martedì 7 aprile 2020

Fabio Cerbone

L’operazione condotta da Fabio Cerbone è singolare e specifica nello stesso tempo dato che trasforma undici canzoni americane in altrettanti racconti. Se le fonti primarie a cui attingere appartengono a visioni particolarmente raffinante ed evolute del songwriting made in U.S.A., la libera interpretazione di Fabio Cerbone consente da una parte di collocare in una nuova e affascinante prospettiva brani come Tecumseh Valley di  Townes Van Zandt, Tennessee Plates, di John Hiatt, $29.00 di Tom Waits o Mr. Bojangles di Jerry Jeff Walker. L’azzardo di Fabio Cerbone porta a rivedere completamente i personaggi di Used Cars di Bruce Springsteen riproponendoli in una Michigan Avenue ben distante dai paesaggi del New Jersey, ma è piuttosto fedele, se non altro nelle tematiche centrali della canzone, a Sam Stone di John Prine e Something Big di Tom Petty, fonti di ispirazione rispettivamente per La scheggia e Qualcosa di grande. Nel primo racconto, le ombre della guerra in Vietnam calano con il ritorno a casa di un veterano, che rimanda direttamente alle sequenze con cui si conclude Il cacciatore, anche se in questo caso la classe operaia dei Missouri affolla “l’industria alimentare e le grandi produzioni agricole della regione”, mentre nel capolavoro di Michael Cimino, combatteva negli altiforni, nelle fonderie e nelle acciaierie della Pennsylvania. Il disorientamento, la desolazione e la tragedia resta gli stessi e per Sam Stone, “l’America è un posto grande”, ma anche senza via d’uscita. La stessa sensazione di claustrofobia, nonostante l’illusione ottica dei grandi spazi e delle terre promesse, avvolge Qualcosa di grande, una short story che racconta la dissoluzione nei meandri della tossicodipendenza e che è impossibile leggere senza pensare in continuazione alla cupa e bellissima ballata di Tom Petty. L’ipotetico viaggio di Fabio Cerbone ha molti anfitrioni e molte guide, ma più di tutti sembra essere Hank Williams il suo fantasma preferito che, infatti, introduce la parte finale, ispirata da Kris Kristofferson (Sunday Morning Comin’ Down e To Beat the Devil) che sono alla fonte di Per battere il diavolo e da (Desperados Waiting For a Train di Guy Clark per I pozzi di Monahans. A quel punto siamo già “dentro il deserto”, dove nelle Frequenze clandestine ispirate da Dave Alvin (Fourth of July e Border Radio) pare di risentire l’urlo famelico di Wolfman Jack e del suo rock’n’roll sparato a tutto volume dalla frontiera messicana fino al Canada. America 2.0 è un tributo appassionato a una nazione che coltiviamo tutti i giorni, una realtà che è ancora disegnata dalle canzoni di Roy Orbison o dai romanzi di Larry McMurtry (o dai dischi del figlio James, qui richiamato da Johnny, tratta da Where’s Johnny, la canzone che apriva Candyland) e in cui Fabio Cerbone sa districarsi con grazia e abilità perché ne conosce i linguaggi, i segreti, le associazioni, i luoghi, i desideri e le sconfitte. È, palesemente, un’America che esiste soltanto in queste circostanze e grazie alla continua trasfusione di una grande passione, ma del resto il sottotitolo è un’avvertenza fin troppo esplicita. Si tratta di Canzoni e racconti di una grande illusione, e tanto dovrebbe bastare a far intuire che Fabio Cerbone dell’America ha capito tutto, o quasi. 

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