Il primo maggio 1991 i Gang arrivarono senza indugi al festival dei sindacati a Roma. Avevano alle spalle quello che risulterà essere l’album più importante della loro lunga storia, Le radici e le ali. Avevano una formazione compatta ed esperta, con tanto di sezione fiati al seguito. C’era la televisione nazionale a riprenderli in diretta, davanti a una platea di centinaia di migliaia di persone. Tutto, ma proprio tutto, concorreva ad annunciare un trionfo. Il coro degli angeli e il vento della primavera cantavano all’unisono nella cornice perfetta delle rovine dell’impero. I Gang dovevano solo abbracciare il loro destino che era lì, davanti, tangibile, benché a loro apparisse come una sorta di miracolo o, al massimo, un miraggio. Salirono sul palco. Lessero un comunicato. Invocarono lo sciopero generale. Amen. È soltanto una delle tante storie che Marino Severini allinea e interseca con le canzoni e con dozzine e dozzine di riflessi che comprendono Joe Strummer, Bob Dylan, Woody Guthrie, Billy Bragg, Sant’Agostino, Pio La Torre, Nebraska e i fratelli Cervi, Elvis e la Banda Bassotti. Un gran bel circo: Marino Severini è un cantastorie che ammalia e coinvolge senza particolari velleità letterarie, è il prestigiatore che sfodera un aneddoto dopo l’altro e seguirlo è un’impresa perché le parole hanno ali leggere, nonostante l’importanza che via via assumono. Il bon ton dello scrittore qui è messo da parte (e del resto anche i Gang sono sempre stati allergici alle regole) e si intuisce lo sforzo di Alberto Sebastiani (abituato a ben altre intemperanze) nel dare forma compiuta al dilagare di ricordi, proclami, emozioni e volti. Persino l’ortografia viene maltrattata neanche fosse una Telecaster. Le maiuscole fioriscono come se fosse sempre la bella stagione. Rimandano a un’entità superiore, sia essa politica, religiosa o musicale. Ma è una fede di tipo diverso soprattutto perché pare essere indirizzata verso una forma di intelligenza collettiva, decisamente più empatica ed efficiente di quella artificiale. Una comunità di intenti che ha i suoi luoghi di elezione (uno su tutti, l’Intifada nella Val di Scalve), i suoi riti, le sue strade. L’ordine, a volerne proprio cercare uno, lo dettano le stesse storie che conducono avanti e indietro nel tempo, come se fosse possibile rileggere il passato o prevedere il futuro. A quel punto, e siamo già addentrati un bel po’, Marino Severini mette le canzoni in valigia (ma qui, con un minimo di dimestichezza tecnologica potete sentirle una dopo l’altra sfogliando le pagine) e parte, e riparte, perché “ogni incontro è una prova” e “o ti trovi, ritrovi te stesso e chi sei veramente, oppure ti perdi”. Attraverso le “storie d’Italia” e degli altri procede a riscoprire le sue origini, il valore della terra, e lo spirito familiare dei muratori che non sapevano nemmeno l’italiano, figurarsi se capivano cosa dicevano i Clash. Eppure è proprio lì che avvengono la vera confessione e la svolta nel riconoscere il dilemma della provincia, “la paura di restare isolati” e nello stesso tempo la curiosità, l’ammirazione per i viaggiatori, la necessità di fuggire, ma anche di avere coscienza di una direzione ben precisa (“Per noi era importante andare comunque, ma al contrario”) che, alla fine, impone di scoprire che oltre all’infinita partenza c’è anche un ritorno, quello che ti tocca, e ti tocca nel profondo. Su questo non c’è dubbio o contraddizione che tenga perché, come spiega fin troppo bene Marino Severini “le cose viste da lontano, anche lontano nel tempo, hanno un altro sapore. Le vedi più chiare dentro di te, anche se fuori sembrano dei fantasmi”. Ed è così, che trent’anni fa mentre il nuovo ordine mondiale avanzava (e guarda un po’ dove siamo arrivati), dopo aver suonato Socialdemocrazia, i Gang non misero più piede in televisione e, se è per questo, nemmeno in un casa discografica, ma si inventarono un altro mondo, e un altro modo di viverlo, e qui dentro lo trovate tutto, ancora intatto, brulicante di vita e sempre schierato dall’altra parte, quella giusta.
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