post-qualcosa non c’è posto sul treno. Bisogna guadagnarselo e meritarselo come ha fatto Pino Scotto che firmando la sua bella e sincera prefazione dice che con La storia di hard rock & heavy metal si possono attraversare “decenni di grande musica ad altissimo volume, cogliendone la potenza e la nobiltà”. E non bisogna essere necessariamente degli headbanger per capirlo.

giovedì 6 maggio 2021

Blue Bottazzi

Per un brevissimo periodo di tempo, sembrò che anche la critica musicale, in particolare quella che si dedicava al rock’n’roll e al suo selvatico lifestyle, potesse ambire a un ruolo importante nell’empireo letterario. Una corrente, elettrica, coraggiosa ed estemporanea, collegava Lester Bangs a Hunter S. Thompson, ma è durata giusto il tempo di una scintilla. È giusto così perché il rock’n’roll deve stare all’opposizione rispetto all’accademia e non ha bisogno di certificazioni per la sua sopravvivenza. Ecco, Blue Bottazzi è rimasto ancorato a quel fugace momento, senza alcuna velleità, né in un senso né nell’altro ma con un garbo che gli è proprio nel raccontare il rock’n’roll. Nel contesto, è questo il tratto più originale con cui viene osservata e descritta una storia già scandagliata più e più volte, ma con cui Blue Bottazzi si diverte a rileggere in una chiave singolarmente effervescente. Piuttosto che perdersi in voli pindarici, ha sempre cercato di spiegare perché preferiva un artista piuttosto che un altro, una canzone, un concerto. Non dovendo assoggettarsi alle regole redazionali e comportamentali legate alle collaborazioni giornalistiche, Blue Bottazzi si è preso tutte le libertà e in questo si è concesso un gusto innato per l’iperbole (“Leonard Cohen non morì, ascese al cielo”) e per l’eccesso (a proposito, nell’appendice c’è l’elenco delle 10 canzoni di Leonard Cohen e poi Blue Bottazzi ne mette in fila ben 32). I ritratti sono implacabili e tranchant, e forse è giusto così perché “l’artista non è una persona perbene”. E su questo Blue Bottazzi scrive anche che “per sua natura, l’arte non è mai di regime. L’arte non è allineata. Non è politicamente corretta. Non è conformista. Non è politica: il politico non è mai artista, anzi è l’antitesi dell’artista. Ogni regime, che fosse più o meno democratico o dittatoriale, ha sempre cercato di produrre arte di propaganda. E ha sempre fallito”. Ed era ora che qualcuno lo ricordasse. Memorabili le descrizioni degli incontri con Willy DeVille e consorti o l’intervista sfuggente con Iggy Pop, per non dire del riassunto dedicato a Warren Zevon che “beveva, si ubriacava, sul palco litigava con i musicisti, e correva in auto ubriaco per le strade di Los Angeles sventolando dal finestrino la Smith & Wesson della copertina del suo album. Era superstizioso, maniaco depressivo e ossessivo compulsivo. Quando al supermercato acquistava una bottiglia di vodka, sceglieva fra tutte quella fortunata”. Tra aneddoti, playlist, idee e opinioni sparse, la sua “storia brevissima del rock’n’roll” alla fine si prende cinquecento pagine e si può leggere un po’ alla volta, random, e comunque funziona lo stesso. Da un punto di vista strettamente discografico è legata al ventesimo secolo, con un immaginario che trova il suo cardine nell’epopea springsteeniana da Born To Run a The River, però Blue Bottazzi si concede volentieri tutte le divagazioni possibili e immaginabili, dal cinema al motociclismo, dalle modalità di ascolto alle geografie e ai calendari, dagli stati di alterazione ai ricordi dell’infanzia, rispecchiando la sana confusione promessa dal titolo, ma d’altra parte stiamo parlando di rock’n’roll, ed è credibile, se non altro per assonanza e per appartenenza. Non ha il tono degli iniziati o la presunta esclusività dei veterani (anche se in effetti sarebbe in cima alle graduatorie in entrambe le categorie): è piuttosto l’eterno adolescente che non ha mai imparato i tre accordi fondamentali della chitarra (e comunque avrebbe preferito la batteria, come si scopre nel capitolo specifico), ma si è inventato un modo tutto suo di vivere il rock’n’roll. Comprensivo, in fondo, anche di un concreto realismo (“Le cose che piacciono a me non se le caga più nessuno”) che però nulla toglie a questo Mucchio selvaggio, che è una perfetta emanazione di Blue Bottazzi e insieme il suo riassunto più completo: indipendente, autogestito, con convinzione, entusiasmo compreso.

mercoledì 14 aprile 2021

Corrado Piazza

È, di fatto, una storia orale di dieci anni di writing sotterraneo a Milano. Mentre la superficie veniva sconvolta nelle sue vestigia ufficiali perché, come scriveva Jonathan Raban, “la natura appariscente e teatrale della città tende in modo costante al melodramma”, una miriade di ragazzi, poco più che adolescenti, si inoltrano nelle gallerie della metropolitana per lasciare un segno “tra le linee”. La spinta nasce dall’adozione della cultura hip hop di cui i graffiti sono parte fondante e integrante e che nell’assemblaggio di voci curato da Corrado Piazza nel Buio dentro, diventa anche una concreta testimonianza linguistica. I writer si inventano un argot che combina inglese, italiano, slang e una litania di nomi di battaglia che letti in successione suonano come proprio un rap: Bang, Bread, Cano, Chentone, Cone, Craze, Cyrus, Dose, Draf, Drop, Face, Flash, Flycat, Gomma, Guen, Kayone, Kid, Lemon, Mace, Mec, Mind, Nail, Noce, Phato, Pongo, Rae, Raptus, Risk, Shad, Shot, Sky 4, Sten, Stone, Strike, Styng, Sysoner, Tawa, Type e Yndy. Si sono ribattezzati per infiltrarsi nelle viscere della città e come racconta Craze: “La strategia era questa: entravi dalle grate, controllavi che non ci fosse il treno giallo o altro, andavi in stazione e aprivi le porte per l’uscita nell’eventualità che succedesse qualcosa, così sapevi già dove fugare. Poi scendevi e facevi il cazzo che volevi”. È quel senso di libertà, ad attirarli più che i riflessi artistici ed estetici, che restano relativi. Laggiù, come dice Styng, “era perfetto perché eri quello che facevi” e la sintesi non potrebbe essere più perfetta. Una volta dentro, si muovono con circospezione, sanno che sono in pericolo, per l’alta tensione, per la sorveglianza, per i salti e gli sbalzi e soprattutto perché, come diceva il poeta Andrea Zanzotto “si è nel labirinto, per tentare di sapere da che parte si entra e si esce o si vola fuori”. Li sostiene l’adrenalina nell’esplorazione di una faccia nascosta della città, che paradossalmente si rivela nell’oscurità come spiega bene Phato: “La metropolitana quando è chiusa ti da una sensazione che anche se te la raccontano non ci credi. È una cosa che devi provare. La metropolitana è un luogo ben preciso e ognuno ce lo ha bene in mente quando la usa come mezzo pubblico. Noi però ci andavamo in un momento che è un’altra cosa: è molto più buio, senti dei suoni che di giorno sono coperti da tutti i rumori. È una sensazione alienante”. Nel Buio dentro i racconti si susseguono incessanti, sincopati, senza alcun filtro. Appaiono personaggi singolari come i signori Rovati e Sormani, si evolvono i tracciati dell’underground, cambiano le generazioni e mutano i writer, finché, come spiega Corrado Piazza, “la percezione dell’inevitabile fine di un periodo storico diventa tangibile”. La lunga coda delle “voci dal sottosuolo” è emozionante, e a tratti persino commoventi, nel sovrapporsi delle emozioni che s’insinuano nel rituale passaggio d’età e l’apologia di Flycat, uno dei principali protagonisti del Buio dentro, vale un po’ per tutti: “Vivevo i miei sogni per combattere quelli che erano i miei incubi. Non si è mai dipinto neanche una sola volta con l’intenzione di arrecare danno, sfregio, insulto, né a nessuna costruzione, treno, muro, istituzione, io (noi) volevo esprimere il mio desiderio di fare qualcosa di bello e di buono per combattere tutto il male con cui ho dovuto condividere la mia giovane esistenza”. I graffiti che non sono stati cancellati, si sono sbiaditi con il tempo, qualcosa ha resistito, qualcosa è finito nelle fotografie in bianco e nero, ma è vero come dice Rae che la città “era più una cornice che una tela”. E là, sotto, era molto di più.

mercoledì 10 marzo 2021

Claudio Magris

Sapere non basta dice uno dei titoli di Itaca e oltre ed è un primo vincolo per avvicinarsi alla dimensione di questi saggi di Claudio Magris che, pur non avendo una connotazione rigorosa e assecondando lo spirito omerico espresso dal titolo, si dipanano con una coerenza che va colta di passo in passo. Il segmento ideale da cui cominciare è un passaggio critico e lucidissimo dove Claudio Magris, che si sente “un passeggero clandestino nella storia” pare indicare una direzione, anche in modo piuttosto perentorio: “La vera arte moderna è negativa, mostra ciò che l’uomo non è e non può né deve essere, se non vuole venire integrato nel meccanismo del consumo culturale. L’arte deve ricordare che la promessa di felicità è stata tradita e che l’individuo non può conciliarsi con l’inumana condizione della sua esistenza. L’arte rappresenta l’impossibilità di vita vera nella vita falsa dominante, le mutilazioni che sconciano il volto della vita, la fungibilità e l’indifferenza cui è stato ridotto l’individuo”. Tra poesia (“La poesia moderna è spesso nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui si lamenti la mancanza, o di qualche bene la cui privazione la renda dolorosa e infelice, ma nella vita in sé, come se essa stessa fosse assente”) e prosa, autobiografia e testimonianza, tra Il romanzo totale e Le celebrazioni impossibili, cogliendo Negli interstizi del tempo, o scegliendo tra Le grammatiche e la vita La tragedia e l’incubo, l’amore e la solitudine, un’intera percezione del mondo è filtrata attraverso la griglia della letteratura. Per quanto nella sua essenza sia, tutto sommato, una raccolta di articoli, Itaca e oltre mette in luce l’applicazione pratica di Claudio Magris che si spinge a ricordare come “il singolo deve solo appropriarsi delle cose, servirsene senza permettere che nulla lo assoggetti: il suo pensiero è valido non in quanto pensiero, ossia conformazione a un modello di ragione universale, bensì in quanto suo, in quanto è qualcosa in cui egli si appropria e che egli, senza alcun dovere di fedeltà nemmeno alle sue stesse idee, può mutare o gettare via come gli pare. Ogni meta ideale, ogni fine, ogni causa superiore, ogni facoltà generale (lo spirito, la coscienza) ogni dover essere è un fantasma menzognero, perché ogni vita è perfetta così com’è”. Kafka e Flaubert, Thomas Mann e Robert Musil, Praga e Trieste, Borges e Melville, Ibsen e Jacobsen, Hegel e Marx, il tragico e il ridicolo, Vienna e Varsavia, Canetti, Cervantes, Salgari, Lukács, Jünger si susseguono senza un particolare ordine se non nella consapevolezza che “l’arte non giustifica la vita che le è stata sacrificata” e “la vita è costretta a cedere tutto allo scrivere, a cedergli soprattutto quell’indefinibile e indicibile lasciarsi vivere che costituisce l’anonimo e indifferente segreto della nostra esistenza: passeggiare per le strade e guardare l’arco di un androne, perdersi nel colore di una sera, addormentarsi”. La conclusione, inevitabilmente davanti al mare, che all’orizzonte sembra “il fondo trasparente della vita stessa, la promessa di tutto ciò che ci manca”, è, sì, a Itaca, ma soprattutto in quell’oltre. Il senso indefinito di quella destinazione, che è “nessun luogo” diventa la chiave di volta nella lettura di Claudio Magris quando spiega che “chi si trova ai margini della vita scrive qualcosa per alludere a qualche cosa d’altro, alla vita che gli balena fuggitiva e irreperibile, aggira e circuisce con parole ironiche e struggenti quell’assenza che è il suo destino e affida quelle parole a una bottiglia, perché non sa bene quale sia il pubblico per cui si scrive, quale sia il centro della sua periferia”. Da tenere a portata di mano.

giovedì 25 febbraio 2021

Michele Berti, Giulio Menegoni

L’efficace lavoro di ricostruzione e assemblaggio curato da Michele Berti e Giulio Menegoni, oltre a offrire un ritratto a distanza ravvicinata di una personalità convinta della potenzialità degli studi, dell’approfondimento e dell’analisi, uno spaccato di un mondo che non c’è più, dove passione e rigore convivevano nell’attenzione alla vita quotidiana. Come spiega Giulio Menegoni nell’introduzione: “La lezione di Costa, così contesa tra la visione e l’equilibrismo, mostra l’irrequietezza di uno spirito perennemente insoddisfatto, costretto a coniugare la finezza dell’analisi con lo sconcerto dell’azione politica”. È in quel sottile frangente che irrompe il 1968, qui collocato nella giusta prospettiva dalla disquisizione di Gianpasquale Santomassimo: “A distanza di un cinquantennio il ’68 appare sempre di più un tornante, una data periodizzante, che fissa un prima e un dopo. Nella politica, nel costume, nelle mentalità, nel rapporto tra i sessi, nella musica, nel cinema, nell’arte. Non solo nella memoria di chi l’ha vissuto, ma anche di chi si dispone a valutarne l’impatto, qualunque sia il suo atteggiamento, critico o empatico di fronte all’evento”. Partendo dal presupposto che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, Remo Costa segue l’evolversi di quell’anno traumatico con note pressoché giornaliere ribadendo con decisione che “come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”. I due fuochi attorno a cui ruota l’ellisse delle riflessioni di Remo Costa nel 1968 (e in parte del 1969) sono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e l’insorgere dei movimenti studenteschi e giovanili nel mondo, a cui dedica un’attenzione costante, ma non fuorviata dall’ebbrezza e dalla spettacolarità del momento, avvertendo spesso e con sollecitudine che “c’è ancora disorientamento, troppi esprimono opinioni personali acritiche e spesso infantili. È conseguenza dell’abitudine agli interventi improvvisati senza esame approfondito della realtà, giudicando chi ha ragione e chi ha torto invece di esprimere valutazioni politiche”. È un dato ancora valido e, come spiegano i curatori, “tutto contribuiva a porre quesiti, a stressare la teoria, ad affinare la critica, a formulare ipotesi per riuscire a decifrare la complessità”. Molto originali e interessanti anche le sue valutazioni sull’allunaggio, e sulle diatribe del calcio, e dell’informazione che lo vedono particolarmente critico, quando dice: “Oggi in Italia, in particolare, il problema di fondo è cambiare la struttura socioculturale. La nostra stampa è piena di denunce su fatti concreti. Fa bene, ma è carente nel dare le prospettive avvenire per superare un costume connaturato”. La sua convinzione, non priva di fondamento, è che l’Italia resti “un paese semi-civilizzato”, dove “la vita scorre, l’uomo della strada non vede niente”, una constatazione che si allarga dalla condizione individuale a una visione più articolata della nazione e della società in sé. Sempre attento agli sviluppi internazionali e alle turbolenze finanziarie (lo studio dell’economia era uno dei punti fermi nella sua idea di formazione) Remo Costa ammette, sconsolato: “Solo l’Italia resta a guardare”. E non è che ci sia molto da vedere, come registra con un laconica appunto, appena dopo: “Allegra confusione, desolante misura di scarsa chiarezza. Lunga crisi di governo, le solite manovre”. Non è cambiato niente. Un congruo apparato di appendici, comprensive della bibliografia, di una dettagliata cronologia del 1968, di un indice biografico dei nomi nonché di un sintetico glossario completano, confezionati in un’elegante grafica, un libro che ha il coraggio di parlare di politica con cognizione di causa, e una rara dignità intellettuale.

mercoledì 17 febbraio 2021

Paolo Paci

Un percorso dentro le montagne e nella storia della guerra (la prima guerra mondiale, e molte altre) si evolve in Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave. Quello di Paolo Paci ha l’aspetto di un pellegrinaggio, scevro però di ogni retorica e anzi predisposto, per quanto possibile, al confronto con la modernità. È un diario da “semplice viaggiatore” nelle terre di frontiera e negli anfratti del tempo dove “la storia si fa racconto, canzone, mito, infine si dissolve come manifesti che sbiadiscono al sole”. Caporetto è la boa, nello spazio e nel tempo, attorno a cui ruotano la percezione e i sensi di Paolo Paci. Se Franco Cogoli, fotografo e anfitrione veneto, sostiene giustamente che “la presenza della guerra è opprimente”, il territorio è il vero protagonista e il senso per i luoghi, dalle trincee alle osterie, dagli alberghi ai sentieri, dai ponti ai boschi, permea tutto l’itinerario di Paolo Paci. Il tono è cordiale e tiene conto degli incontri e delle frontiere, dei sapori e dei ricordi, allineando alla selezione di letture e visioni con Hemingway, Gadda, Lussu, Uomini contro di Francesco Rosi e La grande guerra di Mario Monicelli, gli assaggi enogastronomici tra Veneto, Friuli e Slovenia: i pesci, il formaggio, il vino. Gli intervalli conviviali servono anche a stemperare la tensione perché la mappa è costellata di massacri devastanti che hanno lasciato ferite indelebili nella terra. La ricostruzione dell’epoca attinge a numerosi fonti e testimonianze che concordano nel vedere come “si assiste a un paese che langue accanto a un paese che lavora freneticamente, e per ogni mille che perdono la casa o muoiono di inedia c’è un industriale, un politico, un faccendiere che accumula enormi capitali”. Una considerazione economica, sociale e politica del conflitto in cui è maturata la disfatta (e poi la riscossa) di Caporetto è inevitabile, ma poi di fronte ai cimiteri, ai memoriali e agli ossari, all’enormità di una strage insensata e spietata, Paolo Paci non può che inchinarsi alla maestosità di tanto dolore: “La guerra ha messo a nudo l’uomo. L’esperienza estrema della sofferenza l’ha privato di ogni orpello culturale, persino del nome proprio, riducendolo a uno scheletro (metaforico e no). Per questo la grande fossa comune del Grappa è significativa: il vero protagonista qui è il milite ignoto, che anche quando è nemico smette di essere nemico, e si dissolve e diventa tutt’uno con la montagna”. È un po’ il capolinea, a cui ci si arriva gonfi delle vicende di un’umanità che Paolo Paci sa raccontare con partecipazione, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni e con lo sguardo capace di abbracciare i drammi personali, le piccole e grandi biografie, l’evolversi degli eventi bellici e i loro effetti sulle genti da una parte e dall’altra del confine e del fronte. È un bel vademecum che si addentra con garbo e con tatto su un crinale pericoloso, dove l’equilibrio è un requisito indispensabile alla condivisione del racconto perché, come scriveva Claudio Magris in Itaca e oltre, “la tragedia può abbattere e annientare gli uomini, ma non intacca l’integrità e l’unità della loro vita, non incrina le certezze del loro buon combattimento, non sminuisce la forza e la decisione con le quali essi mettono in gioco o sacrificano la loro persona; la tragedia può distruggere la vita, ma non il suo significato”. Caporetto è perfettamente allineato a questa distinzione per il suo afflato alla ricerca di un valore importante, che sia un gesto salvato dalla memoria, una frase in un libro o una pietanza consumata in solitudine, come se fosse possibile possibile una piccola riparazione, se non altro simbolica, a una devastazione secolare.

lunedì 18 gennaio 2021

Primo Levi

L’insieme degli articoli raccolti in L’altrui mestiere ha una sua logica stringente, per quanto composita, e svela alcuni risvolti sensibili e qualche angolo nascosto del lavoro di Primo Lev. Come scriveva Italo Calvino nell’introduzione, prima di tutto emergono “l’abito mentale scientifico, la misura dello scrittore e del moralista”. Le tre componenti si sovrappongono spesso: Primo Levi usa i saggi come una specie di diario, un modo per raccontare le sue “esperienze”, definizione molto ampia che attraverso il ruolo delle parole tocca l’astronomia, l’entomologia o l’urbanistica e i suoi principali interessi, la chimica e la scrittura. Dentro questa varietà di soluzioni c’è la costante attenzione alla forma dato che, secondo Primo Levi,  “chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio o il non-linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi”. Il cardine a cui ruota attorno la “letteratura della memoria” di Primo Levi è la convinzione che “non siamo una specie stupida”. La razionalità dipende dal fatto che “la parola ci differenzia dagli animali: dobbiamo imparare a far buon uso della parola. Menti più rozze delle nostre, mille e milioni di anni addietro, hanno risolto problemi più ardui. Dobbiamo far sentire più forte il mormorio che sale dal basso, anche nei paesi in cui mormorare è vietato. È un mormorio che scaturisce non solo dalla paura, ma anche dal senso di colpa di una generazione. Dobbiamo amplificarlo. Dobbiamo suggerire, proporre poche idee chiare e semplici agli uomini che ci guidano, e sono idee che ogni buon mercante conosce: che l’accordo è l’affare migliore, e che a lungo termine la buona fede reciproca è la più sottile delle astuzie”. Il compito assegnato è presto evidente: “Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri e a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione”. Da Aldous Haxley, Raymond Queneau, François Rabelais agli spunti critici verso I promessi sposi, la rassegna delle letture concorda con gli scrupoli espressi a viva voce da Primo Levi: “Ho sempre pensato che si deve scrivere con ordine e chiarezza; che scrivere è diffondere un messaggio, e che se il messaggio non è compreso la colpa è del suo autore; che perciò uno scrittore beneducato deve fare in modo che i suoi scritti siano capiti dal massimo numero di lettori e con il minimo di fatica”. Questo perché Primo Levi giunge alla conclusione che, pur essendo indefinibile  (“Scrivere non è propriamente un mestiere, o almeno a mio parere, non lo dovrebbe essere: è un’attività creativa, e perciò sopporta male gli orari e le scadenze, gli impegni con i clienti e i superiori”) in definitiva “scrivere è un servizio pubblico”. Due i capitoli esemplari, che valgono la scoperta di tutto L’altrui mestiere. Scrivere un romanzo è un saggio da leggere e rileggere per comprendere l’essenza della narrativa nella sua massima espressione. Eclissi dei profeti è in realtà una sorta di monito, a ben guardare molto preciso e attuale: “Il nostro futuro non è scritto, non è certo: ci siamo svegliati da un lungo sonno, e abbiamo visto che la condizione umana è incompatibile con la certezza. Nessun profeta ardisce più rivelarci il nostro domani, e questa, l’eclissi dei profeti, è una medicina amara ma necessaria. Il domani dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni; costruirlo dalle radici, senza cedere alla tentazione di ricomporre i cocci degli idoli frantumati, e senza costruircene di nuovi”. Da tenere in considerazione.

lunedì 11 gennaio 2021

Michele Anelli, Gianni Lucini

In Festa di nozze, John Berger scriveva che la musica è nata “da un ululato di lamento per una perdita. L’ululato si è poi trasformato in una preghiera e dalla speranza contenuta nella preghiera è nata la musica, che però non può mai dimenticare la sua origine. In essa, perdita e speranza vanno sempre in coppia”. Questa convivenza è l’elemento di continuità dei racconti di Michele Anelli e Gianni Lucini collezionati in Ho sparato al domani. È dichiaratamente la musica il collante: gli ascolti più eclettici di Gianni Lucini fanno da contraltare a quelli più uniformi (e tendenti con convinzione al rock’n’roll) di Michele Anelli, ma la distinzione è relativa. Il senso della coabitazione è proprio nell’approccio comune, che viene descritto così: “La musica abita dove la lasci entrare e casa nostra, in questo senso, è senza porte e finestre. In ogni pagina c’è una canzone che fa parte di una colonna sonora con la quale condividere il nostro tempo, anche con musiche differenti, ma in fondo il rock’n’roll si basa proprio sulla diversità delle emozioni. Non esiste una regola, come non ne esiste una per scrivere, appunto, di emozioni”. Si intravede una sorta di dialogo, certamente non formale, ma comunque una comunicazione tra due differenti generazioni che si ritrovano nella musica, e nella scrittura. L’alternanza funziona e permette ai sette racconti di Ho sparato al domani di trovarsi uno spazio singolare e comune, all’interno di un continuum tra gli sbalzi temporali. Alla storia d’amore (platonico) e di iniziazione che passa attraverso il bianco e nero di The River e di London Calling,  in Resta libero, si riflette l’involuzione di un musicista in Ho sparato al futuro, dove all’entusiasmo iniziale dei dilettanti subentrano il professionismo e la noia che conducono al drastico finale. I due racconti centrali sono disposti secondo una particolare simmetria: 2-4-6-8 Non è mai troppo tardi di Michele Anelli è l’apologia di una passione che si riflette in Calci a un pollo surgelato di Gianni Lucini. Per una curiosa legge del contrappasso, il racconto di Gianni Lucini va in direzione opposta rispetto a quello di Michele Anelli e punta verso il passato prossimo, quello del movimento, della “musica ribelle”, evidente nella ricostruzione del festival al Parco Lambro in Calci a un pollo surgelato (il titolo è tratto da un verso di Finardi). Qui c’è un passato utopico e la funzione della musica diventa una sorta di corrispondenza, un codice di comunicazione, come dice il protagonista del racconto: “Lascia stare gli storici. Noi inguaribili romantici più che i polli surgelati presi a calci portiamo nel cuore e nella memoria la musica, i profumi, gli odori, e i sapori di quelle intense giornate ma si sa che le emozioni non hanno un gran peso nella stesura degli storici. E ora lasciami tranquillo che magari mi riaddormento e sogno ancora di essere in treno. Sono curioso di vedere come va a finire quel sogno...”, e la postilla ha il sapore di un passaggio del testimone, che comprende anche l’idea di “ascoltare la musica e farsi sostanzialmente i fatti propri”. È la dimensione più individuale, evocativa e riflessiva dei racconti di Michele Anelli, in cui il futuro di Gianni Lucini diventa il presente distopico di La musica non finisce e della sua coda I viaggiatori. Resta la sensazione di volerne sapere di più, di capire dove può portare ancora la musica, che ha il potere di deformare il tempo, di lisciarlo e di dilatarlo, ma qui entrano in gioco altri nodi e altre connessioni. Vista la sua dedizione alla fantascienza, il fantasma di Jimi Hendrix evocato in La vita è più rapida di un battito di ciglia, pare introdurre i paesaggi ballardiani di Michele Anelli, dove la musica, in un futuro etereo e nebbioso, torna a essere un mistero, o un miraggio: chissà, forse per scoprirlo servirà un secondo volume o una versione deluxe di Ho sparato al domani.

sabato 9 gennaio 2021

Sara Bao

Il legame tra Robert Johnson e il voodoo non è così immediato e scontato come può apparire in superficie. Certo, l’assonanza è naturale per via dell’alone misterioso e spiritato che condividono nelle radici del blues, ma Sara Bao è stata più che attenta a non cadere nelle trappole e negli abbagli insiti nei luoghi comuni. Con molta saggezza, ha chiarito fin dalle primissime pagine che il suo obiettivo principale era “evidenziare analogie importanti tra culture molto distanti tra loro con particolare attenzione all’ambito religioso e a quello di musicale. Robert Johnson vuol essere solo il punto di partenza e la guida di questo viaggio virtuale tra voodoo e blues”. È già un bel modo per procedere e la mappa tracciata da Sara Bao comprende, in effetti, un bel po’ di “incroci religiosi e musicali tra Africa, America e Italia” come recita il sottotitolo. Le rotte dall’Africa verso l’America ritratte nel variopinto impianto iconografico rendono l’idea delle correnti e delle direzioni in cui sono germogliati il voodoo e il blues. Lo sviluppo è delineato con una notevole ricchezza di particolari, a cui vale la pena aggiungere la precisazione di Ted Gioia in Delta Blues: “La musica africana ha cambiato la musica del nuovo mondo, ma il suo ruolo sociale fu allo stesso tempo trasformato. E questa metamorfosi fu ben più significativa di qualsiasi alterazione nel ritmo e nella melodia, nella forma e nel contenuto della musica. Tra le pratiche performative africane e quelle africano-americane possono essere tracciati numerosi paralleli identificando valori comuni, ma il musicista africano e il suo corrispondente nel nuovo mondo hanno ruoli sociali quasi opposti nelle rispettive società”. Questo lo annota con cura anche Sara Bao dicendo di aver cercato di “andare oltre la barriera della leggenda alimentata dal commercio, cercando di approfondire la parte storica e quella culturale di un popolo oppresso”. È lì che il blues e il voodoo condividono le complesse trame di identità composte in moltitudini, così come ricorda anche Jimmy Ragazzon nella simpatica postfazione, che parte da Robert Johnson per arrivare a Frank Zappa. Dipende anche dal fatto che “i popoli africani credono che l’utilità della musica, sia scientificamente sia come risultato della percezione storico-culturale, consista nel possesso dell’anima. Attraverso la musica si possono ricombinare due elementi distinti, cioè il singolo e il tutto”. Bisogna quindi parlare al plurale, anche quando Robert Johnson si avvia alla gloria e alla morte in perfetta solitudine perché “il rapporto che il bluesman stabilisce con la sua chitarra può essere associato alle ancestrali strutture formali legate alla coralità. Siccome il musicista non può più contare sulla tipica antifonalità della musica popolare, egli riproduce questo rapporto tra se stesso e la chitarra: il bluesman, quindi, porta con sé una stilizzazione della comunità”. È quello il momento in cui il mezzo diventa il messaggio, proprio perché “la musica, pur essendo impalpabile, sia riuscita a erodere i territori in cui si è insediata tramite i culti religiosi, a intaccare le tradizioni e a modificarle fino a insinuarsi anche nell’ambito laico, diventando per qualcuno, musica diabolica”. Nel susseguirsi di fede, religione, divinità e culti eccentrici (con una propaggine tutta italiana) infine viene inevitabilmente convocato il demonio in persona e il senso della sua presenza è ben spiegato da Sara Bao nelle conclusioni, e non si può svelare la sorpresa (anche se, tutto sommato, non è tanto una sorpresa). Di sicuro, come qualcuno ha fatto notare, se il peggiore tra i demoni viene rappresentato con la pelle bianca, un motivo ci sarà (eccome). Molto interessante anche la filigrana di referenze letterarie che scorre in sottofondo a Voodooblues. Un giusto corollario a una densissima ricerca che comprende, tra gli altri, Céline, Jean-Claude Izzo, Aldous Huxley, da Sherman Alexie ad Amiri Baraka, Pedro Pietri, Madison Smartt Bell, Ishmael Reed, John Steinbeck.