martedì 29 novembre 2022

Fabio Ruta

Quando i Rolling Stones esordivano, Cuba era ancora assediata. Era distante 2000 anni luce da casa, eppure è sempre stata lì e, per via dell’embargo americano, è rimasta “out of time”, anche se, visti i tempi, quella condizione non è per forza del tutto negativa. Si è conservata, se non altro: Cuba ha resistito ai conquistadores, alla mafia, al KGB e alla CIA e non ha accolto i Rolling Stones come liberatori o messia. Li ha accolti come i Rolling Stones che fuori dal tempo lo sono per definizione e, a modo loro, si sono conservati, perché il tempo l’hanno sempre dettato, costruito, sfidato, deciso. Gli hanno resistito e il  25 marzo 2016 sono atterrati al centro dei Caraibi. Il patrimonio musicale dell’isola è tale che la sfida, se non sei Ry Cooder (che guarda caso ha suonato con entrambi, Cuba e gli Stones) risulta impari. All’Avana, i Rolling Stones hanno fatto quello che fanno di solito, Casino Boogie, e quell’evento, giustamente definito “epocale” può essere un bel punto di partenza per capire la loro “macchina del tempo”, a cui Fabio Ruta ha dedicato il primo dei due volumi di un lavoro da vero appassionato. Sono, nelle rispettive forme, complementari nella ricostruzione del duraturo impero degli Stones, che sono molto più di una rock’n’roll band, per quanto di dimensioni planetarie. Costituiscono davvero un immaginario a parte, che comincia con la musica, ma attrae e assorbe qualsiasi cosa gli si avvicini. Fabio Ruta riesce a cogliere le sottili connessioni, non sempre così evidenti o visibili, tra la vita degli Stones e le cronache storiche salienti, non soltanto nel mondo anglosassone da cui provengono, ma anche in quello italiano in cui li abbiamo percepiti. Infatti Sessanta leccate di rock’n’roll nota bene come “sappiamo che le loro canzoni hanno attraversato il tempo e l’hanno descritto e raccontato dal loro personale punto di vista; in parte l’hanno assorbito attraversando paesi e città, presentandosi in modo differente negli anni. Gli Stones sono una navicella che ha solcato le onde del tempo: il tempo storico e sociale, quello dei comportamenti collettivi, quello di una cronaca urbana e legata agli avvenimenti di cui apprendiamo dai media ma anche e soprattutto il tempo vissuto e incarnato”. C’è un costante lavorio di accostamenti e parallelismi che asseconda le turbolenze dei Rolling Stones attraverso i tempi del tardo ventesimo secolo. È un assemblaggio meticoloso che prende nota delle biografie e dei dischi, degli show e degli aneddoti, con una particolare ricchezza di annessi e connessi fino a definire un’idea completa di quello che fanno gli Stones quando, come diceva John Mellencamp in Uh-Huh, “ti occupano il soggiorno” (e non se ne vanno più). Se tutto questo viene descritto in via teorica da Fabio Ruta, nel secondo volume di Sessanta leccate di rock’n’roll, si passa a una modalità più pratica con una congrua serie di interviste a giornalisti, scrittori, musicisti, collezionisti, tutta una variopinta umanità che racconta il proprio rapporto con gli Stones perché, come si legge nella breve introduzione, “la capacità di influenzare non solo la musica e altre forme d’arte ma, più in generale, il cambiamento culturale delle società e del loro tempo è una caratteristica che la band di Jagger e Richards incarna come pochissimi altri”. Interessante la testimonianza di Mauro Zambellini che, in viaggio sulla Costa Azzurra, finisce a Villefrenche alla ricerca del covo e dei fantasmi dell’apocalisse di Exile On Main Street ricorda: “La prima volta che andai in municipio a chiedere dove fosse Nellcote, trovai una gentile impiegata che aveva più o meno la mia età che mi chiese perché ero interessato a quel luogo. Io le domandai se c’era qualcuno con cui potevo parlare di quei giorni”. L’incontro ha qualcosa di simbolico per tutte le Sessanta leccate di rock’n’roll perché la signora rispose: “Anche a me piacciono i Rolling Stones ma la gente di qui, che li frequentava in quel periodo, è tutta morta”. Nessun dubbio: il tempo è sempre stato dalla parte degli Stones, e siamo ancora qui a parlarne.

lunedì 7 novembre 2022

Roberto Gramiccia

La forma autobiografica ha un valore particolare se si asseconda quell’idea di Cesare Pavese, uno dei punti di riferimento più importanti per Roberto Gramiccia, per cui “succede questo fatto curioso: noi viviamo l’esser nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade. Le prime occhiate consapevoli le gettiamo su uno schema che ci viene dagli altri, dall’esterno; l’idea stessa di occhiata è qualcosa che accettiamo, che imitiamo dagli altri”. La notte più buia di sguardi ne registra parecchi, non tutti innocenti, ma sempre appassionati:  Gramiccia è un osservatore acuto e partecipe che, pur abbondando di riferimenti culturali e filosofici che comprendono, tra gli altri, Spinoza, Platone, Leopardi, Gramsci, Camus e Tenco, si concede con naturalezza, senza la pretesa di ergersi su un piedistallo, ma piuttosto di raccontare una storia (la sua) che si avvolge attorno ai percorsi personali, all’impegno politico, alla medicina (la sua professione), all’arte e alla scrittura. Il passato, prossimo e remoto, diventa uno specchio che va oltre all’immagine riflessa e include un orizzonte molto più ampio. Le testimonianze che riportano alle “cronache di una generazione” sono fatte di aneddoti, di racconti spiccioli, di ricostruzioni che nel comporre La notte più buia, si distinguono come scrive Fabrizio Catalano nella prefazione, in “due tipi di verità: quella personale, che concerne le vicende private del protagonista, amori, rivelazioni, interessi, paure, sconforti, che suscita immediata empatia, in cui ognuno potrà riconoscere vicende parallele nella propria esistenza; e quella globale, che non fa mai da sfondo, e che sovente è l’autentico motore della narrazione”. I due aspetti non sono mai distinti, anzi si intrecciano e si sovrappongono in continuazione: gli eventi che si incuneano nell’autobiografia di Roberto Gramiccia (l’allunaggio del 1969 e il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro nel 1978, per esempio) hanno un valore speciale e in qualche modo definitivo nell’immaginario collettivo. È vero, come dice Gramiccia che “i tempi storici non sono mai quelli che vorremmo”, ma d’altra parte non si può nemmeno fuggire alla realtà. Per contrasto, La notte più buia è così affollata di piccoli e significativi particolari che si sommano uno dopo l’altro: gli espedienti dell’infanzia, i rapporti famigliari, la scoperta del sesso e dell’amore, e persino il poker. Tutto raccontato con una particolare verve che non manca di sottolineare le due passioni predominanti, la politica e l’arte. Il costante impegno politico che si fa notare anche nelle critiche (soprattutto) alla gestione del servizio sanitario nazionale e per estensione al tutto il welfare negli ultimi anni dove un concetto particolarmente caro a Gramiccia, quello della fragilità viene affrontanto con rara ed esplicita chiarezza. La dedizione per l’arte contemporanea e più in generale per la cultura affiora negli incontri con gli artisti e i protagonisti, e sono particolarmente toccanti quelli con Jannis Kounellis e Mario Monicelli, sullo sfondo costante di una città, Roma, ritratta dagli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, con le macerie ancora per le strade, fino momenti più frenetici e sfavillanti che la rendono La notte più buia un racconto sincero e movimentato.

domenica 16 ottobre 2022

Mauro Pagani

La perdita delle memoria è un incidente individuale, la ricostruzione è collettiva. Questo perché nella vita e nella carriera di Mauro Pagani la vocazione verso gli altri è sempre stata una predisposizione naturale e spontanea, legata in modo indissolubile alla sua concezione della musica e dell’arte. Per cui Nove vite e dieci blues è un memoir sui generis, dove Mario Pagani si concede la tentazione di rileggere il suo passato prossimo e remoto, ma trova la compagnia e la complicità di molti artisti, che fanno parte del bagaglio andato perso e che viene recuperato un passo alla volta. La dimensione famigliare, la scoperta della città, i primi tentativi di mettere la musica al centro di tutto lo conducono ben presto alla PFM. Entrare e uscire da un gruppo costituisce un esercizio esistenziale che va ben oltre l’attitudine professionale e questo Mauro Pagani lo racconta molto bene, con dovizia di particolari, senza rimpianti e/o tardive rimostranze. L’abbandono della Premiata, giusto per citare una svolta fondamentale, avviene per motivi umanissimi ma anche per seguire altre forme musicali, assecondando un’istintiva curiosità che lo porterà verso collaborazioni determinanti, da quella con Demetrio Stratos a quella con De André, la più nota e fortunata, fino alla fertile liaison con Massimo Ranieri. Gli sviluppi più significativi avvengono attorno alla musica, come non potrebbe essere diversamente, ma Mauro Pagani addensa anche molte cronache e storie italiane (e non) seguendo un tempo che si riverbera nella scrittura con un ritmo solido e un tono colloquiale, ma mai nostalgico. La rotta viene dettata dagli incontri, da quello con Salvatores che gli spalanca le porte del cinema, a quello, buon ultimo, con Guccini, quasi a completare una circumnavigazione della canzone d’autore. È proprio dentro queste molteplici forme di dialogo che la memoria si rigenera: trasformazioni, successi, fallimenti, scoperte diventano le note di viaggio che compongono le Nove vite e dieci blues, un racconto ricco di aneddoti, ma innestato su una trama solida, che Mauro Pagani sviluppa lasciando spazio al suo turbolento alter ego, il Fuggiasco e a dozzine di personaggi, il più delle volte ritratti con garbo perché, parafrasando le note di copertina del suo primo album solista, anche questo “non è un atto individuale, ma la conseguenza di un lavoro di gruppo”. Molto personali sono gli intervalli lirici, che, in filigrana, riportano Mauro Pagani su territori più conosciuti, quelli dei versi e delle canzoni, offrendo un’ulteriore prospettiva, ancora più intima, come si scopre in Da capo, a passo lieve: “Come ti senti? Come ti senti oggi? Come un avanzo in mezzo al niente, senza più voce, senza più memoria, senza contare niente? Come ti senti, ti senti come me”. Poi, un po’ per necessità, un po’ per passione, la ricostruzione del tempo perduto passa attraverso la lettura, che diventa a sua volta uno strumento per affrontare l’imprevisto e l’improbabile, e per ricollocare ogni cosa al posto giusto: “Ho anche ricominciato a leggere. Che meraviglia perdermi di nuovo tra le parole dopo anni nei quali il fare si era mangiato ogni minuto delle mie giornate”. Davanti al libro aperto, Mauro Pagani si ritrova con umiltà e stupore, lasciando infine un piccolo autoritratto, quasi una confessione spontanea: “A volte mi sono sentito stupefatto da tanta intelligenza e abilità di raccontare, a volte sollevato di non essere così vicino alla follia; consolato, in fondo, dall’essere un’anima semplice, capace di gioire senza troppe riserve”. Sincero.

lunedì 10 ottobre 2022

Andrea Berrini

Alle Metropoli d’Asia, Andrea Berrini ci arriva in punta di piedi, quasi per caso, seguendo una vocazione alla curiosità e alla scoperta che l’aveva portato prima in Africa, poi sul monte Ararat, un simbolico confine tra occidente e oriente. Già in quei passaggi Andrea Berrini non s’inventava novello Bruce Chatwin: la sua percezione da viaggiatore non si limita all’incanto e allo stupore, che comunque non mancano e hanno un ruolo specifico nell’affrontare le Metropoli d’Asia. Trasportarle nell’astrazione delle parole è a suo modo un altro tragitto perché, come dice ancora Andrea Berrini, “le metropoli, personaggi esse stesse, ho voluto raccontarle pescando storie un po’ a caso, sperando che le storie rendano conto anche dei temi. E che le differenze tra loro servano infine a esaltarne il tratto comune. Ero là, son passati pochi anni, questo era ciò che attraeva il mio sguardo, e ciò che ne racconto è la mia memoria”. Gli Sguardi su un altro futuro espressi dal sottotitolo maturano osservando i contrasti, le contraddizioni, le mutazioni e riconducendoli a un’esperienza personale, a una ricerca che non è soltanto geografica, o storica. Implica una metamorfosi più intima e profonda, alla quale non si può sfuggire. Succede già a Pechino, che è l’inizio e in qualche modo anche la fine, dove Andrea Berrini ammette che “lo sconosciuto di turno a volte sono io: una corsa in taxi è spesso un’avventura, pronuncio la mia destinazione sbagliando immancabilmente gli accenti in mandarino, e quindi pronuncio parole diverse da quelle che voglio”. Pechino è un labirinto: la censura, uno sviluppo economico feroce, la negazione della memoria, lo smog, l’evoluzione urbanistica e architettonica sono stranianti, tant’è che Andrea Berrini confessa di averla vissuta “come una lunga navigazione solitaria tra un approdo e l’altro”. A Kuala Lumpur, la sensazione è simile, ma con un’accelerazione che mette passato e futuro su un piano inclinato e ci si arriva con “una corsa cieca, come avere i paraocchi, buona introduzione a una città che già mi hanno descritto come una bolla di surmodernità, astratta da un paese fondamentalmente agricolo: quindi dai, restiamo dentro al videogioco, stiamo a vedere cosa succede”. Buon compagno di avventure è Brian Gomez, chitarrista, autore di Malesia Blues, poi imprenditore in una realtà fluttuante, ma non è un caso: una dopo l’altra, nelle Metropoli d’Asia si susseguono gli appuntamenti con editori e scrittori, che a volte volgono in amicizie, altre si rivelano momenti fugaci, di cui resta soltanto un alone di nostalgia. Da Hong Kong arrivano dispacci della rivolta degli ombrelli, le lotte per la libertà e la democrazia contro “l’armonia” del governo cinese, poi le contorsioni culturali di Singapore e Bombay, finché Andrea Berrini si convince che “valeva e vale la pena di guardarle da vicino, le città nuove dell’Asia, misurarle, imparare, preoccuparsene forse. Lasciarsene contagiare. Utilizzarle per riflettere su cosa siamo noi e ritrovare, visti da fuori, prospettiva. Un mondo che riproduce la modernità che noi abbiamo alle spalle, con tutto ciò che abbiamo perso, e che vagheggia un domani con cui anche noi dobbiamo fare i conti”. Si tratta di “immaginare la vita in un altrove” e il senso delle escursioni nelle Metropoli d’Asia è proprio questo, con tutti i limiti che Andrea Berrini sa riconoscere: sarà vero che la forma “sulla pagina è parziale perché non è che l’ultima tappa conclusa, e ci sarà un tempo per andare più in là”, ma intanto ha saputo renderle più vicine.

venerdì 30 settembre 2022

Luciano Federighi

In Confessin’ The Blues, Luciano Federighi un navigatore di lungo corso, ascolta le grandi voci del blues e del jazz cantare e, seguendole negli incontri, osserva gli sviluppi della musica nelle città. Da Los Angeles, che “sfugge perennemente allo sguardo, sorniona, informe, maliziosa, traditrice a San Francisco, dove, annota Luciano Federighi, “la realtà non abita i suoi marciapiedi, o meglio non li abita la realtà che conosciamo e che ci conforta” fino Las Vegas (“C’è genialità e potenza nell’orrore di questo strano, dilatato avamposto del mondo civile, in questo debordante fortino lambito dal niente”) è una ricerca assidua che coinvolge un moltitudine di cantanti: da Mike Henderson e Bill Henderson fino a Dee Dee Bridgewater, Luciano Federighi ricostruisce le interviste con una scrittura florida, rispettosa e discreta nei confronti degli interlocutori, ma approfondita nei temi e le adorna di una congrua dose di consigli discografici, e in quello Confessin’ The Blues si rivela una vera e propria miniera inesauribile. Gli aneddoti si sprecano, da Esther Phillips con una mazza da baseball a una rocambolesca e comica intervista telefonica con Etta Jones, eppure il cuore dei tête-à-tête restano le canzoni, la musica, le interpretazioni, le radici e se, come dice Johnny Otis, “quello delle influenze è sempre un gioco complicato da dipanare, un aspetto della tua evoluzione personale che è arduo sondare”, Luciano Federighi trova comunque il modo di chiedere conto di passioni e punti di riferimento e le personalità che emergono sono Dinah Washington, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e, più di tutti, Billie Holiday. C’è spazio anche per ricordare altri grandi protagonisti e i nomi che ricorrono spesso sono quelli di Art Tatum, Cole Porter, Bill Evans, Frank Sinatra, Gene Krupa, Buddy Rich, Bill Evans e altri raffinati accompagnatori attenti a ogni singola sfumatura delle melodie, delle parole e degli umori degli interpreti. Per loro vale l’apologia che Luciano Federighi raccoglie parlando con Tony Bennett: “Troppe persone non si rendono conto del livello artistico straordinario che possono raggiungere gli strumentisti che improvvisano, i musicisti di jazz. Sono individui perlopiù estremamente dediti alla loro arte, capaci di lavorare duramente sul loro strumento. E ti insegnano anche a vivere; spesso i musicisti di jazz meritano di essere ascoltati, perché sono dei grandi filosofi, che compenetrano una visione lucida della vita con un loro peculiare romanticismo, la loro intensità di feeling”. Luciano Federighi dedica molta attenzione ai molteplici aspetti della vocalità (dalle prestazioni tecniche alla qualità dello svolgimento delle parole fino alla postura sul palco) anche se poi, in definitiva, ha ragione Little Jimmy Scott, quando dice: “Per me è tutta musica, e i sentimenti che canto non hanno confini”. Su questo Confessin’ The Blues è allineato e attraverso le voci e soprattutto il feeling di Mark Murphy, Carmen McRae, Pony Poindexter, Johnny Adams, Meredith d’Ambrosio, Bobby McFerrin, Betty Carter, Ray Bryant, Houston Person, Anita O’Day, Cassandra Wilson, Jackie Allen, Kevin Mahogany prende forma un’idea “lirico-musicale” della canzone in sé dalle origini blues fino a Broadway, Hollywood e Tin Pan Alley, ovvero una sontuosa saga americana. Per quanto eterogenea, la provenienza degli articoli e degli aggiornamenti non impedisce a Confessin’ The Blues di avere una continuità, una coerenza e una sua logica nel dipanare la natura della voce all’interno di musica di gran classe, ma più di tutto si snoda come una lunga, intensa celebrazione per “il jazz, la libertà creativa”, che comincia, curiosamente, con il sogno di un’intervista a Etta James. Ci voleva.

lunedì 26 settembre 2022

Mario Maffi

Come il fiume sfocia nel mare, per chi scrive è inevitabile affrontare lo scoglio della narrativa, anche dopo anni e anni di intenso lavoro saggistico. È proprio il caso di Mario Maffi che giunge al suo primo romanzo con una lunga e ricchissima serie di volumi alle spalle, in gran parte dedicati alla cultura anglosassone,  nello specifico all’America e dintorni. Proprio lì comincia Quel che resta del fiume: Rhys Campbell è un uomo tormentato da rimpianti e da solitudini, compresa la brusca separazione dalla moglie Alison, ma ha la fortuna di essere circondato da solide amicizie: Gisela e Tom, che vivono su una barca, Marc, con cui condivide gusti, chiacchiere e passioni (politiche) e, soprattutto, Annette che è stata e sarà qualcosa in più di un’amica. Ha trovato un modus vivendi, che poi definisce il ritmo singolare e gentile di Quel che resta del fiume: Rhys ama bordeggiare (un termine ricorrente nel corso del romanzo), come se, arrivato a un punto critico dell’esistenza, avesse deciso di limitare i danni, ma quando alla sua porta appare Belle, figlia dell’amico Sal, artista genialoide di cui ha perso le tracce da tempo, l’onda della vita riprende forza, tra ricordi e passaggi futuri, tra storie e memorie e una lunga teoria di emozioni condivise proprio con gli amici. Le occasioni non mancano: ci sono cibi, bevande, letture, le canzoni di Kris Kristofferson, The Köln Concert di Keith Jarrett, la fisarmonica e le danze quando Belle incontra Arsène e i suoi parenti della comunità cajun, uno dei momenti più vitali del romanzo. In quei frangenti i paesaggi sono quelli di James Lee Burke, con le luci, i riverberi e i riflessi acquatici che filtrano tra le righe, ma il tono e soprattutto i lineamenti caratteriali di Rhys ricordano il tratteggio di Richard Ford con meno pretese, e molto più cordiale. Seguendo turbamenti e gioie del protagonista, Quel che resta del fiume allinea le esplorazioni già note nei saggi di Mario Maffi e qui si va da Mississippi a Nel mosaico della città, dedicato al Lower East Side, perché protagoniste sono le città: New Orleans e la Louisiana sono il baricentro del presente verso il passato di Chicago, Kansas City e New York che è anche una tappa intermedia verso il futuro di Londra. Alle dissertazioni puntuali sulla forma, sull’architettura e sull’essenza delle metropoli, si alternano, nei dialoghi tra Rhys e gli amici, gli eventi simbolici all’inizio nel nuovo secolo.  Dopo Katrina, l’11 settembre, il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, le guerre nel Medio Oriente, la crisi dei subprime del 2008, tutti i drammi americani che hanno così determinato la vita nel mondo. In realtà le scansioni temporali si confondono nella memoria e nello svolgimento della trama che è essenzialmente divisa in due parti, quella americana e poi quella europea (inglese, per la precisione) che si saldano proprio attraverso fitti orditi di storia e il minimo comune denominatore dei fiumi: il Mississippi, l’East River, il Tamigi. Lungo le rive si svolge una sottile rete autobiografica, e non soltanto per i viaggi americani: un po’ affiora in Marc, a partire dalla dedizione per i movimenti operai che sono un sottofondo costante in Quel che resta del fiume, ma in gran parte e ancora di più nel finale è proprio Rhys a inseguire Mario Maffi. All’appello manca solo Parigi (anche se il francese lo accompagna dal bayou all’East End), ma ci sarà occasione: i fiumi scorrono (più o meno) tranquilli, ma non si fermano mai.

mercoledì 14 settembre 2022

Amedeo Anelli

Ha ragione Amedeo Anelli quando scrive nel corso dell’Invernale VIII: “Non ci salverà la teosofia né il viaggio nella mente, ma nei prodigi della percezione il corpo vivente, e l’interrogazione sempre ricominciata, le strade della libertà e il no per affermare non arreso”. Proprio così Invernale e altre temperature affronta e definisce “l’estraneità che abita il mondo”: con una misura delicata e intensa, affacciandosi su “un impasto di terra e luce”, quello della pianura, dove la scrupolosa attenzione di Amedeo Anelli è riservata allo scorrere di una roggia come a un lieder di Schubert, alla definizione del pannerone e della galaverna o a un richiamo a Italo Calvino. Nessuna distinzione: i versi sono liberi, con o senza rime, in piccole stanze o quasi in piccole prose che fluttuano coraggiose e indipendenti, come succede in Nel mutare degli accenti: “Per quel berretto di fili di pioggia, calato sui rami la natura si dilata in assolo, i fili del mondo s’intrecciano anche in noi, nei tempi paralleli del riverbero e del silenzio, come alla fine di una riga andiamo a capo”. È una delle poesie dedicata alla poetessa e traduttrice (verso il francese), Irène Dubœuf: nella sua nota, dice che Invernale e altre temperature “è fondato sulla stessa tonalità, e la partitura è scandita da accordi su tre parole, luce/freddo/suono, declinati all’infinito in variazioni di intensità, il suono può arrivare perfino al silenzio, il freddo fino al caldo, la luce, fino al buio”. I contrasti si riempiono di senso, di calore, di musica e di voci perché la pianura, avvolta in una lattiginosa essenza, non le disperde e le tramanda attutite, con una dolcezza unica. La nebbia, come nota ancora Irène Dubœuf, è il filtro ideale di una poesia sostenuta dallo “sguardo attento e cuor sereno”, e si capisce perché: è il momento in cui l’acqua è sospesa tra la terra e il cielo. Gli elementi naturali e i fenomeni climatici (il vento, il gelo) che si agitano sopra e dentro “una campagna sommersa” sono una chimica delle possibili alterazioni dell’acqua e in Invernale e altre temperature le sue metamorfosi seguono quelle delle parole, dello spazio e del tempo, mentre “il paesaggio estraneo a sé, ci guarda come in sogno”. Ed è vero che “nella nebbia più luce non è più visione”: rende “l’ombra delle cose” visibile, la realtà trova i contorni del sogno e/o del ricordo, oppure una voce dall’infanzia che ritorna come una melodia ricorrente. Frammenti, dettagli, e piccoli particolari si incastrano nell’insieme determinando “l’immagine, la forma e la condizione”: il fuoco della cucina economica dove arde la legna e la fiamma è imprigionata e “i rossi cerchi arroventati della stufa” si liberano in disegni concentrici, mentre si rivela “un mondo insospettato, ed irriflesso nel grande freddo e nella mescolanza dei corpi”. Certo, queste magie succedono se “tutti questi segni se li sai leggere”, e Amedeo Anelli non solo sa riconoscere “ciò che basta nella poca luce contro il mattino”, ma riesce a trasmettere con un afflato partigiano, le dimensioni segrete dell’inverno, della pianura, di una terra che appare inevitabilmente orizzontale ed è invece molto profonda. Senza battere ciglio, anzi con nonchalance e spontaneità, Amedeo Anelli passa quindi dall’omaggio a maestri e amici (Dino Formaggio, Guido Oldani, Franco Loi, Roberto Rebora) alle riflessioni filosofiche, dalle tradizioni popolari all’osservazione acuta della vita quotidiana nella campagna, con uno spiccato senso di appartenenza, perché “se senti questa musica, fatta di caldo buono e silenzio”, sei nel posto giusto”, come scrive in Invernale II. E sì, se c’è qualcosa che ci può salvare è la poesia, e la nebbia.   

lunedì 18 luglio 2022

Massimiliano Barulli

Nel 2005, Peter Gabriel ha accompagnato il figlio a vedere lo show dei Musical Box, un gruppo che riproduce alla perfezione i concerti dei Genesis d’antan. A tutti gli effetti, è l’unico modo per viaggiare nel tempo e riscoprire il valore di intuizioni, esplorazioni ed emozioni ormai sfumate per sempre. È su questa leva, una complessa miscela tra la nostalgia e “una sorta di senso di appartenenza”, come scrive Massimiliano Barulli, che fa forza il fenomeno delle cover e, ancora di più, delle tribute band, che ha avuto particolare fortuna in Italia. In sintesi, le tribute band sono quelle che dedicano uno show uniforme al repertorio di un singolo artista, con un’evoluzione specifica negli impersonator che riproducono nei minimi dettagli il personaggio di riferimento. Le cover band, invece, interpretando canzoni altrui propongono uno spettacolo più variegato, ma senza scoprire nulla di nuovo. Entrambe le categorie si rifanno a quella che Massimiliano Barulli chiama L’arte di imitare, sfruttando i risultati degli sforzi altrui, e se il limite creativo è evidente, la loro proliferazione è tale da suscitare molti interrogativi. Gli estremi possono condensarsi nel fatto che “un tributo maniacalmente fedele può dare, tuttavia, la sensazione di una recita a soggetto o di una rappresentazione teatrale” o che, in un modo o nell’altro, si tratti comunque di condividere un’emozione come dice come dice Matteo Fiorini, chitarrista degli Stupendo, un gruppo dedicato a Vasco Rossi: “Se ti piace quello che fai lo fai piacere anche agli altri; se non ti emozioni, se non ti piace quello che fai al pubblico non arriva niente”. Massimiliano Barulli esplora tutte le condizioni che definiscono le cover e le tribute band con testimonianze dirette raccolte non solo tra i musicisti, ma anche conversando con promoter, direttori artistici, giornalisti. Molte sfumature sono accennate perché ci vorrebbe una serie di digressioni a parte, ma Massimiliano Barulli riesce nell’intento di offrire un quadro completo ed esaustivo. Il punto di partenza è che “la tribute band nata dalla passione per l’artista replicato è formata principalmente da fan che si pongono come obiettivo quello di rendergli omaggio, cercando di ottenere un livello qualitativo più alto possibile. In questo caso, il movente non è quello economico, ma principalmente la celebrazione dell’artista, messa in scena da fan per altri fan”. È quello che ribadiscono a ogni concerto, per esempio, gli Achtung Babies, uno dei primi tributi agli U2 e oggi una solida realtà che concentra tutte (o quasi) le opzioni e le contraddizioni del caso. Anche perché la riproduzione estremamente fedele e scrupolosa del repertorio degli U2 cha costituito infine un ambito professionale a cui dedicarsi a tempo pieno, a differenza dei cosiddetti “weekend warrior”, ovvero dei dilettanti. In più, L’arte di imitare esplora le tribute band al femminile, il ruolo dell’abbigliamento e dei costumi, persino delle tonalità delle canzoni e di ogni altro dettaglio teso a rendere verosimile e credibile il simulacro, che, come ne caso di Peter Gabriel, il più delle volte appartiene a un tempo perduto. La conclusione è che “il passato viene sempre più riproposto nell’attuale società contemporanea al punto da concedere largo spazio a forme d’intrattenimento basate sulla sua replica in ogni forma possibile. Solo comprendendo questa retromania come parte rilevante dell’odierno panorama della musica di massa è possibile considerare le tribute band come elementi non secondari dell’attuale scena musicale e sociale italiana”. Massimiliano Barulli la riporta in quella che definisce giustamente “un’istantanea della storia e della situazione attuale delle tribute band in Italia, in gran parte attraverso le parole dei suoi protagonisti”, ed è vero, ma a dispetto del suo titolo, L’arte di imitare è un lavoro molto originale, e molto utile.

martedì 12 luglio 2022

Nicola Gervasini

Bisogna ammettere che Diana Palmieri, la protagonista che interpreta a modo suo Il paradosso di Ippocrate, ha un’aura insopportabile. È avvenente, è la prima della classe, è la ragazza che sapeva con estrema chiarezza dove voleva arrivare, e ci è arrivata. Ascolta solo musica classica, ma la sua vera passione sono i valori tradizionali: la famiglia, il lavoro (è una pediatra), fine dell’elenco. Quando scopre un biglietto con intenti predatori che risale agli anni dell’università, decide di indagare, ma ben presto si ritrova coinvolta in un’intricatissima congiura di potere all’interno dell’industria farmaceutica, dove, come è noto, lo spirito della ricerca e del servizio è in costante attrito con quello del profitto. Con Il paradosso di Ippocrate non c’è da stare tranquilli: le mutazioni sono dietro l’angolo, niente è definitivo, solido, concreto. La realtà, agli occhi dei suoi protagonisti, anche di quelli di Diana Palmieri, non è mai così come appare, ma piuttosto come se la immaginano nelle loro ambizioni. Questo vale soprattutto per i manager, qui particolarmente infidi, che a vario titolo si contendono i posti di comando, con sotterfugi e segreti coltivati con estrema cura. L’ingarbugliato gioco di ruolo sposta il livello dal romanzo, con una spinta moralista che ha pure una sua logica, dove il termine di paragone non è soltanto l’onnipresente e onnipotente “mercato”.  Il paradosso di Ippocrate mostra, senza troppe esitazioni, che l’impalcatura economica non è retta, come tutti gli indicatori dovrebbero sostenere, da rigorose posizioni analitiche, ma da volubili espressioni caratteriali, mentre il danno “viene dalla cattiva amministrazione della cosa pubblica, dalle aziende senza scrupoli che lucrano sulla nostra missione, dagli imbroglioni che non hanno nessuna remora a mettere in pericolo la salute e la vita delle persone per il loro guadagno”. Niente da eccepire e, in questo, la vera valuta di scambio è la fiducia ed è qui che si affronta il livello più approfondito, perché Il paradosso di Ippocrate tende ad aggirare gli schemi e a rivelarsi come una matrioska che, un colpo di scena dopo l’altro, plasma i personaggi. La trasformazione tocca Diana quanto il suo volitivo alter ego, Donita, le maschere cedono in rapida sequenza via via che i contorni noir, compresi due omicidi, avvolgono Il paradosso di Ippocrate. La metamorfosi più evidente la subisce proprio Diana Palmieri che, senza volerlo, si ritrova al centro di un’asfissiante nebulosa di forme di potere, diventando a sua volta protagonista degli eventi. I cambiamenti sono radicali, il complotto non diventa mai chiaro (e questo è forse il significato ultimo del romanzo di Nicola Gervasini) e i nodi costituiscono il senso della trama ed è impossibile svelare di più. Molto si svolge al Superunknown, un locale che prende il nome da un album dei Soundgarden e così Nicola Gervasini passa dagli anni ottanta di Musical 80, il precedente romanzo, agli anni novanta però visti attraverso una lente deformata, quella dei Nirvana, del grunge e dei suoi accoliti. Il paradosso di Ippocrate è aperto, in ogni suo capitolo, da una citazione di una canzone di quel periodo, forse a ricordare cosa paghiamo per “le nostre moderne esigenze”, come cantavano i Pearl Jam.

venerdì 3 giugno 2022

Bruno Segalini

Pesce e Scimmia sono musicisti con trascorsi non proprio limpidissimi e un’allergia (giusto per usare un eufemismo) per le forze dell’ordine. Mentre scendono lungo un’impervia valle bergamasca per tornare in città, incrociano un posto di blocco. Per loro sarebbe inquietante già in condizioni normali, ma vedendo quattro camion dell’esercito, comprendono, anche in condizioni mentali limitate, che è successo qualcosa. Siamo solo all’inizio di Una violenta contrazione che ben presto spinge i due amici a confrontarsi non solo con i rispettivi (e turbolenti) passati, ma anche con l’imprevista insorgenza di quel subdolo virus che ha cambiato per sempre le nostre vite. Qui i soprannomi giocano un ruolo sibillino e significativo: a ben guardare Scimmia e Pesce sono passaggi significativi dell’evoluzione verso l’essere umano, e non a caso Pesce vivrà una parziale mutazione in rettile, fenomeno dovuto anche all’uso di sostanze lisergiche. La metamorfosi non riguarda solo lui, ma tutti i convitati nello scenario di Bergamo della primavera 2020: le esistenze dei personaggi si intrecciano e si ribaltano con lo sviluppo dell’azione. Tutto pare succedere per caso o meglio per quei meccanismi automatici di azione e reazione che regolano le dipendenze, così come ogni legame. Proprio sotto Bergamo, nei vecchi canali dell’acquedotto, si sviluppa una zona temporaneamente autonoma che, da rifugio ottimale e via alternativa nei giorni della pandemia, si trasforma in una trappola mortale. Non c’è lieto fine, come non c’è stato nella realtà: l’underground è duro da digerire e se in superficie si alternano agenti segreti, oscuri tentativi di mascherare la realtà e drammi famigliari, nei cunicoli si inseguono spacciatori, fuggitivi, traditori, ribelli e outsider di ogni specie e genere. Una volta passati per quel tombino, la storia si fa convulsa e sincopata, Scimmia e Pesce sono coinvolti in qualcosa che non si aspettavano e i colpi di scena si susseguono uno dopo l’altro a un ritmo incessante. Sembra di finire dentro dritti un rave e il mondo sotterraneo si svela come una versione speculare e deformata di quello in superficie, con le declinazioni del potere (legale e non, la differenza resta molto, molto labile) che si manifestano in tutta la loro brutalità. Bruno Segalini concede più di un’apertura psichedelica, ma nella sostanza emergono tutte le deviazioni e le frustrazioni, i soprusi, le contorsioni delle famiglie e delle carriere che nel procedere di Una violenta contrazione si sommano all’immane tragedia della pandemia nelle valli bergamasche. Bruno Segalini non fa sconti, né sopra, né sotto, e la scrittura è immediata, in prima persona, non filtrata e non vaccinata da editori, editor ed editing (Una violenta contrazione è pubblicato in modo completamente indipendente) ed è perfetta per dare forma all’oscurità e agli effetti del Profondo Blu (bisognerà scoprire da soli di cosa si tratta), del gioco d’azzardo, della vita in mezzo alla strada, di sotterfugi e di legami distrutti che sopravvivono aggrappati ai ricordi, ma tutto è sempre e ancora vincolato alla ramificazione del potere e dei suoi nefasti effetti che, proprio nei giorni della pandemia, si sono rivelati in tutte le peggiori forme.

martedì 17 maggio 2022

Giorgio Rimondi

Quando George Clinton esce dall’astronave a Oakland, California la sera del 22 gennaio 1977, la sfida degli afronauti è giunta a un punto di non ritorno. Poco importa se succede tutto sul palco del Coliseum, in un mirabolante spettacolo di luci, grida ed elettricità. Come ricorderà Rickey Vincent, l’arrivo del Dr. Funkenstein “ci restituiva i nostri antichi sogni, ma con un significato diverso”. Di cosa si tratta lo spiega Giorgio Rimondi con un formidabile dispiegamento di mezzi, che parte dalla necessaria definizione di “narrazione speculativa”, per poi indagare a fondo il ruolo della fantascienza nell’esperienza e nella cultura afroamericana. Scrive infatti Giorgio Rimondi: “Il fantastico è infatti una provocazione, una sfida all’ossessione tassonomica della cultura occidentale e un’incrinatura nell’ordine che essa vorrebbe imporre alle cose. È insomma una figura inquieta (e indubbiamente inquietante) della nostra identità, in grado di rimescolare vicino e lontano, familiare ed estraneo, inducendo in chi legge la perdita di ogni certezza”. Questo ha un significato particolare nel momento in cui, intorno alla metà del secolo scorso, la corsa allo spazio, non priva di risvolti bellicosi, gravava sull’immaginario collettivo, come annota bene lo stesso Rimondi: “D’altronde l’era spaziale diventa importante proprio perché dà forma ai desideri e alle paure della contemporaneità. Ma è pur vero che a partire dal lancio dello Sputnik quei desideri e paure si trasformano in una sfida, indubbiamente tecnologica ma anche, e forse principalmente, concettuale”. Se la tensione e la sensazione di pericolo verso il futuro era indistinta per tutti, per gli afroamericani aveva una valenza differente e così la evidenziava Duke Ellington: “Ecco allora il mio parere sulla Race for Space. Non la vinceremo mai finché noi americani, collettivamente e individualmente, non riusciremo a trovare un new sound, un suono fatto di armonia, fratellanza e rispetto, fatto di una diversa considerazione per la dignità e la libertà degli uomini”. È lì che si trovano i presupposti per cui L’invasione degli afronauti diventa una tourbillon di immagini, mondi, costruzioni, esplorazioni e tempi, disposti secondo un ordine felicemente caotico, ma sempre assecondando la definizione di Greg Tate per cui “la science fiction rappresenta il tentativo di codificare un impulso che deriva dal desiderio umano di conoscere l’inconoscibile”. Dall’epocale apparizione di Uhura in Star Trek a Sun Ra (“Quando suono la space music sto affrontando il vuoto, che è il vuoto dello spazio ma anche quello della condizione nera”), da Jimi Hendrix a Basquiat, da Ornette Coleman ai fumenti, da Samuel Delany a Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, da John Coltrane ai Public Enemy, L’invasione degli afronauti in modi differenti e contrastanti ma perfettamente inseriti nel suo ricchissimo impianto, rivela che, come scrive Nnedi Okorafor, “la science fiction è una delle forme più grandi ed efficaci di scrittura politica”. Non ci sono dubbi, e Giorgio Rimondi si spende con generosità nell’illustrare le radici, gli intenti e le motivazioni delle astronavi narrative di inizio millennio, che poi riportano comunque a quello che diceva Richard Buckminster Fuller: “Se vuoi cambiare le cose non combattere la realtà, ma costruisci un nuovo modello che la renda obsoleta”. In definitiva, è forse il tema principale che attraversa L’invasione degli afronauti ed è reso ancora più esplicito da Octavia Butler: “Che strano: nel crescente desiderio di creare alieni noi esprimiamo il bisogno che abbiamo di loro, e contemporaneamente il profondo timore di essere soli in un universo che non si cura di noi più di quanto si curi delle pietre o di qualsiasi altro frammento di se stesso. E ovviamente non siamo capaci di andare d’accordo con questi alieni che ci sono così vicini, questi alieni che ovviamente siamo noi”. Un libro eclettico, prezioso,  utilissimo, e molto funky.

lunedì 4 aprile 2022

Gianni Lucini

Le storie cominciano nella notte di Capodanno del 1953 con Hank Williams che muore in una Cadillac bianca a soli ventinove anni, dopo aver cambiato per sempre il volto della musica americana. Poi le pillole quotidiane di Gianni Lucini ripercorrono secoli di storia della musica in modo garbato, con un florilegio di aneddoti, ma anche con un occhio di riguardo a cosa succede nel frattempo in giro per il mondo: non è un almanacco, ma è un anno vissuto pericolosamente, anche perché è bisestile ed è una bella rarità, anzi è proprio un’anomalia irripetibile e un motivo c’è, perché la musica sfiora sempre i lati più sensibili dell’animo umano. Ci sono corsi e ricorsi storici e, senza una sbavatura che sia una, Gianni Lucini non rinuncia a raccontare le distorsioni dell’industria discografica e della società dello spettacolo, come le interazioni con i nodi politici e sociali. Le notizie giornaliere rivelano la vocazione per musicisti poco accomodanti (Bob Marley, i Clash, Alice Cooper, giusto per citarne alcuni) e per una lunga serie di outsider e sconosciuti scovati nei bassifondi e riportati alla luce, per quanto possibile nel ridotto spazio di una rubrica di un quotidiano. Qui trovano giustamente una collocazione più idonea e nella collezione, giorno per giorno, si scopre una personalissima teoria del caos che sottintende un particolare ordine. Per esempio, sembra impossibile trovare un collegamento tra l’esordio di Addio Lugano bella (e si torna indietro al 22 novembre 1891) accostato naturalmente al 21 novembre 2003 con i Jethro Tull banditi negli Stati Uniti, ma leggendole una dopo l’altra le vicende non sembrano così distanti nel tempo e nello spazio, anzi. La formula, brevissima, non è da considerarsi esaustiva, ma Gianni Lucini in queste Storie di musica, musicisti, mode, vizi, virtù ed emozioni assortite (soprattutto queste ultime) mette in fila una bella selezione di fatti ed eventi, alcuni già noti e raccontati, altri che vanno scoperti insinuandosi tra le pagine dato che “ogni giorno ha la sua storia anche se le date sono fondamentalmente un pretesto”. Questo si capisce ben presto nella felice miscela, fin dalle prime battute dove ai Beatles (protagonisti in contumacia agli inizi, ma poi si prenderanno tutto lo spazio necessario) si affiancano Jimi Hendrix, Tampa Red, Graham Parker, Howlin’ Wolf e Armando Gill “all’anagrafe Michele Testa Piccolomini”, ognuno ritratto nel proprio habitat naturale. Ci sono parentesi fortunate e altre un po’ meno: Gianni Lucini non fa sconti e nelle sue ricostruzioni spuntano arresti, battaglie legali, scontri, omicidi e suicidi perché la musica è fatta da esseri umani con le relative debolezze, ma è tutto raccontato senza enfasi, con misura e con la consapevolezza che il senso di ogni giornata non può che essere propedeutico a un maggiore sforzo di approfondimento. La formula funziona perché Gianni Lucini ha il dono più unico che raro di sapere gestire la brevità e senza perdersi in fronzoli e preamboli riesce andare subito al cuore delle singole questioni che, nell’insieme, costituiscono una storia alternativa e credibile. Descriverla nel dettaglio è improbabile perché gli spunti sono proprio 366 e c’è solo l’imbarazzo della scelta: si può partire da Tito Puente per arrivare a Mary Lou Williams, la jazzista che scrisse una messa per il Vaticano, ci sono bluesman e pornostar, ribelli e rivoluzionari, i Fumogeni al Vigorelli e La prima volta del sottomarino giallo, Lili Marleen e la lotta dei minatori contro la Thatcher, Graceland e l’Hotel Supramonte, Woody Guthrie e Jim Morrison, Rabagliati e Nick Drake tutti felicemente compressi uno dopo l’altro, senza altra indicazione, se non quella di “non perdere il ritmo”. O meglio come dice Lee Scratch Perry (bisogna andare al 23 settembre 1977): “Lasciatevi attraversare al ritmo e la musica verrà da sola”. Provate a leggerlo, succederà proprio così.

lunedì 21 marzo 2022

Paolo Scardanelli

Il patto mefistofelico che si annuncia con una strage truculenta in un cortile dell’università, nel cuore di Milano, ha contorni frastagliati che sono ben rappresentati dal gusto barocco con cui In principio era il dolore assume una forma fantasmagorica, tra un dramma shakespeariano, The Rocky Horror Picture Show, un compendio di filosofia, e con Patti Smith all’inizio e gli Stranglers alla fine, con l’intento di sublimare affinità e divergenze, forza e debolezza della narrazione in sé perché “ciò che sovente ci spaventa è la capacità evocativa della parola: essa sottende il senso oltre il significato. E noi tutti temiamo, rifuggiamo il senso, quello vero, quello profondo, quello che ci sprofonda negli abissi sotto i nostri tremebondi piedi. Quello che talvolta va oltre la ragione”. Va letto nella giusta prospettiva, come se fosse un sogno di mezza estate, cogliendo, nella sua composizione erudita e ipertrofica, una sottile e fluttuante vena ironica. Molto dipende dall’aspetto onirico, condiviso con la natura di gran parte delle canzoni di Neil Young di cui è disseminato In principio era il dolore. È un’atmosfera costante e avvolgente, anche se i luoghi sono reali: i chiaroscuri di Milano (“Una città su di una sorta di crinale: da un versante l’affermazione con tutto ciò che essa comporta, dall’altro la sparizione, l’anonimato, la sconfitta”), il bianco accecante delle Alpi, la natura bucolica dell’Inghilterra e quella misteriosa di Stonehenge. In questa mutevole cornice, il principe dell’oscurità è ritratto con tanto di zoccoli, ali e mantello spolverato di zolfo, come se fosse sgusciato da un’illustrazione d’epoca in un’era moderna, scomoda anche per lui. A quest’immagine, ricorrente nel romanzo, corrisponde una moltitudine di citazioni filosofiche, implicite ed esplicite, con cui sono farciti dialoghi e argomentazioni, come se ci fosse una rete di sicurezza determinata dalla ragione, dal pensiero, e dalla consapevolezza che “il mondo reale ci padroneggia, lasciandoci senza illusioni”. Più che un’infinita battaglia tra bene e male, che peraltro restano avviluppati uno all’altro, è l’attrito tra istinto e cognizione, tra pulsione e riflessione, che viene celebrato in una rappresentazione teatrale, con un assiduo moltiplicarsi di prospettive, punti di vista e altrettante voci. In principio era il dolore si snoda così attraverso tanti rapporti come cuciture che si susseguono e si incrociano tra i protagonisti: lo scrittore Fabio Pugno e la moglie Loredana, lei e il suo avvocato, nonché il colto commissario Belletti che osserva come un deus ex machina il sovrapporsi di ruoli in una coltre di ambiguità e di colpi di scena (“Il diavolo che cita Thoreau! Il mondo doveva essere davvero sul procinto di collassare”) che necessariamente vanno scoperti in totale autonomia, essendo la trama comunque fondata sul classico whodunit. Come recita il sottotitolo forse c’è Un Faust di meno, ma senza dubbio c’è una corrispondenza tra Fabio Pugno e Paolo Scardanelli nel comprendere che “il mestiere di scrittore non cessa mai, è una sorta di disposizione d’animo, di tonalità emotiva verso il mondo. Aiuta a guardarsi dentro e a superare la disperazione; così dovrebbe essere, almeno...”. L’incertezza è diabolica, ma non se ne può fare a meno.

mercoledì 23 febbraio 2022

Lorenzo Pezzica, Pietro Spica

Il tratto è sempre generoso, gli occhi sono al centro, e sembrano guardare qualcosa che è invisibile ai più. Un’astrazione, una possibilità, uno spazio, un tempo o “un’altra via”, come dice lo stesso Pietro Spica, da cercare “in direzione ostinata e contraria”. I volti che hanno preso forma sono quelli di cinquanta anarchici, da Alberto Meschi a Virgilia D’Andrea passando, tra gli altri, per Emma Goldman ed Errico Malatesta, Franco Serantini e Gaetano Bresci, Giuseppe Pinelli e Ida Mett, Lucy Parsons e Max Stirner, Nella Giacomelli e Paul Goodman, Pietro Gori e Simone Weil e Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. I ritratti di Pietro Spica compongono, insieme alle sintetiche ed efficaci note biografiche di Lorenzo Pezzica, un “racconto corale di immagini, sogni, canzoni e storie” che comprendono anche alcune riflessioni che suonano e saranno sempre attualissime, anche a distanza di un secolo, come quella di Maria Luisa Bernieri: “La nostra è un’epoca di compromessi, di mezze misure, di male minore. I visionari vengon derisi o disprezzati e gli uomini pratici governano la nostra vita. Non cerchiamo più soluzioni radicali ai mali della società, ma miglioramenti; non cerchiamo più di abolire la guerra, ma di evitarla per un periodo di qualche anno; non cerchiamo di abolire il crimine, ma ci accontentiamo di riforme penali; non tentiamo di abolire la fame, ma fondiamo organizzazioni mondiali di carità”. Scorrono esistenze tragiche come quella di Marija Spiridonova o di Louise Michel, flagellate dalle persecuzioni, vite ormai diventate leggendarie, come quella di Buenaventura Durruti, o molto più prosaiche come quella di Amedeo Bertolo, che però riassumeva l’eresia di tutti protagonisti, “proprio perché libertari, perché rifiutano il principio di autorità in campo culturale e il rapporto di dominio in campo politico e sociale”. Le immagini di Pietro Spica, che hanno un fascino austero e nello stesso tempo elegantissimo, accompagnano così le biografie di Gustav Landauer (“Lo stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso”) o William Godwin (“Ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo”), annodando una dopo l’altra quell’idea che, come rammenta giustamente Pietro Spica, ambisce a unire “il massimo della libertà individuale col massimo della libertà sociale”. Al pittore è dedicato il bel profilo finale a cura di Alice Alessandri che comincia in modo enigmatico (“Pianificare è posticipare e posticipare è l’anagramma paradossale del suo nome”) per poi districarsi nel raccontare l’incontro con l’artista e con l’evaporazione di una galassia variopinta, cosmopolita, inafferrabile, tanto che l’ospite curiosa si chiede: “Va bene, ma allora, piuttosto: cosa c’entra l’arte con l’anarchia? Affiora il sospetto che la risposta abbia qualcosa a che fare con quella faccenda adorniana dell’immaginare un mondo possibile, diverso dal mondo reale”. Sì, lo sguardo, il suo come quello dei suoi soggetti, porta comunque lì, in un posto che non c’è, e magari non ci sarà mai, ma merita di essere scoperto.

martedì 15 febbraio 2022

Italo Calvino

Più che entrare in una stazione ferroviaria, qui ci si infila in un labirinto. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo, chiamiamolo così, per convenzione, più che altro, che si articola su piani differenti, che non sempre convergono nell’alveo della narrazione, anzi, il più delle volte divergono verso “una struttura accumulativa, modulare, combinatoria”. Il tentativo dello stesso Italo Calvio di spiegarlo, alla fine delle Lezioni americane, non fa che aumentarne il mistero: “Il mio intento era di dare l’essenza del romanzesco concentrandola in dieci inizi di romanzi, che si sviluppano nei modi più diversi in un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata”. Partiamo dal suo nucleo più esposto, lo scrittore e la lettrice avvolti in un legame indissolubile, dato che “l’aspetto in cui l’amplesso e la lettura s’assomigliano di più è che al loro interno s’aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili”. È quel gioco di specchi e di rifrazioni che costituisce la struttura di quello che Calvino chiama “iper-romanzo” dove le parole vengono dirottate su architetture particolari, non sempre intelligibili, perché “il libro è sbriciolato, dissolto, non più ricomponibile, come una duna di sabbia soffiata via dal vento”. Ogni incipit porta in una dimensione parallela, compresa un’ironica versione dell’universo editoriale e letterario in chiave cospirativa, formando una “rete dei possibili” che, di nuovo, al centro ha la lettura intesa come “un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stessa. Il libro è un supporto accessorio o addirittura un pretesto”.  Ecco come Salman Rushdie in Patrie immaginarie ha cercato di interpretarlo senza farsi abbagliare: “Una delle difficoltà dello scrivere su Italo Calvino sta nel fatto che egli ha già detto su se stesso tutto quello che si può dire. Se una notte d’inverno un viaggiatore distilla in un unico volume quella che è forse la caratteristica principale dell’opera di Calvino: il suo genio mutevole, metamorfico per non fare mai due volte la stessa cosa”. È proprio nell’atmosfera evanescente e luminosa di “un’illusione di trasparenza attorno a un nodo di rapporti umani che è quanto di più oscuro, crudele e perverso”, che prende forma una sorta di apologia dello scrittore che Italo Calvino   declina così: “Forse la mia vocazione vera era quella d’autore di apocrifi, nei vari significati del termine: perché scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto; perché la verità che può uscire dalla mia penna è come una scheggia saltata via da un grande macigno per un urto violento e proiettata lontano; perché non c’è certezza fuori dalla falsificazione”. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un miraggio, è un’attesa, è un mosaico “fittamente intessuto di sensazioni”, ma “tutt’a un tratto ti si presenta squarciato da voragini senza fondo, come se la pretesa di rendere la pienezza vitale rivelasse il vuoto che c’è sotto”. È in quel momento lo scrittore, il lettore e Italo Calvino diventano una trinità, e una sola persona perché “lotti coi sogni come con la vita senza senso né forma, cercando un disegno, un percorso che deve pur esserci, come quando si comincia a leggere un libro e non si sa ancora in quale direzione ti porterà. Quello che vorresti è l’aprirsi d’uno spazio e d’un tempo astratti e assoluti in cui muoverti seguendo una traiettoria esatta e tesa; ma quando ti sembra di riuscirci t’accorgi d’essere fermo, bloccato, costretto a ripetere tutto da capo”. Si comprende allora la necessità di ogni avvio, come se Italo Calvino volesse ripristinare da zero, troncando sul nascere qualsiasi deviazione autoindulgente, facendo pulizia nella convinzione che il romanzo ideale “dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d’accumulare storie su storie, senza pretendere d’importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie”. Quel senso di abbandono, di disorientamento avvolge lo scrittore e/o il lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, lo riporta in continuazione all’inizio e non c’è via d’uscita, perché “tanto la conclusione a cui portano tutte le storie è che la vita che uno ha vissuto è una e una sola, uniforme e compatta come una coperta infeltrita dove non si possono separare i fili di cui è intessuta”. Tortuoso, ipnotico, indispensabile.

lunedì 7 febbraio 2022

Nicola Manuppelli

Wendell Berry che risponde solo per lettera. Lo spettro di Willa Cather. Richard Ford che si fa coast to coast in cerca di consiglio. Wallace Stegner che ispira chiunque. Robert Ward che suona, canta e balla. Gli scrittori americani sono “artisti a tutto tondo, con mille curiosità e pieni di vita” ed è uno dei motivi per cui ci piacciono così tanto. L’altro è che conservano un’attitudine da outsider che Domani è un posto enorme illustra con un mood giocoso, scambiando in continuazione il valore delle storie per le persone e delle persone dentro le storie. Prende forma così un’America immaginaria e molto concreta, con insegnanti e allievi, viaggi e peripezie, ospitalità e amicizie, prima tra tutte quella tra Nicola Manuppelli e Chuck Kinder, inserito nell’epicentro di “un gruppo ribelle e creativo che nacque da quei tempi tumultuosi e che perlopiù, eccetto Ray Carver, venne trascurato dai burocrati di New York”. Cominciamo proprio con Raymond Carver e Chuck Kinder, che tra loro “amavano parlare di letteratura, bere, fare festa, dirsi bugie sempre più grosse e tirare l’alba, fare della loro vita un racconto e dei loro racconti la propria vita”. Non ci sono liturgie editoriali, agenti, diritti, avvocati: qui c’è l’entusiasmo contagioso per la scrittura e la lettura (che vanno sempre insieme), per le storie e le poesie, e se serve i libri si pagano da sé. È una “festa mobile” che si riproduce in continuazione: gli aneddoti sono divertenti, anche quando sono tristi (perché qualcuno se ne va troppo presto), sono stravaganti, come è giusto che sia, e rocamboleschi. Sembra di essere lì, qualcosa è realtà, qualcosa è leggenda, ma come dice Chuck Kinder in person “non lasciare che la verità intralci una buona storia”. Quella che gli ruota attorno è una sorta di comunità non dichiarata, non ufficiale, che fluttua di romanzo in romanzo, di party in party. Porzioni di realtà e narrativa che si compongono come in un drink che si rispetti, ma l’atmosfera gioviale e divertita non deve trarre in inganno:  Domani è un posto enorme condivide una visione volitiva della letteratura in tutte le sue declinazioni, persino nelle difficoltà (che non sono poche), tanto che pare spontaneo tracciare un interessante parallelo tra sua maestà dissoluta Fitzgerald e Chuck Kinder che condividono “la passione per le luci, per l’acqua, per una letteratura che è fatta di sensi; un certo approccio epicureo all’esistenza. E ovviamente l’alcol. E poi le donne e le belle automobili. E i sogni d’estate. E un’insana attrazione verso il mondo sotterraneo della criminalità e degli spacci clandestini. L’amore per la scrittura, in fondo. E, su tutto, una continua riflessione sul tempo che passa e in fantasmi di cui siamo circondati, i fantasmi delle possibilità passate, presenti e future”. Per rendere l’idea dell’atmosfera di quell’habitat, Nicola Manuppelli dice che “ricorda quello dell’album Time Out of Mind di Bob Dylan, dove figure dei tempi andati si ritrovano a ballare in una dimensione fuori dal tempo con personaggi di oggi e di domani”, e non è un caso che le sue canzoni permeassero Wonder Boys, il film tratto dal romanzo di Michael Chabon, con parecchie affinità al lifestyle di Chuck Kinder e compagnia bella. E questo perché “tutti noi siamo infestati da ricordi e fantasmi di persone passate, perché sono la nostra memoria, le nostre radici. Per far sì che il nostro edificio sia saldo dobbiamo inchiodare il più possibile queste radici a terra”. Delineando la personalità di Chuck Kinder e per estensione dello scrittore in generale, Nicola Manupelli lo paragona a un mago che “non disprezza la realtà. La trasforma nel modo in cui gli sembra più bella. Se la realtà ha dei vincoli, semplicemente li tralascia, se ne dimentica. Crea il mondo”. È così che Domani è un posto enorme si propaga a ondate e coinvolge elenchi di scrittori e romanzi e poesie che Nicola Manuppelli dispensa con grande generosità: qui ci abbastanza indicazioni da riempire le collane di uno o due editori, e consigli di lettura sufficienti per una vita. Fatevi avanti.

lunedì 31 gennaio 2022

Laura Carroli

Il primo giugno 1980 i Clash suonano in piazza Maggiore a Bologna, ma in città è già maturata un’esperienza che predilige piuttosto i Crass, seguendo l’idea che “il punk è un vulcano in piena attività e sta eruttando lapilli e lava, cambia continuamente la geografia del paesaggio”. Laura Carroli, protagonista assoluta e indiscutibile di Schiavi nella città più libera del mondo, racconta di anni temerari e coraggiosi, di come ha scelto, perché si tratta di scegliere, di “affrontare un sistema di soprusi, dalla famiglia alla scuola al lavoro”, attraverso la curiosità, la creatività, la sensibilità (politica e non) che è andata scontrandosi con un paese provinciale, gretto, farraginoso, cupo e brutale nelle sue trame più o meno segrete e nell’ostentazione della morale e della retorica. Laura Carroli, poco più che adolescente, lo dice senza esitazione: “Io invece mi sento sveglia, pronta e ricettiva, mentre l’Italia intera mi sembrava addormentata, indietro e ignorante, come la gente che ci guarda con quell’aria di stupore e meraviglia come una vissuta da sempre nella caverna di Platone. Noi ci sentiamo fuori da quella maledetta caverna e andiamo incontro alla luce”. Tutto scritto al presente perché il presente è tutto: il racconto è immediato, senza filtri, sincopato ed effervescente, punteggiato da aneddoti, appunti di viaggio epici (Londra, la meta ricorrente) e comprensivo dello sforzo continuo di sopportare un lavoro in posta che garantisce un minimo di indipendenza e l’urgenza della comunicazione e del costruire qualcosa di unico e originale.  Mentre gli altri vestono firmati (Timberland, Moncler e Ray-Ban, come se fossero gadget pubblicitari viventi e ambulanti), i punk trasformano gli abiti, strappano e cuciono, riciclano e risparmiano in anticipo di decenni sulla sostenibilità e sull’economia circolare. Laura Carroli ricorda e descrive con singolare afflato l’applicazione rigorosa del do it yourself, dalle punkzine all’organizzazione dei concerti (sempre un casino), che si scontra con l’ortodossia dei partiti, ma che si rivela l’arma in più per crescere da soli, in pubblico. In un volantino dedicato a Lou Reed, lei e il suo gruppo scrivono: “Noi siamo la gioventù inappagata, quelli i cui gesti nessuno comprende. Per quanto si sforzino di catturarci attraverso dolci profumati, nessuno tocca il nostro punto debole o non vuole, perché sarebbe l’inizio di una sommossa più ampia. Noi siamo la gioventù che sputa sul brodo grasso, che nessuno accalappia. Le cose che desideriamo noi le cerchiamo senza aspettare che da un pulpito uno psicologo/psichiatra/consulente della giunta comunale, trovi il modo di darcele, perché noi sputiamo il succhiotto per metterci a strillare”. Questo autoritratto degli Schiavi nella città più libera del mondo è solo un piccolo riassunto di un’operazione a cuore aperto, senza censure, che vede Laura Carroli dispiegare tormenti, gioie, delusioni, sofferenze: “Mi sento una bambina che non vuole crescere, voglio rimanere sempre giovane, ma le circostanze mi obbligano a prendere delle responsabilità, cerco di scappare ma non davanti ai miei sogni, per i quali sono disposta ad affrontare grandi difficoltà”. Va messo in conto il complesso legame con Jumpy, la creazione dei RAF Punk e dell’Attack Punk Records, etichetta discografica autogestita e alternativa, la vocazione internazionale perché “le idee ci sono, ora si tratta di realizzarle. Bologna nel suo vuoto può diventare un buco nero e attrarre altri come noi”. La musica, la politica, l’amicizia, il sesso, una voglia di vivere fuori dagli schemi trovano nel punk “un tempo veloce, un segno del ritmo accelerato a cui sarebbero seguiti i futuri movimenti. Non era un fiume ma un torrente in piena sul quale ho cercato di navigare mantenendo la rotta senza farmi travolgere”. Ed è così che gli Schiavi nella città più libera del mondo sapranno esprimersi in modo compiuto come scrive Massimo Pirotta nell’introduzione: “La critica radicale alla società fu parte integrante del lavoro culturale dei fondatori dell’Attack Punk, proprio per questo riuscirono a captare i pochi sussulti non allineati di quel periodo e porre l’accento sulle idee che si stavano sviluppando nell’underground”. Verissimo e, non a caso, il finale, per Laura Carroli, è agrodolce, ma coerente con una storia che è davvero punk a tutto tondo. Ammette candidamente che quando l’Attack “aveva infilato un piede nel circuito commerciale, bisognava spingersi dentro con tutto il proprio peso per entrare, ed è allora che ho cominciato a tirarmi indietro”. Come avrebbe detto Joe Strummer, battendosi il petto: viene dal cuore, e si sente.