venerdì 1 febbraio 2019

Eugenio Montale

Non deve essere stato semplice identificare Ossi di seppia, essendo l’espressione della convinzione di Eugenio Montale che “lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’illustra triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti nei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume”. Ossi di seppia osservava quel rigore fin dalla postilla introduttiva, dove Eugenio Montale avvertiva che “se procedi t’imbatti, tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti, scancellati per giuoco del futuro”. È una libertà che apre scenari maestosi e labirintici, non immediati e da indagare con scrupolo come fece Alfredo Gargiulo nell’introduzione alla seconda edizione, nel 1928: “Sembra che il compito dell’esprimere gli diventi, esso, atto di vita; e come tale gli l’affronti, affidandosi all’impulso, a tutto rischio: come uno che senta nella singolare difficoltà della materia da dominare, fors’anche il pericolo che il compito gli resti interdetto fin dall’inizio. Così, è dir poco che manca in lui la letteratura d’ordinario surrogante la poesia: quasi si vorrebbe dire, invece, che egli opera addirittura, dal primo moto e per tutto il corso dell’esecuzione, letterariamente a caso vergine”. È un coraggio che si scova subito tra Vento e bandiere (“Ahimé, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E scampo n’è: ché, se accada, insieme alla natura, la nostra fiaba brucerà in un lampo”) e ancora di più nel cuore di Ossi di seppia dove Montale manifesta, senza alcun timore, la sua indipendenza: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Le parole sono levigate una per una, i versi si stendono con la dolcezza delle onde liguri, ma con la forza di una frustata. Non sorprende che Mario Luzi, in Vicissitudine e forma, sostenesse che “Montale, in altre parole, tende a una poesia esplicita con mezzi del tutto interni; esprime una crisi della conoscenza, divenuta provvidenzialmente crisi dell’esistenza, ne trae conclusioni che vanno al di là del contegno intellettuale: ma si affida all’imponderabile dei suoi soprassalti di vitalità, alle incursioni della memoria e dei desideri frustrati; e insomma obbedisce alla sua vicissitudine umana che, repressa, non ha perduto ma forse acquistato potenza”. Rimangono i panorami in tutti i dettagli, da Portovenere (“Là non è chi si guardi o stia di sé in ascolto. Quivi sei alle origini e decidere è stolto: ripartirai più tardi, per assumere un volto”) all’abbraccio di tutto il Mediterraneo, un orizzonte in cui Montale vede come “nel destino che si prepara, c’è forse per me sosta, niun’altra mai minaccia”. È la cornice ideale di Ossi di seppia così come la evidenziava Sergio Solmi: “Fasi del tempo, aspetti del mare e delle terre di Liguria, e le labili esperienze d’una vita rassegnata e abbandonata al fluire dei suoi minuti spersi, che nelle cose ritrova a volte rispecchiati i segni della propria sconsolata fatalità, questi sono in genere i temi delle liriche qui raccolti. Questi Ossi di seppia scintillanti e duri ci giungono ancora intrisi d’azzurro marino e diffondono al perduta malinconia dei rottami che il mare rigetta sulle sponde del suo abisso ignaro del trapasso dei giorni. Questo mare, se non è certamente il tranquillo specchio decorativo delle cartoline illustrate, non è neppure un concetto o un supporto metafisico. È un mare vivo e cangiante nei suoi multiformi aspetti, che corrode la terra col salso delle sue maree e impregna del suo fiato gli olivi e i limoni delle ripe ardue”. È quello l’aroma definitivo degli Ossi di seppia, a cui va aggiunto soltanto l’ultimo consiglio ricevuto nell’occasione da Umberto Saba: “Sorvegliati molto, e non abbandonarti all’affluire delle belle immagini”. Un bel suggerimento.

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