La musica è diventata una nota piè di pagina. Non c’è incontro, aperitivo, sagra, festa, appuntamento, convegno che non abbia la sua brava colonna sonora, distribuita un po’ a caso, come uno dei tanti fenomeni di distrazione di massa, senza gusto e senza speranza. Una condizione che è frutto di una lunga e complessa involuzione: già nel 1994, al tempo della prima edizione di questo pungente pamphlet, Manlio Sgalambro aveva capito che “la musica ha raggiunto il suo stato attuale da quando poté contare sull’ascoltatore come strumento inconsapevole”. A distanza di quasi trent’anni, quell’intuizione e gran parte delle argomentazioni che ne discendono sono ancora più valide e sensate, oggi, che la musica impazza ovunque, a dispetto della sua utilità o della sua inutilità, dato che “le implicazioni metafisiche” a cui necessariamente dovrebbe essere legata “sembrano sparite davanti a quelle sociali”. Sgalambro è perentorio fin dal preambolo, che è indispensabile comprendere a fondo i suoi legittimi strali: “Contro la musica: il significato dunque dev’essere inteso. Non è una volgare polemica che qui s’innesca ma una delicata questione metafisica”. Su questa precisazione, i dotti discernimenti che seguono portano a spostare la musica in ambiti non usuali, dove viene vista in prospettiva dentro e contro il mondo e se stessa. In estrema sintesi, il filosofo separa musica, suono e ascolto, in cerca di un senso che ci è sfuggito: “Tutti i suoni sono stati uditi, tutte le sonorità ascoltate. Noi soggiaciamo a questa monumentale idiozia, la musica. Solo un nuovo ascolto ci può salvare. Si deve dunque rinnovare l’ascolto, fargli carico della sua essenza riflessa e poi tornare ad ascoltare. Nell’ascolto rinnovato si deve scorgere come deve essere ascoltata la musica. Il nuovo tipo d’ascoltatore, ascolta l’ascolto”. Questo succede perché secondo Sgalambro, “la musica dovrebbe farci rimpiangere che ci sia un mondo”, compito che per essere assolto prevede che “ogni opera deve assumersi il proprio naufragio, come sorte”. Le divagazioni, necessarie e frequenti, raccolgono Strawinsky, Wagner, Mahler, Bach, Cage, Bloch, Adorno, Kant, Haydn, Schopenauer in cerca degli elementi per aggiornare un’etica e un’estetica dell’ascolto come le uniche ancore a cui si può saldare la musica, perché resti viva. Si capisce che la paradossale natura del titolo non è soltanto messa lì per il piacere della provocazione. È l’inizio di un’espressione ironica che Sgalambro dispensa sornione sapendo che “l’importanza della forma nella filosofia attuale, o che in essa sia entrata di prepotenza la parodia, mostra che la filosofia ha imboccato la strada che porta alla canzonatura, ma per disperazione”. Questa deviazione dipende dal fatto che “la felicità da musica è una felicità ristagnata. Il trionfo odierno della musica purchessia indica il bisogno di felicità a zero costo”, e un po’ di eccentricità serve almeno quanto una boccata d’aria. Per districarsi nelle proiezioni di Manlio Sgalambro serve tornare indietro di qualche secolo, nel 1733, quando Voltaire diceva: “chi non sente nulla, non sopporta nulla”. Riconoscere le banalità di una musica diffusa e generica non è evidentemente sufficiente e serve “la critica dell’ascolto, che deve essere perseguita con altri mezzi, s’affaccia qui in modo improprio nel corso di un regolamento di conti con la musica, con l’assuefazione sociale ad essa”. Sgalambro pur con una prosa volubile ed effervescente, nel caso è molto specifico quando dice che “la nascita della musica dall’ascolto è un cattivo scherzo dopo che ci si promise chissà cosa. Si crea dunque musica per l’ascolto, laddove si dovrebbe creare solo per istituire un ordine dei suoni. Per realizzare una costruzione”. Questo è un passaggio definitivo ed è un po’ l’arcano per capire che “noi dobbiamo ascoltare musica a dispetto, pur sapendo che nessuna redenzione ne seguirà e che il mondo vince pure nei suoni”. È una rassegnazione vitale che trascende l’oggetto del contendere (la musica stessa), il suo destino (il mondo e la sua rappresentazione), le sue applicazioni pratiche, verso quell’elevazione che dovrebbe essere la sua collocazione ideale.
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