venerdì 6 settembre 2019

Margherita Nani

Braccato dai servizi segreti di mezzo mondo (quelli israeliani in primis) Joseph Mengele lascia la Germania e, attraverso l’Italia, prima giunge in Paraguay, poi in Argentina e infine in Brasile. È qui che diventa L’ospite della famiglia Souza in una minuscola località, Candido Godoi. È il 1955 e nessuno sospetta di uno smunto e silenzioso straniero che si fa chiamare Wolfgang Gerhard, che passa le giornate a scrivere e a leggere nella sua camera. Dietro quella riservatezza c’è l’uomo che nei laboratori di Auschwitz ha celebrato i peggiori abomini del ventesimo secolo. Un medico che ha perseguito e osservato con assiduità e senza alcuna inibizione ogni dettaglio dell’anatomia umana e che si ritrova ammaliato a scrutare, nell’afa tropicale, le linee acerbe ed eleganti di Pia, la figlia adolescente dei Souza. In quel momento L’ospite rivela la sua essenza. È tutto doppio e ambivalente: la figura di Pia, con la sua estrema dolcezza, è dirompente contro la gelida coltre che avvolge Mengele. L’idea, molto pericolosa, che sia diventato “una leggenda” come gli confida il suo commilitone Gunter Siedel aleggia nell’aria umida del Brasile, portando con sé le atroci e buie giornate di Auschwitz. Eppure, lui si mostra cittadino rispettoso e altruista, tanto da dispensare le cure mediche agli abitanti del villaggio. Qui, lo sdoppiamento diventa ancora più evidente, e scorre su un piano inclinato dove fiction e realtà storica si alternano. L’ospite, che com’è nell’etimologia della parola e nello spirito del romanzo, si può leggere in due direzioni, fa risaltare l’acida follia di Mengele, un gorgo malefico e devastante che ha trovato nell’ideologia nazista e nella disciplina militare, gli strumenti per affondarlo nel suo maniacale e ossessivo narcisismo, fonte primaria di un lugubre canto di morte. L’accostamento alla candida figura di Pia può (forse, deve) apparire improprio o incongruente, ma è legato saldamente a un’altra figura femminile, Teresa. Anche qui, un altro riflesso, quasi meccanico: se Pia è un personaggio romanzesco, Teresa è invece vissuta davvero accanto a Mengele negli anni di Auschwitz. Prigioniera ebrea, antropologa, aveva visto da vicino tutti gli efferati massacri perpetrati da Mengele in nome di un’improbabile e assurda visione scientifica e, in sostanza, espressione solo in un demoniaco sadismo. Complice per inderogabile necessità, Teresa è l’anello di congiunzione (testimoniò anche a Norimberga) tra il passato storico e il presente romanzesco e persino tra le due facce di Mengele, lo scienziato e il criminale. L’ospite si regge su questo complesso e fragile equilibrio tra opposti: un’operazione magari ingenua o temeraria che però riesce a sopravvivere nel proprio contesto grazie a una scrittura lineare, molto attenta a non lasciarsi sfuggire alcun dettaglio, scrupolosa nelle descrizioni. L’evoluzione del racconto in sé evita anche il minimo dubbio sulla brutalità di Mengele: Pia lo spinge verso reazioni umane, lui che sembra non appartenere nemmeno a questo mondo, e più lei si avvicina, più l’ombra cupa che lo sovrasta si stende dalla Germania al Brasile, e più la sua vera biografia scardina la falsa identità, cancellando con prepotenza le tracce costruite per fuggire, per negare, per sopravvivere. C’è un limite nella storia in sé, così come è stata concepita e poi costruita, ma è necessario accettarlo: quel “mondo di morti e di larve”, come l’ha descritto Primo Levi, lascito di Mengele e dei suoi aberranti simili, è un buco nero insaziabile e magnetico che avvolge ogni parola, ogni frammento in un sudario muto e funereo, che lascia attoniti, nonostante la grazia di cui dispone L’ospite. Double face fino in fondo, sul filo di rasoio tra la fedeltà alla memoria e l’istinto di regalarsi un destino più giusto, per quanto fantasioso.

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