giovedì 27 dicembre 2018

Moicana

Moltissimi anni fa in uno dei tanti convegni istituzionali, chiamato Bande giovanili, un gruppo di ragazzi fece irruzione e con un’azione molto punk si lacerò la pelle con le lamette e sparse il proprio sangue sul regolamentare tavolo della presidenza. Il senso era esplicito: volete analizzarci? Ecco, cominciate da qui. Ne è passata di acqua nei Navigli, Milano si è trasformata (non più del tanto) e quei personaggi bizzarri oltre a imparare, come direbbe Woody Allen, che il sangue è meglio che stia al suo posto, sono cresciuti, si sono moltiplicati e, pur non avendo perso di un filo il coraggio dell’epoca, hanno coltivato altri modi di comunicare, oltre alla (necessaria) provocazione. Università della strada è il primo risultato di Moicana, un nome collettivo dedicato “nuove forme di aggregazione spontanea spontanea in contrapposizione al dominante, qualunque esso sia; proprio come lo furono i nativi americani”, ma che non può non ricordare le creste dei punk. Più dell’università, conta la strada perché come scrive Ferruccio Cappelli “il volume, nell’insieme, aiuta a ricostruire un quadro di come si è evoluto il clima culturale della città negli ultimi cinquant’anni: le grandi fratture sociali e politiche di questo mezzo secolo sono state accompagnate da altrettante scansioni culturali. L’underground, ci suggerisce il libro, ha probabilmente anticipato questi bruschi sommovimenti: lo ha fatto negli anni della speranza, ma anche quando gli orizzonti hanno cominciato a rinchiudersi”. Milano è una città ambivalente, capace di lasciare spazi enormi, ma anche di ripararsi in un ottuso provincialismo, fatto più che altro di apparenza e ipocrisia. È su quel territorio che i fermenti controculturali hanno avuto una visione molto più ampia, verrebbe da dire metropolitana, di sicuro più fantasiosa ed eccentrica. Come scrive l’antropologo Andrea Staid in Controculture, resistenza e capacità abitative informali, “questi movimenti di lotta modificando la città vetrina con dei processi di mutazione culturale, portano a una revisione molto interessante dell’abitare urbano: quasi una forma di eterotopia, non un’utopia inarrivabile, ma realtà diverse create e custodite ogni giorno. È importante non smettere di pensare all’avvenire ma è altrettanto importante darsi da fare nel qui ed ora, creare degli esempi e sperimentare come vivere in un modo diverso, dove l’abitare smetta di essere qualcosa che ha a che fare con la merce, la solitudine, la chiusura e la proprietà privata”. Si va da Addio a Barbonia City (siamo nel 1967) dedicata all’esperienza beat in via Ripamonti, “una breve estate di tentativi di amore e di rivolta” come li chiama Gianni De Martino in un’area dove l’ingenua tendopoli dei nostrani beatnik venne poi sepolta dalla speculazione edilizia. È anche il periodo in cui prendono forma L’inquieta repubblica popolare di Brera nella vivida descrizione di Matteo Guarnaccia e le prime avvisaglie del Femminismo raccontate puntualmente da Lea Melandri. Il decennio successivo sarà ancora più movimentato, con i suoi festival, riportati da Eugenio Finardi e Filippo Del Corno e Gianfranco Manfredi e le coraggiose innovazioni, dalla psichiatria al teatro, all’arte in generale. L’avvento del punk genera un’onda lunghissima che spinge mezzo secolo di controculture fino a oggi: si parla di fanzine, di occupazioni, di cultura digitale, di rap e di rave, di poesia e di boxe. Tutto autoprodotto, indipendente e brillante di luce propria nel narrare i Repentini cambi di stagione, come li chiama Massimo Pirotta, intrisi fino al midollo di grande musica, in un arco ideale che va dal 1964 di The Times Are a Changin’ di Bob Dylan al 1991 di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana.

Andrea Berrini

Editore per caso (ma con cognizione di causa: “Pubblico i libri che mi piacciono: i libri che vorrei essere capace di scrivere”), scrittore per vocazione, viaggiatore per altre ragioni professionali (si occupa di microcredito), Andrea Berrini rimane affascinato dal repentino sviluppo delle metropoli asiatiche e dal proliferare di nuovi narratori orientali. Dall’idea di una collana editoriale apposita, nasce il marchio Metropoli d’Asia, che Andrea Berrini dirige seguendo il modello di un’antica scuola: incontra e segue gli Scrittori dalle metropoli, vive con loro, si confronta e si scontra. Un’avventura singolare e cosmopolita che deve fare i conti con la censura nella Pechino di Ou Ning e Zhu Wen, con le estreme contraddizioni dell’India di Annie Zaidi e Ambarish Satwick e con i labirinti dell’allucinante Singapore di Fong Hoe Fang. Per quanto informale e scorrevole, il racconto di Scrittori dalle metropoli è curioso e ricco di suggestioni, e non solo letterarie: è tra le ombre di quelle metropoli che s’intravede il futuro perché “le città non sono ambiente proprio ai ai suoi abitanti, non c’è niente di immobile, non c’è un posto all’aperto dove sia possibile fermarsi. Sempre in via di ristrutturazione ogni  strada, ogni palazzo ha il suo punto di sventramento, e per mantenere l’orientamento dentro un paesaggio indistinguibile non si può far altro che lasciarsi andare, dirigendo i propri sensi verso le persone: sentire attorno a sé la folla in movimento che diventa il mare in cui si galleggia, la protezione di una città-natura eccessivamente ostile. Corpi che in quei momenti accolgono”. Nei meandri di Pechino, Singapore, New Dehli o Mumbai Andrea Berrini conosce, intervista, discute e si muove come “un uomo senza patria” e, per dirla con Kurt Vonnegut, citato in epigrafe, sa benissimo che “siamo qui sulla terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti”. È vero, così come è altrettanto sensato pensare che le avventure con gli Scrittori dalle metropoli rappresentino per Andrea Berrini qualcosa di più, e di diverso, come ammette nell’introduzione: “Per decenni mi son sentito appiccicata addosso una passione (una coazione a capire) per le società, i ceti, la politica, le relazioni tra gruppi umani. Ora davanti a me si apriva un mondo nuovo, in pieno movimento, sul quale provavo un inderogabile bisogno di far luce: ricominciare a ragionare, uscire dalla palude di un’Italia che, immota sulla via, ripeteva il suo verso”. Là fuori c’è un universo che fluttua, a tratti inarrivabile per la distanza, le sottili asprezze linguistiche, gli usi e costumi ancestrali che si mescolano con l’impetuoso avanzare della tecnologia, svelando paesaggi e immaginari ballardiani. Gli appunti dei viaggi, gli aneddoti, i dialoghi raccolti da Andrea Berrini sono il tentativo di assolvere al compito dell’invenzione della realtà, svolto con assidua partecipazione e persino con garbo nel chiedere “chi sono gli scrittori capaci di raccontare questa città che muta? E di esplorare al di là del proprio orizzonte sociale, abbassando lo sguardo da uno status di privilegio?”. La domanda non resta inevasa: per gli Scrittori dalle metropoli superare i confini, è qualcosa in più di una parola d’ordine.

domenica 16 dicembre 2018

Guido Oldani

A seconda di come lo si usa, il lardo può essere la parte più pregiata della carne del maiale, così come surplus, grasso, abbondanza in eccesso. Vale anche per la poesia di Guido Oldani: è sottile, eppure densa e saporita proprio come il lardo, e intensamente radicata alla terra di Lombardia, alla nebbia e a piatti e “manicaretti” assurdi (memorabili, in questo senso, i versi dedicati alle rane fritte), ma è anche una poesia “civile” nel senso che non gli sfugge niente e nessuna delle brutture del mondo e le rinchiude in cornici fatte di una lingua preziosa e ricercata. Delle speculazione edilizie, una devastazione che ha violentato il paesaggio della pianura nell’indifferenza generale scrive: “Il suolo a vista, pare una minestra, e l’aria vi galleggia come il grasso, sul brodo disadattato per la dieta, questo è un paesaggio alla fin fine, con anche capannoni e residenze, sembrano seni e pubi, giustapposti, e l’assessore è il mostro di Firenze”. Versi che sarebbero piaciuti molto a Italo Calvino: nella loro “leggerezza”, gli haiku di Guido Oldani non lasciano nulla al caso. La sua poesia ha un rigore particolareggiato e a tratti bizzarro perché sotto il suo cielo (di lardo, di nebbia, di terra e di pane) “i poliziotti arrestano i buoni”, e ai cattivi, se proprio vogliono pentirsi “basta soltanto, defecare il cuore” tanto, e del resto, nonostante “un fango nero che dilaga”, non c’è da preoccuparsi: “in copertina il titolo è fatale, almeno fin che è sorto il giorno dopo, o addirittura il suo contrario vale”. Il poeta perdonerà il traffico caotico di “borborigmi”, usati a scansioni irregolari per rendere l’idea di una poesia non facile se letta, magari in cerca di un significato che non ha, ma irresistibile se “ascoltata” nel suo ritmo. E’ un borbottio di sillabe che ha tutta una sua musicalità un po’ ciondolante, mai invadente e sempre fragrante, proprio come una fettina di lardo su una crosta di pane calda o come un cielo nell’inverno della pianura, un luogo dove ormai le parole vanno colte caso per caso, quasi cercando un rammendo a zig zag, in modo furtivo perché tutto quello che viene concesso è  “il silenzio come fa la carpa” (che, guarda caso, è un pesce da fondale, sporco e grasso). Invece il poeta resta in piedi e, davanti alle sue parole, che si stagliano, come se fossero moniti, segnali, presagi e, per certi versi, persino rivendicazioni, quando Guido Oldani avverte: “Sto in mezzo al popolino dei neroni che è saltellante cui carboni accesi e siamo mezzo illesi se va bene. E mentre cresce il bosco in scandinavia qui lo arde chi è palazzinaro, e noi che siamo anche gente savia usiamo la nazione per fornello che bolle il mare d’acqua già salata: per cuocerci l’eterna spaghettata”. Lo stile si riconosce a distanza, la verve polemica va di pari passo con la ricercatezza linguistica che spiazza, disorienta, confonde, ma celato nel suo eccentrico glossario c’è una voce singolare e autorevole che rende Il cielo di lardo un piccolo gioiello di vera libertà (non solo poetica, non soltanto culturale).

giovedì 6 dicembre 2018

Angelo Del Boca

In tempi in cui l’Italia, o almeno le parti essenziali del dibattito pubblico, è ridotta al vociare di un’osteria (con tutto il rispetto per le osterie) questo lavoro collettivo guidato da Angelo Del Boca traccia una sorta di punto di non ritorno. Negli ultimi anni il revisionismo storico ha trovato nel nostro paese, e su tutti i fronti, un’inaspettata fortuna editoriale e commerciale e parecchie sponde politiche, non del tutto disinteressate (anzi). Per cui è diventato gioco facile ribaltare verità storiche consolidate e documentate opponendo il ritorno all’infallibile certezza dei luoghi comuni, alle polemiche gratuite e alla rissa continua dei talk show. Utile a generare ampie zone grigie in cui la storia viene negata ad uso e consumo di questa e/o quella posizione politica (se non proprio governativa) e delle utilità di mercato. Il punto di partenza del libro non è che il revisionismo sia negativo in modo assoluto. Anzi, le riletture e gli approfondimenti storici sono indispensabili al confronto e alla maturazione di un’opinione pubblico. È l’uso “politico” della storia a generare aberrazioni pericolose e a condurre il revisionismo su un binario parallelo al trasformismo, dove si può dire quel che si vuole, senza eccezioni di sorta. Come dice con chiarezza Angelo Del Boca nell’introduzione “l’uso politico della storia, che nulla ha a che fare con la ricerca storiografica, non ha risparmiato nessuna delle grandi questioni della nostra storia nazionale”. Partendo da questo appunto, Giovanni De Luna propone un’analisi ancora più stringente sulle caratteristiche del revisionismo nostrano: “Esiste infatti un’intrinseca affinità concettuale tra il revisionismo e l’universo mediatico, la fame di notizie, di novità, di rivelazioni clamorose, ad esempio, costringe i giornali a inseguire con accanimento quasi maniacale le revisioni, le demolizioni delle vulgate tradizionali, le scorrerie scandalistiche nel nostro passato. Il revisionismo è esattamente questo, un fenomeno essenzialmente mediatico, che ha avuto un fortissimo impatto sul mondo della politica, ma una ricaduta pressocché nulla sul piano della ricerca e degli studi storici, un fenomeno che in questo senso ha consentito ai suoi esponenti di maggior spicco di conseguire risultati sul piano della propria visibilità pubblica, senza incidere molto, invece, sui processi di comunicazione e di elaborazione che nutrono oggi la comunità degli storici”. La “storia negata” affronta un secolo di vita italiana in densi capitoli che cercano di mettere ordine tra i luoghi comuni e le idiosincrasie del revisionismo (e in parecchi casi del negazionismo) leggendo e rileggendo il processo di unificazione nazionale, l’espansione coloniale (dove viene fatto a pezzi l’assunto degli italiani “brava gente”), la seconda guerra mondiale e la Shoah, la Resistenza e la costituzione. A parte i temi specifici, qui trattati in sintesi ma con un minimo di rigore storiografico, il nucleo essenziale sta proprio nell’evidenziare il carattere aleatorio di un certo revisionismo, come sottolinea con puntualità Lucia Ceci: “C’è poi una questione ulteriore, forse meno evidente, ma centrale per la storia come disciplina scientifica e per la costruzione di un corretto senso comune: estremizzando in modo radicale una lettura manichea del passato si risolve il sapere storico in interpretazione soggettiva, in cui non c’è una verità legata al rapporto con il documento che può verificarla o falsificarla, ma tutto è ricondotto a opinione, lettura particolare. Oltre a diffondere informazioni e letture infondate sul piano documentario una tale produzione editoriale, con il decisivo veicolo dei media, rischia insomma di trasformare, agli occhi del grande pubblico, la storia in un insieme indistinto di interpretazioni del passato, tutte con uguale diritto di cittadinanza”. Ha quindi ragioni da vendere Angelo Del Boca quando di fronte alle tante capriole di vecchi e nuovi revisionisti dice: “Conservo qualche dubbio”. Anche noi.

lunedì 3 dicembre 2018

Cesare Pavese

Il mestiere di vivere è qualcosa di insolito e di diverso: forse è proprio “un ricco racconto di rapporti che equivalga abilmente a un giudizio di valore”, eppure nello stesso tempo è anche l’espressione di un Pavese intimo, spregiudicato e risoluto nella convinzione che “la vita non è ricerca di esperienza, ma di se stessi”. È frutto di un dialogo continuo, serrato, un flusso ininterrotto e inarrestabile di riflessioni, “contemplazioni”, meditazioni, “esami di coscienza”, analisi di fine anno, aforismi, pensieri in libertà, con l’assillo ricorrente del suicidio, riportato con l’intero conteggio dei tentativi. È l’espressione della “filosofia delle proprie attitudini”, che si traduce inpagine che si scrivono da sole. Pavese le osserva quasi divertito mentre prendono forma: “Ho davanti un complesso ritmico, pieno di colori, di passaggi, di scatti e di distensioni, dove i vari momenti di scoperta, di passo avanti, i nuclei, insomma, si scambiano, s’illuminano, perennemente attivati dal sangue ritmico che scorre dappertutto. Ci fumo sopra e tento di pensare ad altro, ma sorrido stimolato dal segreto”. Anche nella sua ricca genesi, non è (solo) una raccolta, un assemblaggio, un work in progress: Pavese concepisce Il mestiere di vivere nel dettaglio scegliendo proprio quello che definisce doveroso, ovvero  “un nuovo punto di partenza. Essendosi la mente abituata a un certo meccanismo di creazione, è necessario uno sforzo altrettanto meccanico per uscirne e sostituire ai monotoni frutti spirituali, che si riproducono, un nuovo frutto che sappia di ignoto, di innesto inaudito”. Un lavoro che comincia mentre è al confino ricordando che “eravamo nobilmente disinteressati, cordialmente alteri, gentili e sorridenti, simpaticamente duri”, come scrive tra i Pensieri cassati del giugno 1938 e via via prosegue, annotando nel marzo 1945, come “alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige solo nell’anima”. Con tutta l’energia e la forza della sua continua introspezione, Il mestiere di vivere diventa il compendio dei tentativi di Pavese di individuare uno schema nell’esistenza: “Ciò che s’impara nella vita, ciò che si può insegnare, è la tecnica del passaggio alla consapevolezza, che diventa così la semplice forma della nostra natura”. È naturalmente una logica del tutto personale, un diario che però diventa, per quanto indefinito, un romanzo scritto con il cuore, spesso un cuore di tenebra, comunque sincero fino all’autolesionismo. Il mestiere di vivere è una rappresentazione insieme fedele e dettagliata dell’esperienza vitale di Cesare Pavese, fatta di ritmo, ritmo quotidiano e ritmo letterario, una ricostruzione della cognizione del tempo, dei fatti, dei gesti, che si evolve nella certezza che “noi abbiamo orrore di tutto ciò che è incomposto, eteroclito, accidentale, e cerchiamo, anche materialmente, di limitarci, di darci una cornice, d’insistere su una conclusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà. Non abbiamo nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Sappiamo che il più sicuro, e più rapido, modo di stupirci, è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà, miracoloso, di non averlo mai visto”. Lo sguardo di Pavese è l’espressione continua di un’immensa solitudine, altrimenti considerata “l’arte di essere solo”, che non viene né nascosta né mitigata in alcun modo. Sa che “niente va perduto. Il disagio, il disgusto, l’angoscia acquistano ricchezza nel ricordo. La vita è più grande e piena di quanto sappiamo”, ma come se fosse stato interrogato dal suo riflesso risponde senza esitazioni: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo”. Quello che Il mestiere di scrivere salva è la certezza che “la letteratura è una difesa contro le offese della vita”, un pensiero che trova la sua logica estensione quando Pavese dice che “leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra, che già viviamo, e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Si ritorna sempre lì, dunque, e le ultime considerazioni di Pavese suonano come avvertimenti perché Il mestiere di vivere resta complicato e “per esprimere la vita, non solo bisogna rinunciare a molte cose, ma avere il coraggio di tacere questa rinuncia”. È il preludio alla resa di Cesare Pavese, quando si accorge di essere arrivato al punto in cui “avendo rinunciato a tutto, giganteggiano le piccole cose che ancora ci restano”. L’uso della prima persona plurale è un diversivo, l’ultimo riscontro è che “aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile”, riepilogo lapidario del mestiere di vivere, e di scrivere.

domenica 2 dicembre 2018

Tina Merlin

Il lavoro di Tina Merlin è imponente e supera di gran lunga l’aspetto giornalistico. Diventa un segmento ineluttabile della storia italiana. Guardando crescere la diga del Vajont, Tina Merlin ha visto il futuro conoscendo il passato delle valli, della montagna, dei torrenti e del fiume, ma soprattutto attingendo alle storie delle persone e non perde tempo visto che già nell’introduzione scrive come “il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva”. Il suo non è un vago atto d’accusa ideologico. Sulla pelle viva raccoglie nomi e cognomi, firme sugli atti (o, più spesso, omissioni), corrispondenze e valutazioni tecniche e i dati sono tutti documentati con un lavoro di ricerca assiduo: Tina Merlin vive l’intuizione di assistere a come si costruisce una catastrofe, ma parte da valutazioni più concrete dello stesso cemento armato di cui è costruita la diga. È il destino della gente di Erto e Casso, che viene sfrattata, espropriata, privata della libertà di muoversi sulla propria terra in nome della diga e dentro l’intrigo tra iniziativa privata e stato, il silenzio dei ministeri, le cene e le omissioni, la trascuratezza degli organi di informazione. La solita Italia provinciale e benpensante che si rivela assoggettata al potere, quale che sia la forma assunta e che Tina Merlin scopre quanto sia inadeguata di fronte alle sfide della modernità di cui la diga del Vajont non è soltanto un simbolo architettonico, un monumento eclatante e visibile a distanza. È una componente essenziale dell’elettrificazione nazionale ed è lì che i privati fiutano l’affare sfruttando al massimo, in nome della “pubblica utilità”, le possibilità di profitto. Con il disprezzo dell’ambiente, degli abitanti, dell’idea stessa della “pubblica utilità”. Tina Merlin è incalzante, lo sente Sulla pelle viva, e partecipa in prima persona con i suoi articoli tutta l’angosciosa attesa. C’è una montagna che sta “camminando” e tra le numerose avvisaglie riporta un disperato telegramma del sindaco del 22 luglio 1963 alla prefettura di Udine evidenzia “inspiegabili acque torbide lago, continui boati et tremiti terreno comunale”. Non ottiene alcuna risposta, i lavori continuano indifferenti alle scosse telluriche, alle sollecitazioni e ai segnali che arrivano da tutte le postazioni sul monte Toc. Tina Merlin indica già le responsabilità ricordando come “uno stato onesto verso i suoi cittadini non avrebbe dovuto prendere in consegna un impianto avariato come quello del Vajont che non è ancora giunto, proprio per questo, alla fase di collaudo e quindi alla certezza del suo buon funzionamento. Probabilmente in nessun altro posto del mondo ciò sarebbe accaduto se non, come in Italia, per complicità e corruzione politica”. Sarà per quello che i funzionari (pubblici e privati) si permettono di andare “in ferie” o di farsi trovare “indisposti”, come se avessero voluto prendere le distanze dall’incombente realtà, ma “nella grande anormalità del tutto, che dura ormai da tre anni, le anormalità del presente non sono che la tragica fine dell’errato inizio”. Scaduto il tempo, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, ciò che era prevedibile divenne inevitabile. A Tina Merlin, oltre al dolore e al rimpianto di  non essere stata ascoltata, rimaneva una denuncia. Il tribunale l’assolse con formula piena con la seguente motivazione: “l’autrice dell’articolo, legittimamente usando del diritto di cronaca, si è limitata a rendere le notizie e le impressioni da lei raccolte nel corso della sua inchiesta, e a riportare uno stato d’animo di preoccupazione e ansia che era largamente diffuso tra gli abitanti di Erto e che trovava la sua giustificazione nelle circostanze come acclarate in causa”. La traduzione dal linguaggio giudiziario è semplice: aveva ragione a ripetere gli allarmi. Dopo, la diga restò in piedi, ormai un triste monolite, e sulle montagne e nella valle non vi fu più differenza tra vivi e morti.

mercoledì 28 novembre 2018

Fabio Cerbone

L’ascesa e la caduta di una delle figure più emblematiche del ventesimo secolo riletta attraverso l’ottica dell’iconografia pop: Ronald Reagan, un personaggio nato e cresciuto attraverso il cinema e la televisione, diventa il presidente degli Stati Uniti d’America e impone un nuovo modello di comunicazione e di politica, ormai diventati degli standard non privi di contraddizioni e con parecchi lati oscuri ancora irrisolti. Ormai consegnato alla storia da un funerale che ha riunito l’America con tutta la prosopopea e la retorica possibili, Ronald Reagan è stato senza ombra di dubbio uno dei personaggi che più hanno inciso nelle vicende del ventesimo secolo. La sua metamorfosi, da uomo di spettacolo a navigato politico, ha ancora oggi dell’incredibile se non si conosce una delle fonti primarie su cui si basa la cultura e la vita americana: “L’America non respinge il passato, o ciò che il passato ha prodotto nelle sue varie forme, o tra altre politiche, l’idea di casta o le vecchie religioni, accetta la lezione con calma, non è impaziente perché i ritardatari restano fedeli a certe opinioni e mode letterarie, mentre la vita che serviva di base a esse si è trasformata nella nuova vita delle forme nuove” scriveva Walt Whitman e Ronald Reagan ha incarnato alla perfezione quello spirito capace di coniugare la tradizione con l’inevitabile necessità di un futuro, l’orgoglio di un’intera nazione con la disintegrazione di uno stato, il bisogno collettivo di riconoscersi in un patria con l’urgenza spicciola del common man, di essere riconosciuto come individuo, con i suoi diritti e con le sue libertà e soprattutto con la propria solitudine. Memorabile la citazione, tra le tante raccolte da Fabio Cerbone, dell’ineffabile arte oratoria di Ronald Reagan: “Sedersi sperando che un giorno, in qualche modo, qualcuno aggiusti le cose, è come sfamare un coccodrillo pregando che ti mangi per ultimo, ma alla fine ti mangerà”. C’è tutta la storia dell’America nei suoi “glory days” in questa frase e il ritratto organizzato da Fabio Cerbone è molto equilibrato nel raccontare il contesto in cui le forme politiche ed economiche promosse da Ronald Reagan hanno preso forma (e ricordando sempre che La recessione è quando un vicino perde un lavoro. La depressione quando perdi il tuo”), citando senza esitazioni produzioni discografiche (molto interessante e preciso il parallelo con Madonna) e cinematografiche che hanno contribuito a costruire l’immaginario vincente e volitivo dell’America di quegli anni. Il racconto è scorrevole e puntuale, mai troppo schierato e polemico, anche in casi piuttosto eclatanti come gli affari sporchi disseminati in mezzo mondo dagli accoliti reaganiani o l’imperversare delle soluzioni belliche a ogni occasione. Forse è giusto così, nell’idea di rendere chiara una figura tanto complessa, tanto poi ci pensa Hunter S. Thompson a chiarire il concetto, nel caso fosse necessario: “Ronald Reagan è il prototipo del nuovo americano mitologico, una puttana ridacchiante che probabilmente un giorno sarà presidente”. I succedanei non tarderanno a confermarlo, compreso l’ultimo in ordine d’arrivo: con molti anni d’anticipo, il Doc aveva già capito come sarebbe andata a finire.

lunedì 26 novembre 2018

Pablo Pistolesi

Seguendo le tracce di una trentina di protagonisti suddivisi in quattro città (Torino, Roma, Milano, Bologna), Pablo Pistolesi organizza una storia orale dei rave in Italia nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Sono tutti concordi nel sottolineare che i rave erano espressione delle “zone temporaneamente autonome” di Hakim Bey, sia che si svolgessero all’aperto, negli spazi naturali, sia che prendessero forma nelle aree dismesse del tessuto metropolitano. Appare subito chiaro che la mutazione dei luoghi, degli scenari era una parte fondamentale di quella che Andrea Benedetti definisce “la rappresentazione di un futuro inaspettato”. Partiva dalla necessità di superare forme di aggregazione tradizionali e limitate, per scoprire un’idea di musica autoprodotta e indipendente che trovava con “Una convergenza tra una critica culturale a quello che era l’aspetto più repressivo e opprimente dello status quo e quella che era una proposta artistica che riusciva a farsi interprete di questo tipo di istanze”, come l’ha definita Fabrizio Rossi. Le diverse voci spiegano in forma diretta, senza particolari mediazioni letterarie, lo sviluppo dei rave, le connotazioni, gli ingredienti, le passioni, prima di tutto come spiega Øcapi alias Filippo Edgardo Paolini: “Eravamo noi partecipanti, ragazze e ragazzi di varia provenienza, ricchi o poveri non importava, a disegnare un significato rinnovato dello stare insieme, non solo ballando ma parlando intensamente per ore intorno a un fuoco o passeggiando all’alba insieme ai nuovi amici di turno. Il centro però rimaneva la musica, quel ritmo cardiaco elettronico che ho scoperto proprio in quegli anni”. Se l’aspetto individuale e quello collettivo hanno trovato una sintesi attraverso i suoni e le visioni prodotti (tra gli altri) da Mutoid Waste Company, Aphex Twin, Spiral Tribe, Acid Drops, nei rave c’erano tutti “i presupposti di rottura, di alterità, di differenza” perché diventassero“un momento di critica radicale”, come dice ancora Fabrizio Rossi. Avendo “creato situazioni da migliaia di persone fuori controllo, bloccato interi quartieri con musica assordante e incomprensibile”, ricorda lo stesso Pablo Pergolesi nella prefazione i rave si sono distinti come l’ultima, vera espressione controculturale. Una ribellione che germogliava dall’esperienza e dalle emozioni personali (come racconta Stek: “Il nostro atto politico era essere felici. Era una rivoluzione. Sono felice nonostante voi”), dalla gioia delle danze senza fine, ma che poi nella costante condivisione di piaceri, ruoli, strumenti, materiali e spazi è diventata, da una parte, come la definisce Fricchio “una resistenza contro un sistema che non ci piaceva” e dall’altra, nella percezione di Andrea Benedetti, “una specie di utopia, di un abbattimento di barriere, di piccoli paraventi culturali che mettiamo uno di fronte all’altro, per cui non riusciamo a comunicare”. I ricordi, assemblati da Pablo Pistolesi senza alcuna censura, sono ricchissimi di riferimenti culturali e politici, e non nascondono nulla, neanche in merito all’uso delle sostanze psicotrope. Anzi, l’opinione diffusa tra tutte le voci è che proprio il drastico cambio nell’assunzione di additivi sia stato uno dei motivi della trasformazione (se non del declino) dei rave negli ultimi anni. Nello spirito originario delle tribù di tutta Italia, le “smart drug” erano una componente quanto la musica, la consapevolezza politica, persino il rispetto nella gestione e nella condivisione degli spazi occupati. Con il proliferare della ketamina, e poi della cocaina e dell’eroina, spesso il consumo è diventato fine a se stesso, ed è stato quando, come scrive Timothy, “la farmacia aveva preso il sopravvento sulla musica” con tutte le conseguenze prevedibili e immaginabili. Non è solo quello: cresciuto in modo esponenziale, l’underworld dei rave è stato fagocitato certi suoni ormai di ritrovano ovunque, dagli spot televisivi alle sonorizzazioni sulle passerelle. Qui vale ancora una testimonianza diretta, quella di Violentina: “Sono andata anche a Roggwil, in Svizzera, a un megarave sponsorizzato da Redbull. Era roba supercommerciale da diecimila persone, forse di più, con file di pullman dall’esterno... Uno schifo tremendo”. La (brutta) sorpresa è comprensibile perché alla fine rimane pur sempre l’idea di Kainowska, “il viaggio che tutto questo sia contro il sistema”, e che tra le sue svolte, rivela un’umanità brulicante di vita.

martedì 23 ottobre 2018

Francesco Guccini

C’è una continuità nelle canzoni di Francesco Guccini che lascia intendere un percorso nitido, convinto nel mostrare “l’aspirazione a essere altro”, a suo agio anche senza l’ausilio delle parti musicali. La selezione critica assemblata da Gabriella Fenocchio insegue e dipana proprio questo filo rosso perché è “una parola, quella del Guccini autore in versi, che nell’escursione dei registri linguistici, come pure nel travestimento feriale delle questioni supreme della vita, richiama il lettore a deporre la presunzione di formule definitive, riconducendolo alla parzialità di un punto di vista prima o poi destinato a essere smentito. E a questo mandato provvisorio assegnato alla parola, che si fa tutt’uno con una profonda dimensione etica, va forse ricondotta anche la multiforme e stratificata intertestualità letteraria che un’osservazione ravvicinata dei componimenti porta alla luce”. Da Borges a Montale, dai poemi epici al dialetto appenninico, i riferimenti sono sterminati, anche ne nascosti nel costante flusso autobiografico, che fa pensare, a “un autoritratto in minore venato dalla malinconia di chi, a sua volta depredato di utopie, si interroga sulla propria identità”. È uno spunto che nasce dalla Canzone delle osterie di fuori porta, che si può ben assumere come manifesto all’introduzione dei luoghi di Guccini: l’America e l’Argentina, Bisanzio e le scoperte di Gulliver tra quelli lontani e leggendari, le tappe più prosaiche in Autogrill e poi la concretezza della toponomastica della Piccola città, di Via Paolo Fabbri 43 e di Bologna tout court, Modena e Pavana. Se i luoghi sono frutto di “un’adesione alle radici di certo più sentita che capita”, le onnipresenti osterie assumono l’aspetto di un angolo sicuro, di un rifugio e di un eterno punto di partenza perché come dice Canzone dei dodici mesi: “E col venire del maggio e con l’andar del dicembre, il libro di nostra esistenza lentamente tutto si sfoglia. Vino bevi e di nulla ti cura ché il saggio già disse: la pena del mondo è veleno, e vino l’antidoto buono”. Canzone dopo canzone, prende forma “una sorta di film muto, dove la parola si inabissa rivelando forse la propria inadeguatezza a comunicare i pensieri, le passioni, gli enigmi che pervadono vite diverse e, alla fine, sempre irriducibili l’una all’altra”: è una percezione particolare del songbook gucciniano, ma molto efficace perché come scrive ancora Gabriella Bellocchio “del resto, la vocazione dello scrittore al dubbio, all’antidogmatismo programmatico, al sentimento costante del provvisorio, non permette mai che un’intenzione definitoria risuoni nelle sue pronunce. Allo stesso modo in cui le cose, gli accadimenti della vita, i momenti fondamentali dell’esistenza, sono sempre pronti a tradire significati opposti a quelli che rendono manifesti, anche le parole che li rappresentano si portano dietro il sospetto dell’incompiutezza, quando non della voragine di insignificanza che può aprirsi dentro di loro”. L’analisi della metrica, l’esegesi dei versi e l’interpretazione dei registri sono le componenti di una cornice molto accurata e meticolosa che non toglie nulla alla genuina irruenza delle canzoni. Aiutano piuttosto a individuare quel continuum che non risiede nell’immagine inamovibile dell’Eskimo, ma piuttosto in un’etica della parola in grado di “accendere la speranza che la discrezione e la coerenza possano essere qualcosa di diverso dall’utopia”. Allora vale, su tutto, la strofa inedita di Dio è morto, recuperata dal manoscritto originale, compreso nel prezzo di Canzoni: “Ho visto la gente migliore della mia generazione, nelle strade di automobili, morire sull’asfalto, morire nel cemento, sparire nelle notti, non credere all’amore, non credere più a niente, perché la civiltà di macchine, ha divorato tutto, non abbiamo più regole, per ciò che è dritto o storto, 21 pollici a rate, hanno cambiato il mondo”. Profetico.

martedì 16 ottobre 2018

Gianni Celati

Per circoscrivere le perplessità filosofiche di fronte e/o dentro alle apparenze, Gianni Celati ha scelto una forma singolare, ingaggiando una lotta con la struttura e con il tempo per permettere alle quattro novelle di trovare la giusta collocazione. Un lavoro di misura, pazienza, attenzione e meticolosità, visto che lo stesso Gianni Celati diceva: “Il fatto è che scrivendo pezzetti sparsi come faccio io, diventa poi molto difficile dare il senso del racconto continuo e completo. Il racconto, la short story sono un genere che ha delle regole molto strette. Il lettore deve arrivare alla fine con l’impressione che tutti i nodi narrativi siano sciolti”. Lo stile è persuasivo: fin da Baratto ci si accorge che, nelle Quattro novelle sull’apparenza, le trame sono funzionali a una riflessione più ricercata, che filtra attraverso l’arguta espressione linguistica. Possono assumere persino i contorni della parodia in I lettori di libri sono sempre più falsi, dove il libro inteso come semplice oggetto (da vendere) diventa l’occasione per sfoggiare un sottile tratto (auto)ironico “Questa è più o meno la regola: uno scrive per vantarsi d’aver capito qualcosa, finché qualcuno non lo prende sul serio e gli offre un posto di lavoro”. Naturalmente, con Gianni Celati si accede a una dimensione più evoluta nella valutazione delle cause e degli effetti della scrittura come si evince nella conclusione di  lettori di libri sono sempre più falsi: “Tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altri polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto: lui dà e toglie, e quello che dà è solo quello che toglie, così la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo”. Questa fugacità delle parole, persino l’impossibilità di addomesticarle, diventa l’elemento centrale, e determinante, per la Scomparsa d’un uomo lodevole dove il pensiero del protagonista pare coincidere con quello di Gianni Celati quando dice: “Sì, perché mi vedo in una storia, ce l’ho sempre in testa, e capisco che qui è già tutto previsto. Vedo questa storia in cui sono capitato, vedo la gente per le strade, e capisco che tutti si muovono secondo un copione previsto. E nello stesso insondabile copione deve anche esser già previsto ciò a cui quest’uomo andrà incontro, scritto nel suo inverosimile memoriale, è come essere nel sogno d’un altro”. È così: le Quattro novelle sulle apparenze hanno la loro originalità in una sospensione tra reale e surreale, con profili di provincia accentrati e limati e storie che si snodano con l’eleganza di una biscia, con i ritmi sinuosi e incantatori. Persino paradossali se si vuole seguire la lettura che fece Giorgio Manganelli di Condizioni di luce sulla via Emilia definendolo “straordinariamente nitido, esemplare” e insieme “insieme, nebbioso, enigmatico, elusivo”. Nello stesso modo, i personaggi, a partire da Baratto, sono sempre alla ricerca di qualcosa, se non altro, di se stessi. Un altro passaggio nella Scomparsa d’un uomo lodevole è altrettanto eloquente: “Come un cane al guinzaglio ero ricondotto verso casa da una controfigura di me stesso con baffetti alla francese. Per quanto ne so, le stelle lontane e gli anelli di rotazione delle nebulose e i globi prodotti dall’aggregazione della materia, tutto questo continuava nello stesso modo e con gli stessi risultati; ma per me rientrando in rue d’Armenoville tutto s’era già striminzito ad un pugno d’apparenze che mi ponevano quest’unica domanda: tu chi sei? Il resto sempre molto prevedibile”. Il gioco astronomico, non meno delle rifrazioni nella pianura, è solo la cornice ideale per arrivare alla considerazione che la salvezza dipende da “una spiegazione che si riesce a inventare”, e poi custodita con cura nelle parvenze di una storia.

venerdì 5 ottobre 2018

Italo Calvino

Le Lezioni americane si presentano con un piccolo rebus numerico, che non sarebbe spiaciuto a Italo Calvino. Delle Sei proposte per il prossimo millennio, al centro del ciclo di conferenze tenuto ad Harvard, ne sono giunte a destinazione cinque. La sesta, ispirata al Bartleby di Melville e dedicata alla Consistency, rimane confinata agli appunti, dove tra l’altro si trovavano riflessioni per altre due lezioni, per un totale di otto. L’ultima aveva un titolo, a sua volta pratico ed enigmatico nello stesso tempo, Sul cominciare e sul finire, che comunque sottintendono l’inizio e la fine impliciti a un libro. Più che nelle Lezioni americane, Italo Calvino lo spiegava partendo dalle pagine di introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno: “Le letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con essa. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l’altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini”. Se quella era la partenza, la destinazione è la certezza che “ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Calvino ci arriva in conclusione alle Lezioni americane dopo aver elencato, discusso, ragionato, letto e affrontato Balzac, Barthes, Cyrano de Bergerac, Thomas De Quincey, Emily Dickinson, Douglas Hofstadter, Ignacio de Loyola e Henry James, Robert Musil e Charles Perrault, Proust e Shakespeare, Charles Perrault e Raymond Queneau, Paul Valéry e Jonanthan Swift, Carlo Emilio Gadda e Thomas Mann, Dante e Petrarca, Kafka e Kundera, Flaubert e Mallarmé, ovvero “la letteratura come ricerca di conoscenza”. La prima delle “proposte” illustra come Italo Calvino abbia “cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”, inseguendo quella “leggerezza” da applicare alla lettura (“Ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini”) e così nella scrittura (“Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare”) come nel pensiero in generale. Dice, infatti, Calvino: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”. È plausibile che la prima lezione valga pietra angolare nell’identificare la “letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”. Gli elementi del confronto letterario e politico, a cui Calvino non si è mai sottratto diventano poi uno stimolo nell’indagare la “rapidità”, nello stabilire le connessioni tra “un legame verbale” e “un legame narrativo” all’interno della brevità del racconto, della fiaba e della novella, dove vige quella legge che “è un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito”. Si tratta di sviluppare “una velocità mentale” che sappia, in estrema sintesi, ripristinare una corretta “visibilità” a fronte di “una crescente inflazione d’immagini prefabbricate” e di inseguire quella “esattezza”, perché la letteratura possa “creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”. Non abbiamo molti altri strumenti ed è per quello che, alla fine, le Lezioni americane si sviluppa in quella che Calvino chiama “l’apologia del romanzo come rete”, che altro non è, se non la certezza che “la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”. Fondamentale.

mercoledì 3 ottobre 2018

Claudio Magris

Nei Microcosmi di Claudio Magris si condensando l’esperienza del viaggio, della scrittura, della memoria e della poesia. Una fitta tessitura di impressioni, vocazioni e passioni che si aggrumano attorno all’idea di una guerriglia, una forma di resistenza alla banalità, alle stupidaggini, alla vacuità di un linguaggio stiracchiato e compromesso. Si comincia proprio con il movimento lungo le coordinate mitteleuropee care a Claudio Magris. Il più delle volte si tratta solo di un caffè, di piccoli anfratti, di lagune o di isole, di villaggi o borghi alpini perché “viaggiare è anche una perdente guerriglia contro l’oblio, un cammino di retroguardia: fermarsi a osservare un tronco dissolto ma non ancora del tutto cancellato, il profilo di una duna che si disfa, le tracce dell’abitare in una vecchia casa”. Da una parte i Microcosmi collimano con l’autobiografia di Claudio Magris dato che “ogni viaggio è soprattutto un ritorno, anche se il ritorno, quasi sempre, dura assai poco e viene presto l’ora di andarsene”, dall’altra rappresentano i punti focali di una prospettiva molto più ampia, e tutta da esplorare. Succede quando “la storia rientra lentamente nella geografia, nella decifrazione dei segni e dei solchi scavati nella terra. Il paesaggio si sgretola lentamente, le quinte del teatro di posa scivolano quasi scosse da un lieve terremoto; primi piani indietreggiano e monumenti traballano, altre cose affiorano e avanzano, utensili, giacche lasciate appese nelle malghe abbandonate, corone dipinte negli stemmi. Il tempo della geografia è anch’esso rettilineo al pari di quello storico, perché pure le montagne e i mari nascono e muoiono, ma è così grande che s’incurva, come una retta tracciata sulla superficie della terra, e stabilisce un diverso rapporto con lo spazio; i luoghi sono gomitoli del tempo che si è avvolto su se stesso. Scrivere è sdipanare questi fili del tempo che si è avvolto su se stesso, disfare come Penelope il tessuto della storia”. La citazione omerica è un po’ la parola d’ordine per infilarsi nei Microcosmi: se “viaggiare, come raccontare, come vivere, è tralasciare”, in questo continuo processo chimico di creare, smontare e trasformare “narrare è guerriglia contro l’oblio e connivenza con esso; se non ci fosse la morte, forse nessuno racconterebbe. Quanto più umile, vicino fisicamente alla terra, humus è il soggetto di una storia, tanto più si avverte il rapporto con la morte. Le vicende degli uomini, famosi e oscuri, rifluiscono in quelle delle stagioni con le loro piogge e nevicate, in quelle degli animali e delle piante, degli oggetti con la loro tenacia e la loro consunzione”. Si tratta di una meta a suo modo definitiva: la scrittura deve essere corroborata dall’esercizio della memoria, e viceversa. Un processo provato sul campo e teso a scoprire e rinnovare storie di montagna e di frontiera, che nell’ambito dei Microcosmi appaiono incredibili, oppure no. Il paradosso è spiegato dallo stesso Claudio Magris: “In ogni caso, chi ha vissuto quelle vicende straordinarie tende a tacere; forse perché non sa parlare, forse perché pensa che, a parlarne, le si falsificherebbe. O forse perché, mentre si vive un’avventura, sembra qualcosa di eccezionale, ma poi, tornati a casa, quando ci si accinge a raccontarla, non si trovano le parole; quelle cose che parevano chissaché sono sparite, volate via, o non sembrano più così mirabolanti, e a poco a poco non viene in mente niente, dopotutto forse non è successo nulla e non si sa cosa dire”. È qui che la funzione mnemonica ritrova il suo naturale alveo nella scrittura, confermandosi una corrente fluida e dinamica (“Forse si ricorda anche e soprattutto non ciò che si è vissuto, ma quello che ci è stato raccontato. Le cose succedono sempre agli altri. La memoria è anche correzione, ritocco del bilancio, giustizia che dà a ciascuno il suo e dunque restituisce ciò che ci sarebbe spettato”) che trova uno sbocco naturale, probabilmente inevitabile, nella poesia. Ancora una volta Claudio Magris si avvicina con circospezione, illustrando come “la poesia dice l’assenza, qualcosa o qualcuno che non c’è più. Poca cosa, una poesia, un cartellino messo su un posto vuoto. Un poeta lo sa e non le dà troppo credito, ma ne dà ancora meno al mondo che lo celebra o lo ignora”, per poi celebrarla e condividerla nei suoi Microcosmi come “pietas, umiltà e fraterno piacere di vivere”. Con un’avvertenza (indiscutibile) che suona sempre più attuale: “La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale dell’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all’accusativo o il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l’ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abolendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità”. Da leggere e rileggere, spesso.

giovedì 20 settembre 2018

Francesco Biamonti

Per i passeur sui rilievi dell’entroterra ligure, il tempo scivola come la brezza sulle rocce, impalpabile e costante. L’attesa di un varco, la speranza di una destinazione, i ritagli minuziosi di un paesaggio avaro, ruvido, contorto come gli ulivi, spiazzato dalla luce e inasprito dal sale mettono i personaggi di Vento largo nella condizione di lasciare le colture per dedicarsi ad accompagnare “nomadi e viandanti” oltre la frontiera con la Francia. Condividere la clandestinità per guadagnarsi da vivere diventa una resa perché, come Francesco Biamonti lascia dire ai suoi passeur, “è destino di noi esseri deboli, di noi uomini cambiare strada. Sotterfugi per vivere”. Il compenso è relativo, minuscolo, sproporzionato rispetto all’impegno di trovare la sicurezza di un varco attraverso sentieri brulli e impervi e anche nei confronti di un’etica solida e condivisa (“Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine”), per quanto fondata soltanto sulla parola. Se c’è una certezza, in questi passaggi notturni e segreti, viene soltanto da una conoscenza del territorio che va ben oltre i segni sulle mappe. Se la speranza è sempre che “siano un po’ di meno e un po’ diversi i prossimi pellegrini”, la forma concreta che accarezza il Vento largo sono le curve delle colline, dove persino le abitazioni e i vicoli sono incastrati nell’arenaria, e avvolti in un alveo naturale e selvatico. Di orizzonti ne rimangono due, perpendicolari come il Vento largo rispetto alla rotta tracciata. Il primo, vicino, oltre i crinali, resta una meta invisibile che i passeur conoscono e temono e che i fuggitivi anelano, con l’incoscienza di chi non ha nient’altro da perdere, al punto che l’esilio appare come una fortuna. L’altro è un abbaglio distante, infinito, scintillante. Lo spettacolo del mare visto dalla terra rimane un inganno. Francesco Biamonti l’ha identificato con scrupolosa attenzione nella dissertazione citata da Sergio Buonadonna in Finestra sul Mediterraneo: “A guardarlo dalle nostre colline, della Liguria occidentale, sale all’orizzonte come un immenso edificio di luce. Fa sognare partenze, voli supremi. A volte è bianco e fa l’effetto di una nuvola; più spesso è di un azzurro che sconfina; se il vento lo ghermisce appare solcato di cammini, specie la sera. Ma in fondo che mare è? A un’apertura, a una libertà metafisica non corrisponde una realtà geografica: è quasi un lago e le sue rive sono state spesso insanguinate e lo sono ancora adesso”. La voce di Francesco Biamonti è la risposta ai contrasti attraversati dal Vento largo: le parole limate una per una, gli accenti che riflettono più il ritmo umano che quello delle frasi, un glossario di vocaboli grezzi e spontanei, uno scenario calcareo di rovina e abbandono, mitigato dalla dolcezza del racconto. La vocazione, in Vento largo più che altrove, è indirizzata ad “aiutare le cose ad esistere, far sì che s’instauri fra gli uomini e le cose un dialogo”. In questo ibrido, tra una natura impraticabile e una civiltà al minimo storico, la forma delle immagini attinge alla pittura, alla poesia, al dialetto e alla musica, e le volge in uno stile lirico, riflessivo, raffinato eppure molto acuto nel sottolineare i conflitti, e gli incontri. È la lingua delle Creuza de ma di Fabrizio De André, il sapore agrodolce dell’entroterra ligure al confine con la Francia, una frontiera che, in Vento largo, unisce, più che dividere.

venerdì 7 settembre 2018

Andrea Staid

I dannati della metropoli è frutto di quella che gli antropologi chiamano “osservazione partecipante”, un metodo empirico che porta l’osservatore a diventare “un catalizzatore della comunicazione, capace di stimolare l’espressione delle percezioni, esigenze, aspettative e fantasie degli osservati”. È quello che ha fatto Andrea Staid scendendo a compromessi con quella che che Philipp Bourgois chiama “cultura di strada” per scoprire le vite ai margini e i rituali della resistenza dei migranti dentro la città, e nello specifico, Milano. Un lavoro fatto di analisi, ricostruzioni, valutazioni e, più di tutto, di interviste, come se Andrea Staid avesse seguito l’indicazione di John Berger quando diceva che “per provare a capire l’esperienza di un’altra persona è necessario smantellare il mondo come lo si vede dalla posizione che in esso occupiamo, e riassemblarlo come lo si vede dalla sua”. Il processo pare complesso, senza l’ausilio di un minimo sindacale di empatia, che è alla fonte del confronto con I dannati della terra. Come scrive nella prefazione Franco La Cecla: “Sono storie disperate e disperanti, ma anche storie piene di vita, dove si capisce che l’immigrato dichiarato fuorilegge a un certo punto trova una propria ridefinizione dell’esserlo. Storie di immediata disillusione, di rivolta, di voglia di vivere nonostante. L’antropologia con la sua vocazione a testimoniare è uno strumento perfetto da questo punto di vista: ci costringe a renderci conto di come la vita quotidiana altrui non sia tanto differente dalla nostra, e nei panni dei marginali potremmo tranquillamente trovarci noi”. Se all’origine c’è il viaggio, che contiene un elemento fondamentale di speranza, pur nelle le brutali condizioni con cui si sviluppa. Una frase di Nma, partito dalla Nigeria, è emblematica: “Il viaggio per lo schifo che faceva non è andato neanche male”. Andrea Staid la chiama “una libertà negativa” e la definizione ha una sua importanza: arrivati in Europa, le frontiere imposte con la violenza,  la detenzione, i ghetti, sono soltanto le conseguenze di leggi che tendono a militarizzare i flussi.  Se è vero, come è vero che “è la strutturazione normativa a produrre, per il migrante, uno status giuridico notevolmente precario”, lo è perché “le nostre società hanno bisogno di agitare lo spettro dei nuovi barbari per ottenere due effetti significativi: da un lato la criminalizzazione dei migranti che consente di sostituire le politiche sociali con quelle penali e di controllo, dall’altro consente nel dibattito pubblico di trasformare il concetto di sicurezza sociale come la priorità da affrontare”. A quel punto  la metropoli dei dannati diventa “asimmetrica” e si sdoppia: “la città legittima pronuncia parola di paura e sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di prostituzione a quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale. La città illegittima è titolare di un’offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società illegittima”. Nella difficile, ma inevitabile convivenza, I dannati della metropoli “ci aiutano a capire meglio la contemporaneità, a vivere l’alterità attraverso l’incontro; non voglio affermare che sia semplice, molto spesso questo incontro è fatto di liti, rabbia, insoddisfazione e non sopportazione, ma l’importante è vivere l’alterità più che analizzarla”. Per trovare il luogo ideale a provarci Andrea Staid non è dovuto andare lontano, tanto è vero che ha dedicato l’ultima parte del libro all’enclave di viale Bligny 42 nel pieno centro di Milano, zona porta Romana, una realtà cosmopolita complessa e uno spettro di emozioni tutto da decifrare, un traballante laboratorio dove sperimentare “una tolleranza esperita, vissuta ogni giorno, nelle città, costruita strada per strada, sui luoghi di lavoro e di lotta, con la consapevolezza che non esistono libertà regalate ma solo libertà costruite e conquistate”. A dispetto dei luoghi comuni e delle banalità assortite, non ci sono molte altre alternative.

lunedì 16 luglio 2018

Paolo Cioni

Il secondo romanzo di Paolo Cioni va incontro con decisione alla lunga e florida tradizione della commedia italiana, ed è una scelta che rende molto più personale e originale la sua narrativa, rispetto all’esordio di Ovunque e al mio fianco. Le differenze sono sostanziali: se da una parte c’era l’esuberanza di una trama in movimento sulle strade dell’Europa, e con una Cadillac rubata a un fan di Elvis, qui c’è l’immutabilità della provincia, nello specifico di quel paesaggio ondulato alle pendici degli Appenini, tra Parma, Fiorenzuola e Fidenza. L’identificazione territoriale non è funzionale soltanto all’ambiente del romanzo. Si tratta di una collocazione che ricorda i narratori della pianura lungo il versante emiliano Po (Celati, Cavazzoni, Delfini) di cui Paolo Cioni condivide sia la naturale associazione geografica sia il gusto per un tono ironico, leggero, a tratti surreale. Una formula che trova la sua espressione migliore in Adelmo Santini, protagonista indiscusso di Il mio cane preferisce Tolstoj. Il suo è il perfetto ritratto dell’artista sulla via del crepuscolo: è stato uno di quei comici a cui, grazie all’intercessione televisiva, è stato concesso di tutto, radio, teatro, cinema e, immancabile, il libro riempito di battute e amenità assortite, per poi finire “lì, nel piccolo schermo luminoso e sempre più appannato, il mondo dello spettacolo dava la peggiore rappresentazione di sé: vecchi comici, attori sfiatati, giornalisti in sovrappeso, soubrette coperte di cerone, tutti ballavano, sudavano e ridevano e stonavano cantando canzoni di cui non ricordavano le parole, senza smettere mai di lodarsi gli uni con gli altri. Erano tutti grandi artisti, senza nessuna eccezione, i cantanti stonati e le ballerine che inciampavano nei tacchi. Tutti. Toccavamo il fondo insomma”. Solo che la televisione si mangia le sue creature, in particolare quelle che le si rivoltano contro, e per Adelmo Santini, così come per molti suoi colleghi, la stagione dell’oro e della sfortuna sfuma in un limbo indefinito, tanto che “ecco, a volte”, sarebbe addirittura meglio l’oblio. Adelmo Santini, poi, ci ha messo tutto l’impegno possibile tra una lunga teoria di fidanzate, compagne, amanti per una sola notte (e anche  una moglie, Vera), colpi di testa e abitudini bizzarre perché, come ammette con un certo candore, “se si tratta di colare a picco, nessuno più di me ha le carte in regola”. Dovrebbero bastargli la poesia della nebbia tra i pioppi, i suoi cani che gli sgranocchiano mezza biblioteca, i pochi e fidati amici, ma un giorno riceve una strana lettera anonima corredata da una minaccia di morte. In quel momento sta verniciando il soffitto perché come diceva il nonno non c’è “niente al mondo che non si possa sistemare con una buona mano di bianco”, e l’oscura missiva invece gli impone di ricordare che “le vecchie case sono così. Piene di fantasmi e di storie”. Sentendosi in pericolo, anche perché ha ancora molti conti aperti nei suoi turbolenti trascorsi, il Grande Santini (sì, perché se ne trova anche uno Piccolo, tutto da scoprire) prepara un elenco dei possibili mandanti e da lì comincia la lunga serie di avventure picaresche che caratterizzano Il mio cane preferisce Tolstoj. Tra un manager avido e un editore fallito, resta sullo sfondo l’effimero universo dello spettacolo e dell’intrattenimento, che Paolo Cioni sa raccontare con un sorriso brillante, non privo di una malinconica consapevolezza.

martedì 10 luglio 2018

Federico Fellini

Un dattiloscritto di ottantasei pagine rimasto inedito per oltre trent’anni (in parte fotocopiato e conservato presso la Cineteca Comunale di Rimini) rivela il classico sogno rimasto nel cassetto, ma la personalità di Fellini, “un inesausto inseguitore di miti” nella definizione di Sergio Zavoli, e la natura stessa del “soggetto e trattamento cinematografico (anche per la televisione)”, come annotava lo stesso regista nell’intestazione, insistevano per trovargli una giusta collocazione. L’ambizione del particolareggiato progetto, destinato più che a un film, a uno sceneggiato di quattro ore (oggi si direbbe serie) sul modello di Novecento, era di interpretare e trasportare sullo schermo una “scelta narrativa dei miti greci, immenso patrimonio poetico della storia umana”. Un obiettivo mastodontico che trova in queste pagine una prima, essenziale bozza, forse poco più di un biglietto da visita, ma con le idee già molto chiare. La formula scelta da Fellini prevedeva un accostamento umile e rispettoso, un uso accorto degli effetti, un ritorno “al cinema della pura animazione fantastica” e un’attenzione scrupolosa all’atmosfera, già delineata con sufficiente precisione nell’incipit: “Una luce incertissima, né di giorno né di notte, completamente artificiale, perché fuori del tempo; anche il luogo è incertissimo, la cima di una montagna, sembra, o una cava franosa, tra nuvole che scorrono via; o potrebbe essere nebbia, fittissima, o fumo, od incenso di sacrifici”. Per arrivare a cogliere un senso inafferrabile, Fellini compie un minuzioso lavoro di approfondimento, colmo di letture e riletture e ricostruito nel dettaglio dalla ricercatrice e poetessa Rosita Copioli e dallo storico collaboratore del regista, Gérald Morin che, tra l’altro, ha il merito di sintetizzare così la trama rimasta incompiuta: “La storia degli dèi e delle dee dell’Olimpo si svolge con una logica insieme vitale e mortale come una valanga gigantesca che precipita lungo la montagna, trascinando tutto al suo passaggio, con tumulto e terrore, spavento e orrore. Che inizia sul sommo delle cime con l’assassinio di Urano da parte di suo figlio Crono e si conclude all’uscito del Labirinto con un Teseo vittorioso coperto del sangue del Minotauro”. Pur travolgente, Il racconto dei miti è filtrato però dalla sensibilità di Fellini che, con tutte le cautele, riesce a riportarlo in una dimensione molto umana, come annota Rosita Copioli: “Le proporzioni degli dèi, l’alterità mostruosa degli dèi, sono due aspetti del numinoso che ne L’Olimpo hanno una collocazione naturale, e offrono evidenza e giustificazione alla loro continua comparsa nell’immaginazione onirica”. Nonostante la ricchezza e la complessità dei temi trattati, o forse proprio per quello, L’Olimpo non trovò un’adeguata produzione, e rimase una splendida illusione. Fellini pensò persino di rivolgersi all’americana CBS che, all’epoca, stava esportando in Italia la serie televisiva Dallas. In prospettiva, un segno dei tempi, ma comunque troppo poco per un sognatore in cerca di luce e di allegria.

mercoledì 4 luglio 2018

Dino Buzzati

Questi “avvisi di partenza” sono una sorta di Antologia di Spoon River nella versione allegorica e stralunata di Dino Buzzati. Quando Il reggimento parte all’alba non c’è alcun modo di eludere la chiamata: la metafora tratta dalla vita militare che, come ricordava Guido Piovene, per lui “era sacrificio e grandezza inutili ma nobili”, risponde alla necessità del distacco, distribuito in modo equanime, democratico e indiscutibile. È un obbligo perentorio che accomuna Wladimiro Ferraris, ispettore capo delle Dogane e Galileo Tani, libraio e Duilio Ronconi, possidente, Alex Roi, regista e Alfredo Brilli, commercialista, in un solo destino. Ognuno risponde a modo suo, come Celso Bibbiena, tessuti d’arte che pronucia così il suo commiato: “E anche voi leggiadre nuvole bianche fuggite lontano e anche voi leprotti e ghiri venuti a curiosare e anche tu luce del sole appena nato lasciateci. Ho da dire a lei le ultime cose così importanti e inutili, poi me n’andrò per sempre”. Dino Buzzati scompone e ricompone le vite delle sue “creature”, che non comprendono solo gli esseri umani che vengono allertati quando Il reggimento parte all’alba, ma anche la flora, la fauna e altre fantasiose invenzioni. Una simbiosi con le forme della natura e dell’immaginazione che diventa palese in La mosca e, ancora di più, nelle ultime parole famose di Rodrigo Zenon, dirigente dove sono evidenti gli echi delle metamorfosi kafkiane. Dino Buzzati segue però l’invenzione di una lingua congeniale al suo luogo letterario preferito, il frammento, lo schizzo, il piccolo racconto. La brevità, che in sé corrisponde anche all’urgenza ineluttabile dell’addio, non gli impedisce di farcire le pagine di calembour, divagazioni, favole e sorprese, trasformando i congedi in altrettanti squarci del suo immaginario, come è, giusto per esempio, Lo spirito del granaio: “Sono venuto al posto giusto nell’ora giusta per sentirti ancora una volta. Tutto è sistemato nel modo più adatto, sembra perfino impossibile, così non avrei neppure osato sperare… E tu non vieni, perché non vieni? Io non ti dico il perché. Non ti spiego”. Il reggimento parte all’alba ci ricorda la transitorietà dell’essere, una nozione che non dovrebbe sfuggirci anche quando “tutto è baraonda, furia e confusione” e che vede nella prosopopea di Ottavio Sebastiàn, vecchia fornace l’estrema dignità nel sentirsi, alla fine, parte di qualcosa, di un collettivo silenzioso e infinito: “No, non aver paura. Hai fermato la macchina sei sceso, ti sei affiancato all’ultimo plotone del reggimento designato, che marcia nella gloria crudele dell’aurora, dell’alba, del principio della notte senza fine. Meno male; non ti senti più così solo, vero che non ti senti così disperato?”, e la domanda è il ritornello che distingue ogni avvertimento, ogni singolo messaggero.

venerdì 29 giugno 2018

Leonardo Sciascia

L’affaire Moro è un caso raro, se non proprio unico, di lettura della storia contemporanea italiana, in un frangente complesso e oscuro, che non cede alla tentazione di ricostruire la realtà, o di usarla, o di collocarla in funzione dell’evenienza o dell’ideologia del momento. Leonardo Sciascia compie, a priori, una scelta rigorosa, ponendo chiarendo la prospettiva, piuttosto che gli obiettivi: “Nel farsi di ogni avvenimento che poi grandemente si configura c’è un concorso di minuti avvenimenti, tanto minuti da essere a volte impercettibili, che in un moto di attrazione e di aggregazione corrono verso un centro oscuro, verso un vuoto campo magnetico in cui prendono forma: e sono, insieme, il grande avvenimento appunto. In questa forma, nella forma che insieme assumono, nessun minuto avvenimento è accidentale, incidentale, fortuito: le parti, sia pure molecolari, trovano necessità, e quindi, spiegazione, nel tutto”. Leonardo Sciascia evita la palude delle dietrologie, dei complotti, dei dettagli investigativi e giudiziari, anche se ne è cosciente, come si può notare nella relazione (di minoranza) della commissione parlamentare che porta la sua firma e affronta L’affaire Moro da un punto di vista dialettico, basandosi soltanto sull’analisi delle lettere di Moro dalla prigionia. Il riferimento qui è ancora e sempre a Pasolini  quando diceva che “come sempre solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. Nella sua condizione, nel suo “stato di necessità”, di prigioniero “prelevato”, Moro, deve fare i conti con la “ragione di stato” che, prima del 16 marzo 1978, nella sua idea coincideva con un’indefinita “volontà generale”. Sciascia è lucido, a suo modo impietoso, nel sottolineare come Moro ha sviluppato “un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata”. Per districarsi nella labirintica prosopopea di Aldo Moro (e non meno, nei diktat dei suoi rapitori), Sciascia sceglie di infilarsi in un dedalo letterario con Elias Canetti, Voltaire, Tolstoj, Poe, Manzoni e infine Borges, Unamuno e Cervantes riuniti nel nome di Don Chisciotte. Matura una percezione di una realtà attraverso la letteratura, usata come un filtro per discernere il falso, le ambiguità, le mistificazioni, gli arrembaggi e le ritirate verbali, le cortine fumogene dei luoghi comuni e della retorica, utili soltanto a quello che, alla fine, anche Aldo Moro chiama molto semplicemente “il potere”. Ne nasce per ammissione dello stesso Sciascia “una sintesi, una tirata di somma: ma nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta, le sintesi non poteva apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità, quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla, sembrò generarsi dalla letteratura”. A quasi mezzo secolo di distanza dagli eventi, L’affaire Moro resta un caposaldo raziocinante, preciso, nitido di una grande solitudine intellettuale, e civile.

mercoledì 27 giugno 2018

Pierpaolo Vettori

L’amicizia tra Hans e Max nasce dall’illuminazione per il jazz, che è “folle, e senza senso, eppure ce la fa, resta coerente”. Sono soltanto ragazzi, l’unica guerra che conoscono è quella tra una banda e l’altra, o il naturale scontro con i genitori che sentono “la musica classica, che è quella roba priva di ritmo che ascoltano gli adulti stando seduti con l’espressione di chi aspetta il suo turno dal dentista”. Max suona la tromba, Hans scova un banjo e si applica, nella speranza che prima o poi arrivi (e arriverà) una chitarra. Il legame si moltiplica in un effervescente momento di scoperta, che comprende anche i barlumi dell’amore, dato che Hans vive una passione (platonica) per la sorella di Max, Kitty. Un senso di libertà, per quanto sotterranea e sfumata, li avvolge ed è spontaneo ricordare che “non si può resistere al jazz, non puoi schiacciare la testa della gente una volta che ha sentito lo swing. Anche se sta zitta, dentro continua a battere il piede a tempo”. Questo deve essere stato uno dei motivi per cui il jazz, e lo swing nel suo epicentro, non era tollerato (per poi essere bandito) nella Germania nazista. Un articolo su un giornale locale del 1938, riportato da Mike Zwerin in Musica degenerata ammoniva: “Non abbiamo simpatia per gli sciocchi che vogliono trapiantare la musica della giungla in Germania. A Stettino, come in altre città, si può vedere la gente che balla contorcendosi come se avesse il mal di stomaco. Lo chiamano swing. Non è uno scherzo. Mi prende una gran rabbia. Quegli individui sono dei ritardati mentali. Soltanto i negri in qualche angolo della giungla pesterebbero i piedi in un modo simile. Non c’è nulla di negro nei cromosomi germanici. Bisogna fermare questo pandemonio della febbre dello swing”. Il jazz non sarà l’unico problema. Max è l’amico che tutti vorremmo avere: è perfetto, sempre in difesa dei più deboli, che conosce tutti i passaggi e che, in una parola, è sempre “cool”, ma ha un difetto: la sua famiglia è ebrea. Non solo: è benestante, colta, elegante ed educata, tanto che Hans, nel confronto, sente tutti i limiti della sua, di famiglia. L’avvento del nazismo e delle imposizioni razziste ribalta la situazione: Pierpaolo Vettori è meticoloso e molto scrupoloso nell’evidenziarne, prima di tutto, il peso tra le persone, come ha influito nei rapporti e nei legami, ancora prima che nelle dimensioni politiche. Il contrasto è fortissimo e passa attraverso la figura di Gerd, un veterano della prima guerra mondiale (fratello del padre di Hans) e personaggio che funge da cerniera storica e insieme narrativa. Fino all’avvento del nazismo, Gerd non è altri che un povero reduce in caduta libera, pieno di rancore e di rimpianti. Abbracciato il nascente partito nazista, Gerd diventa all’improvviso una persona rispettabile e sarà protagonista dell’odiosa svolta tra le due famiglie. Le conseguenze si possono immaginare con facilità, ed è quello che inevitabilmente succede in un mondo di “adulti senza swing”. Sullo sfondo, nelle pieghe di lampi e ombre della Lanterna per illusionisti, c’è un maniaco (pedofilo) con cui Hans dovrà fare i conti molto più in là nel tempo perché “il passato non è solido come pensiamo, assomiglia a una vecchia rete da pesca smagliata. Crediamo di ricordare chi siamo e cosa abbiamo fatto, ma, a ben guardare, riusciamo solo a distinguere dei percorsi tenui e sfilacciati. Il resto sono buchi enormi che non riusciamo a giustificare”. Labirintico e stratificato, affilato come un coltello a serramanico, ma armonioso come una ballata di Jimmie Lunceford, la Lanterna per illusionisti emana una luce chiarissima che non cede né alle ambiguità né alla retorica e che Pierpaolo Vettori  dipana in un romanzo a immagine e somiglianza del jazz: istintivo, imprevedibile e affascinante.

martedì 12 giugno 2018

Diego Gabutti

Cospiratori e poeti mette in chiaro i motivi per cui Parigi è diventata lo snodo intellettuale, artistico, sociale e politico per più di due secoli. Dalla Comune di Parigi al Maggio 68, come recita il sottotitolo, si alternano nel manifestare vocazioni utopiche, ribellioni e inversioni di rotta “pittori, studenti, rivoluzionari, imbroglioni internazionali, turisti, psichiatri, gente equivoca, scultori e cortesi spie a corto d’informazioni”. Un milieu esplosivo di “uomini d’azione la cui azione consisteva nel sognare” che alla fine, passandosi il testimone di idiosincrasie, colpi di mano, barricate e follie, hanno generato la particolare tessitura culturale della Ville Lumière. Per dare forma all’esuberanza di Cospiratori e poeti, Diego Gabutti parte dai singolari protagonisti, tutti leader alla ricerca della “trama segreta del mondo, o meglio dei mondi plurali che si rincorrono eguali o sottilmente diversi attraverso l’infinito”, come diceva di Louis-Auguste Blanqui. Attorno alle biografie di Victor Serge, Paul Lafargue, François Maric Francois Maric, Victor Noir, André Breton, Pierre-Joseph Proudhon o Léo Malet si catalizza l’idea di Novalis di “romanticizzare il mondo”, applicata però alla realtà cittadina, con “la necessità di realizzare immediatamente le condizioni oggettive dell’emancipazione individuale. L’inizio del momento rivoluzionario deve segnare per tutti un aumento immediato del piacere di vivere”. Lo sosteneva uno dei principali Cospiratori e poeti, Charles Fourier, e Diego Gabutti, pur dando vita a un racconto ricco, colto, attraente ed effervescente, resta lucido quel tanto che basta da ricordare che “l’idea che i poeti si facevano della rivoluzione e dei rivoluzionari era un’idea da poeti”. Una distinzione indispensabile anche soltanto per mettere in risalto i momenti salienti vissuti da Cospiratori e poeti, in ordine rigorosamente sparso: l’affaire Dreyfus e la nascita dell’opinione pubblica moderna, il futurismo e il dadaismo, la guerra imperiale e la guerra civile, Fantômas e La società dello spettacolo, surrealisti e situazionisti, nichilisti e dadaisti, polemiche e amicizie, un flusso di idee senza sosta e rivolte celebrate, il più delle volte, tagliando salami e stappando bottiglie. L’avant-garde fatta “corpi armoniosi, movimenti ritmati, voci melodiose” resterà, per definizione, incompiuta, ma Cospiratori e poeti costituiranno una solida tradizione metropolitana alla radice, in conclusione, delle bandiere ribelli del 1968, perché,  ça va sans dire, “è soltanto a Parigi che scocca l’ora X”. I precedenti, illustrati da Diego Gabutti con savoire faire, sono evidenti e inamovibili e rispondono alla perfezione alla definizione finale di Guy Debord: “Era la poesia moderna, da cent’anni, che ci aveva condotti lì. Eravamo alcuni a pensare che bisognava attuarne il programma nella realtà; e in ogni caso non fare nient’altro”. Il sapore della sconfitta, che hanno assaporato più o meno tutti i Cospiratori e poeti non toglie nulla alla genialità, all’irruenza, alla fantasia e in definitiva all’estemporaneità delle loro visioni. Parigi è una culla per profeti, avevano capito per tempo, che il vero potere è nell’arte di sognare. 

venerdì 8 giugno 2018

Claudio Magris

Il viaggio lungo il Danubio di Claudio Magris è fratello e parallelo di quello di Predrag Matvejević nel Mediterraneo, e in comune ha anche il dato, indiscutibile, che “ogni esperienza è il risultato di un tenace metodo”. Nel caso di Claudio Magris si tratta di una continua, insistente e reiterata sovrapposizione con la letteratura, usata come una bussola capace di superare le latitudini e le longitudini, perché proprio “così il viaggiatore si inoltra fra le proprie allergie e i propri scompensi, sperando che in quelle fessure, incise come lame nelle quinte del teatro quotidiano, ci sia almeno un soffio o uno spiffero proveniente dalla vita vera, celata dal paravento del reale. Le manovre letterarie diventano allora una strategia per proteggere quegli strappi mal rattoppati nel sipario sulla lontananza, per impedire che quei minimi spiragli si chiudano del tutto; l’esistenza dello scrittore, diceva monsignor Della Casa, è uno stato di guerra”. Se la corrente del Danubio porta, senza alcuna possibilità di equivoco, nel cuore della cultura mitteleuropea, che Claudio Magris coltiva e sfoglia con devozione e leggerezza, e poi nei meandri balcanici, affrontati con acuta discrezione, nell’attraversare un confine dopo l’altro, prende forma una dimensione temporale astratta. Come se la storia finisse in un’ansa del fiume, “si vivono come contemporanei eventi accaduti da molti anni o da decenni, e si sentono lontanissimi, definitivamente cancellati, fatti e sentimenti vecchi di un mese. Il tempo si assottiglia, si allunga, si contrae, si rapprende in grumi che sembra di toccare con mano o si dissolve come banchi di nebbia che si dirada e svanisce nel nulla; è come se avesse molti binari, che s’intersecano e si divaricano, sui quali esso corre in direzioni differenti e contrarie”. Lungo le sponde del Danubio, da Vienna a Budapest, il tempo è un imbarazzo difficile da concedersi visto che “l’identità è una ricerca sempre aperta e anche l’ossessiva difesa delle origini può essere talora una regressiva schiavitù quando, in altre circostanze, la complice resa dello sradicamento”. Il viaggiatore che “non ha l’assillo di fuggire, ma vorrebbe fermarsi, portarsi dietro persone e paesaggi” è obbligato a trovare un modo di interpretare la realtà proprio perché quando “sta venendo cancellata con violenza, pensarla diventa un atto di fede”. È lì che le riflessioni del potamologo si evolvono in un atlante dove la letteratura è vista prima “come trasloco”, dove  qualcosa “va perso e qualcosa salta fuori da ripostigli dimenticati”, e poi come “contabilità, libro mastro del dare e dell’avere, inevitabile bilancio di un deficit. Ma l’ordine del registro, la precisione e la completezza del protocollo possono dare un piacere che compensa la sgradevolezza di ciò che viene annotato”. Sul Danubio l’elenco delle occasioni da conteggiare è sterminato: imperi decadenti e decaduti, Wagner e Canetti, biblioteche e castelli, ponti e frontiere, finché “sul ciglio del silenzio” Claudio Magris si accorge che “forse scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza, quel nulla che si apre d’improvviso nelle ore e nei giorni, fra gli oggetti della camera, risucchiandoli in una desolazione e in un’insignificanza infinita”. A quel punto Danubio diventa qualcosa di più e il pellegrino, con il bagaglio pieno di un viaggio meticoloso e appassionato può sentirsi soddisfatto si accorge che “lungo il fiume che d’estate, ci dicono, talora scompare, il passo accanto al mio è inconfutabile come quel corso d’acqua e nella sua onda, seguendo la curva delle rive, forse so chi sono”. Il carattere del Danubio, aristocratico in superficie, democratico in profondità, consente l’immediato passaggio dall’epifania individuale a quella collettiva che Claudio Magris, in conclusione, riassume così: “Noi siamo ciò in cui crediamo, gli dèi che alberghiamo nella nostra mente, e questa religione, alta o superstiziosa, ci segna indelebile, s’imprime nei nostri lineamenti e nei nostri gesti, diviene il nostro modo di essere”. Una splendida avventura.