Eleonora Bagarotti, che ha una certa dimestichezza con Tom Waits, avendogli già dedicato a suo tempo un’analisi specifica delle canzoni, in La voce e l’oblio riesce a condensarne la multiforme carriera in un racconto agile, chiaro e diretto, soprattutto comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Quest’equilibrio è la componente determinante che rende La voce e l’oblio un valido ripasso per chi conosce già la lezione ed è un’ottima introduzione ai futuri fans, che non mancheranno. Il racconto fa tutti gli sforzi possibili e immaginabili per mostrare la musica di Tom Waits ed è un’impresa non da poco perché la sua composizione (eccentrica per antonomasia) è tanto sfuggente quanto ricchissima. La stessa evoluzione, dagli esordi bohémien, vagando senza sosta sulle strade di Jack Kerouac negli stessi quartieri di Charles Bukowski, alla metamorfosi cubista della seconda metà della sua carriera, è delineata in modo chiaro, laddove è tutto un po’ più complicato. Si comincia da un’intervista impossibile e l’incipit detta subito l’atmosfera che si respirerà da lì in poi: “Un giorno benedetto dal cielo, al piccolo Tom fu regalato un vecchio pianoforte. Su questi tasti bianchi e neri ebbero inizio storie stonate e straordinarie, di quelle che somigliano ai dipinti di Hopper e alla solitudine di un bar sulla Route 66. Tom viveva a Los Angeles, dietro al Troubadour, dentro la sua auto. Lì, si rasava e si profumava prima di entrare in scena”. Nel mondo di Tom Waits ci si entra in punta di piedi ed è necessario confrontarsi con traiettorie linguistiche imprevedibili, con il gusto impavido del nonsense e del calembour, con suite inventate dal nulla e melodie che spezzano il cuore, e con l’ironia che rimane un’arma a doppio taglio. Il paesaggio che si attraversa è condensato così da Eleonora Bagarotti: “Le immagini descritte somigliano a fotogrammi scattati per caso da un viaggiatore notturno del fine settimana: ci sono le autostrade, gli addii, le bottiglie, i malfattori, le prostitute e anche il freddo, il movimento, l’attesa e la speranza. Il sabato notte diventa metafora di queste ultime poiché la vita sta tutta lì mentre il resto del tempo è obbligatorio, pesante, vegetativo”. La voce e l’oblio riesce nell’intento di riassumere senza semplificare, rendendo la complessità di Tom Waits in tutte le sue angolazioni, senza perdersi in voli pindarici (che pure le canzoni di Tom Waits invogliano e stuzzicano) e concentrandosi sull’essenza: i musicisti, gli aneddoti, i tratti biografici e, a scandire con naturalezza lo scorrere della sua storia nei suoi capitoli principali, gli album. Da Closing Time alla provvisoria conclusione di Bad As Me, la dissertazione discografica diventa l’occasione per ricordare Chuck E. Weiss, parte del leggendario triangolo delle notti californiane che comprendeva anche Rickie Lee Jones, così come la rivoluzione copernicana di Swordfishtrombones e, a seguire, di Rain Dogs, mettendo in primo piano i compagni delle avventure sonore di Tom Waits. Non a caso, La voce e l’oblio si conclude con un’intervista a Marc Ribot, chitarrista che l’ha seguito a lungo nelle sue peripezie, che infine il Tom Waits portatile di Eleonora Bagarotti racchiude in una precisissima definizione: “Così come Tom si è spesso inventato gli strumenti musicali prendendo oggetti apparentemente inanimati e dando loro voci di suono, allo stesso modo rende le memorie della casa vive e laceranti. Ogni oggetto parla, nel mondo di Tom, che è poi la nostra stessa vita con le sue strazianti solitudini nascoste e lui, curioso e intenerito, invece di scappare dalle disperazioni, s’avvicina per carpirne i sospiri. Basterebbe già questo per comprendere quanto al mondo faccia un gran bene l’esistenza di qualcuno come Tom Waits”. Ben detto, e se proprio andava aggiunto qualcosa è una galleria dei suoi personaggi femminili, che di sicuro a Eleonora Bagarotti non sono sfuggiti ma, come si dice sempre, non c’è il due senza il tre.
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