mercoledì 25 gennaio 2023

Primo Levi

Dove finisce Se questo è un uomo comincia La tregua, che è la descrizione minuziosa dei giorni dalla liberazione dal campo di concentramento al ritorno a casa. Il tragitto è un’altra pagina drammatica perché Primo Levi e i suoi compagni di viaggio vengono prima abbandonati a se stessi, e poi si ritrovano nelle fitte maglie della burocrazia sovietica che li trasporta in mezza Europa. Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria, Austria, Germania: verso sud e poi verso nord, da ovest a est, e viceversa, le tappe sono estenuanti come se il lager avesse inseguito Primo Levi con tutti i suoi fantasmi. Vede La tregua come “un racconto intessuto di albe gelide”, ed è scrupoloso nell’elencare ogni attimo, senza farsi sfuggire nulla, in modo da consegnare alla memoria un quadro completo, definitivo ed esauriente, comprensivo delle sofferenze, del coraggio, delle privazioni e della dignità con cui sono state sopportate, soprattutto nel momento in cui la speranza era di nuovo all’orizzonte. La tregua spiega con grande accuratezza quel passaggio, velato da un’ombra indicibile: “Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti”. Le condizioni restano estreme: fame, freddo, fatica e, più di tutto, l’incertezza sottolineano il tragitto per tornare a casa, lungo un percorso che segue le frontiere d’oriente, lungo ferrovie disordinate e scardinate. Una sfiancante attesa in cerca della giusta direzione per “la lontanissima libertà” che arriva con estrema lentezza, e altrettanta, sovrumana pazienza. A distinguere La tregua è il dipanarsi di una lunga teoria di incontri, con personaggi (tra gli altri Cesare, Leonardo, Mordo Nahum, il greco, Gottlieb, Cravero, Velletrano, Giacomantonio, Flora) a condividere giorni di stenti e privazioni, di precarietà e di abulia. Primo Levi annota i commerci, la prostituzione, le continue trattative per un pezzo di pane, per un pesce, per una gavetta di latte, lo stupore nel ritrovarsi al cinema o a teatro, ma riesce sempre a collocare al centro l’individuo e la sua personalità, nonostante il buio e l’angoscia che lo circonda: “È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l’universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia”. La sua posizione resta quella di un testimone partecipe, coinvolto, lucidissimo nell’orientarsi e nell’osservare la mutazione che impongono le incognite: “Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, e anche so di averlo sempre saputo”. Il valore inestimabile di Se questo è un uomo si accorda a quello che aggiunge La tregua che, fino in fondo, nega ogni retorica, quando Primo Levi riflette che “forse, quanto è avvenuto, non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: comprendere un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui”. Sì, una distinzione, anche nell’esercizio della memoria, va fatta.

giovedì 19 gennaio 2023

Bruno Segalini

Se si prende un sogno e lo si accosta alla piccola, complessa e bizantina realtà dell’Italia si ottiene una reazione chimica dagli effetti imprevedibili, giusto una miscela composta in parti uguali di comicità (il più delle volte, involontaria) e malinconia. È quello che succede agli amici della Flowers, una compagnia cinematografica indipendente, quando decidono di lasciare Milano per un’incognita trasferta sulla riviera ligure. Il miraggio è un film, la regia è tutta da inventare e la storia è ruspante e allegra, anche se, come dice lo stesso Bruno Segalini Pamela è stato ispirato “dalla rabbia e dalla frustrazione dei giovani che ho incontrato dopo aver scritto Fiamme e rock’n’roll. Questo romanzo è il tentativo di incanalarla e trasformarla in una possibile ipotesi alle loro giuste istanze. Pamela, che come Libero ho davvero conosciuto nel suo bar LGTB, è stata invece la persona capace di stimolarmi ad immaginare le dinamiche della storia e a scegliere di ambientarle in un piccolo paese, luogo in cui le storture economiche, politiche e sociali del nostro tempo potevano affiorare con ancora maggiore chiarezza. E, soprattutto, avendo la sua reale condizione di esclusa dalla società parecchie analogie con quella delle nuove generazioni di cui i quattro soci della Flowers fanno parte, mi ha regalato il divertimento di poter unire i loro destini in una rocambolesca e comune avventura”. Il film a cui lavorano i protagonisti di Pamela è proiettato in un futuro distopico (e qui c’è qualcosa in comune con Una violenta contrazione), ma avendo rifiutato un corposo budget da una multinazionale che, neanche a dirlo, pretendeva un cambio copernicano della struttura del progetto, gli amici della Flowers si trasferiscono un po’ alla volta a Demetra, un’immaginaria cittadina ligure abitata da cento persone. È luogo un po’ decadente, con hotel in disuso e molte porte chiuse, un microcosmo di provincia dove tutti sanno tutto, ma dove Libero, la principale voce narrante di Pamela dice: “Mi sentivo felice, come quando trovo la soluzione giusta per un montato e non vedo l’ora di metterla in pratica. La differenza sta nel fatto che, in questo caso, non si tratta di strutturare un film, bensì la nostra vita”. Gli intrecci con la politica locale (e non) metteranno a dura prova l’anima punk dei soci della Flowers e l’idea di ingannare il destino con le loro colorite soluzioni do it yourself si scontrerà con tutta la gamma di italico provincialismo, dalle ambiguità degli amministratori pubblici alle connivenze delinquenziali fino alle frustrazioni della burocrazia. Senza infierire, perché il tono resta informale e accattivante, a partire dai tratti gergali e dialettali, che infondono a Pamela i tratti genuini dell’autenticità. Una costruzione del linguaggio spiegata così da Bruno Segalini: “Più che altro si tratta di una scelta narrativa, utile a sottolineare la distanza che separa mondi contemporanei e, allo stesso tempo, lontanissimi tra loro: la provincia e la metropoli. Inoltre, conoscendo bene i contesti caratterizzati da questi tipici modi di esprimersi, non ho fatto una gran fatica. Da tanti anni lavoro come editor video e, dopo aver vagato lungo lo stivale con una chitarra elettrica appesa al collo, ho vissuto in Liguria per un discreto periodo. In piccoli paesi, molto simili a Demetra”. L’atmosfera generale è quella agrodolce della commedia e Pamela, seguendo i tratti picareschi dei suoi personaggi, lascia fiorire un sottotesto di valori (amicizia e solidarietà su tutti) che si scontrano con la realtà dell’indifferenza, dell’opportunismo, della corruzione. Il finale concede la giusta passerella a Pamela che si assicura il coup de grace, ma arrivati a questo punto, vale la pena scoprirselo da soli.