martedì 10 settembre 2019

Primo Levi

Ad Auschwitz, nel gergo del campo “mai” voleva dire “domani mattina”, segno che il tempo era stato azzerato in modo atroce e beffardo e per “i sommersi e i salvati” valeva soltanto “una unitaria desolazione interna”. In quel guado oscuro e privo di riferimenti, Primo Levi si accorge ben presto che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”, e costretto all’impotenza, si rivolge agli strumenti che gli ha fornito la sua formazione, i suoi studi. Con straordinaria insistenza e costanza, cerca di razionalizzare tutto ciò che succede “dall’altra parte” e nel diario della sua prigionia viene a galla quello che Philip Roth definiva “l’uomo di precisione, l’uomo che controlla gli esperimenti e cerca il principio dell’ordine, posto di fronte alla perversa inversione di tutto ciò che apprezza”. Così Primo Levi ha un rigore assoluto nel prendere le misure agli aguzzini e alle vittime, ai carnefici e ai complici, agli ignavi e ai compagni di sventura. Sa che “oggi il nostro mondo è questa buca di fango”, e non un altro, eppure con quello sguardo attonito che distingue Se questo è un uomo riesce ad aggrapparsi con tutte le sue forze a scampoli di dignità, cercando di vedere attraverso le privazioni, le violenze, le ingiunzioni di un libero arbitrio degli uomini sugli uomini, ancora un motivo per pensare, per essere, per credere, sostenendo che “tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza”. La riflessione è tutt’altro che fuori luogo: Primo Levi non dimentica nemmeno per un istante che nel lager “tutto ci è nemico”, non si abbandona mai né alla disperazione né alla minima illusione, dato che “la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo”, eppure continua con stoica dedizione a conservare con cura l’idea di una vita che esisteva, e doveva esistere ancora, lontana da quella notte “che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”. All’incredulità davanti alla devastazione sistematica, meccanica, perversa e spietata della macchina nazista, Primo Levi contrappone la semplicità che si traduce in quella accorata invocazione che spicca come un lampo nella tetra routine di Se questo è un uomo: “Consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole abitudini quotidiane”. Uno scrupolo che Primo Levi mantiene anche nel momento di far rivivere sulle pagine il ricordo del “gigantesco esperimento biologico e sociale” del campo di concentramento e si ritrova ancora sbalordito: “Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute”. Nell’elaborazione di una condizione assurda e senza speranza, osservando “sulla soglia della casa dei morti”, la certezza della scrittura è matematica più che chimica e leggere e rileggere Primo Levi resta un’esperienza doverosa.

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