L’orgoglio di una nazione: vita, morte e miracoli di Tony Pagoda sullo sfondo degli ultimi trent’anni d’Italia. Cantante melodico ancora capace di smuovere le emozioni del suo pubblico, cocainomane convinto e risoluto, playboy che dispensa saggezza e suggerimenti sull’arte della seduzione, Tony Pagoda sceglie di mollare tutto e di rifugiarsi in Brasile dove gli scarafaggi saranno la sua compagnia principale. Ma c’è un’ombra nel suo passato e il richiamo della vera giungla (quella italiana) è troppo forte. Per quanto sgradevole, cinico e irritante, Tony Pagoda ispira un’ambigua simpatia. È un personaggio che sguscia nella vita (“Alla fine, semplicemente, si cambia tanto per cambiare. Mica c’è da scomodare dio davanti ai gesti miserabili degli esseri umani”), e nella storia, con sorprendente abilità, un moralista senza morale, un killer senza armi, un cantante con una grande presenza scenica ma senza canzoni (delegate infatti, all’inizio di ogni capitolo, a una bella selezione di citazioni della canzone d’autore italiana). Viaggia con leggerezza dal camerino con Frank Sinatra a un conflitto a fuoco sui moli di Napoli, nei vicoli del suo passato e sulle onde di un futuro che lo insegue con la stessa leggerezza condita da una punta piccante di sarcasmo. È sempre il protagonista assoluto, soprattutto in quell’“orgia di transazioni” (la definizione è sua) che è l’Italia, che Tony Pagoda identifica quasi come uno stato d’animo, eleggendo a stile i peggiori luoghi comuni legati a una nazione. La sua sicurezza, la sua spavalderia sono tali che non nasconde nulla perché anche nel momento più patetico di sconforto o di felicità, Tony Pagoda sa cosa succede “nella guerra dei rapporti con gli individui” e lo racconta in una sorta di aforisma che spiega perché “hanno tutti ragione” in quattro righe essenziali: “Insegui l’imprevedibilità altrui e non hai più tempo di coltivare la tua, diventi accessorio e strumento, ti senti superfluo e inferiore, ma intanto non puoi fare a meno di inseguire la bellezza d’animo altrui. E così che nascono amori e matrimoni, imperi e dittature”. Le parole per raccontare Tony Pagoda galleggiano in un’acidità senza timidezze, eccessive, con una metafora via l’altra, e il romanzo riesce così a costruirsi un ritmo, un mondo, un taglio senza badare troppo alla grammatica, all’analisi logica e alla forma, ma affidandosi a un linguaggio che è più la lingua di uno storyteller che di uno scrittore, un cocktail di gergo, flusso di coscienza (Tony Pagoda è irresistibile quando si lancia nelle sue apodittiche definizioni: “La sera bisogna uscire, girare, mangiarsi la notte, perdersi nella merda della periferia e capire che solo la notte con i suoi accordi e le sue note improbabili ti può far capire qualcosa”), ritagli di una lingua più parlata che scritta. Forse è l’idioma adatto, se non l’unico possibile, per attraversare quella “patina di equivoci” che c’è tra i personaggi del libro (a partire da Tony Pagoda, ovviamente) e il mondo, per comprendere che il loro segreto è seguire “il ritmo delle cose” ed essere “tenaci, come tutti i falliti del mondo quali siamo”. È così che Tony Pagoda colpisce: vi strapperà un sorriso, vi racconterà la verità.
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