Cobol Pongide ed Emiglino Cicala non potrebbero essere più diversi. Musicista bizarre e saggista spaziale il primo, automa, cantante e storyteller a modo suo l’altro, tutti e due outsider in un mondo troppo lucido e composto, non potevano che incontrarsi in un angolo di Roma dove il tempo prende una piega distorta, come se già non bastasse una città ingolfata di secoli e secoli di antichità. I due poli, umano e meccanico, si trovano a confrontarsi con un’oggettistica fluttuante ovvero l’Anticaja Canaglia che comprende un’arma giocattolo (il relativo capitolo, La pistola laser avanzo del futuro, è un piccolo gioiello), un cane parlante, ammennicoli di varie forme e misure, telefoni, tastiere elettroniche, parti di computer e altri rottami analogici. Il sex appeal dell’inorganico è spinto alla massima espansione, le declinazioni da residui a residuati (come è evidente in La garitta a molte dimensioni) compongono congrue parti della memoria e del “difforme quotidiano”. Attorno a questi mercati e a tutto il relativo mercanteggiare si distribuisce una tassonomia di personaggi convinti che “gli oggetti meritano almeno una seconda opportunità (a volte una terza) e così dovrebbe valere per gli esseri terrestri, per i robot e anche gli alieni. Nel rileggere gli avanzi di rivoluzioni ed evoluzioni, spesso impreviste, si apre un varco inaspettato e una volta deformata la curva spazio-temporale, tutto può essere: il “tempo ristretto”, che in realtà è un tempo dilatato, pare espandersi fino all’ebollizione. D’altra parte trovare un senso verso il futuro di strumenti originati dal passato è un gesto che solleticherebbe anche Sant’Agostino ed è proprio così che Cobol Pongide ed Emiglino Cicala eludono le cronologie, i calendari e gli annali. A quel punto l’Anticaja Canaglia esplode ed è alimentata da quella che i benemeriti fratelli Strugackij chiamerebbero “entropia del linguaggio”, elevata in modo esponenziale nel dialogo a distanza tra Cobol Pongide e Emiglino Cicala che pur essendo un robot, “è uno che ha il suo modo di vedere il mondo e le cose”. La loro strana economia circolare genera una densissima prosa “d’artefatti fuori contesto” e scarti, scorie e trabiccoli, raccontano continuum temporali alterati, dove la raccolta dei rifiuti solidi urbani viene prima militarizzata e poi proiettata dentro una saga in cui gli zingari combattono con gli alieni per i resti di una civiltà decadente, la nostra. Vista in prospettiva, qui Roma somiglia da vicino a District 9 (compresa la disputa per una particolare tipologia di astronave), ma l’Anticaja Canaglia propone anche una deviazione consistente (e tutta da scoprire) verso la cosmonautica sovietica. Intrusioni e collegamenti sono garantiti da Philip Dick, William Gibson, Karel Capek, H. G. Wells, Blade Runner e persino dall’esimio Hal 9000. Scomodato per l’introduzione, dice molto saggiamente che siamo di fronte a una “fantascienza del quotidiano” capace persino di mettere in discussione le leggi di Asimov. Tra le righe, succedono ancora molte cose curiose: Emiglino Cicala modifica un suo corrispettivo in una macchina del caffè per distribuire appelli e Cobol Pongide promuove un “dispositivo erogatore di mezzi termini” che peraltro sarebbe molto utile in questi anni draconiani. La sua opinione conclusiva è un po’ l’apologia stessa dell’Anticaja Canaglia: “Resto scettico sul futuro giacché, ancora convinto della necessità di recuperare e riciclare, oggi è sempre più raro rinvenire un oggetto con più di qualche minuto di vita. Per non parlare di mercati zingari in cui coltivare parole e amicizie multipolari, dedicandomi a esotiche esplorazioni”. È quella la fonte della ricchezza linguistica, che va dai calcoli algebrici ai dialetti romaneschi, con un costante e ironico sorriso dietro l’angolo: se resta la sensazione che Anticaja Canaglia nasconda “la trama del sogno profondo di un algoritmo”, è tutto dire, perché ogni voce qui dentro è di sicuro più umana degli umani.
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