martedì 26 marzo 2019

Carlo Boccadoro

Queste “storie di dischi irripetibili musica e lampi di vita” alternano la cronaca di esperienze personali, di ricordi d’infanzia e di studi, di orchestrazioni e di viaggi, compresi l’incontro con Philip Glass e la collaborazione con Luciano Berio, con la “recensione” di una dozzina di album. Protagonista in 12 è il girovagare di Carlo Boccadoro tra gli scaffali dei dischi, dal piccolo negozio di dischi del quartiere (dove compra per errore, o forse no, il disco della Plastic Ono Band) alla Tower Records, fatto di trasferte a New York (compreso l’aneddoto “jazzy” al Village Vanguard) o a Los Angeles, ma anche di un gusto per l’ascolto libero, attento e partecipato (come dovrebbe essere). Essendo, sì, un compositore e un direttore di musica classica e contemporanea, ma anche un grande appassionato, capace di distinguere (per fortuna) tra Donald Fagen, i Grateful Dead e gli Eagles, Carlo Boccadoro riesce a dedicare un’intero capitolo a Jamming With Edward, la storica session agli Olympic Studios di Londra tra i Rolling Stones sans Keith Richards (Mick Jagger, Charlie Waits, Bill Wyman, Nicky Hopkins) con Ry Cooder. Per rendere l’idea di come Carlo Boccadoro affronta i dischi vale la pena di dare una sbirciata alla sua disanima di Jamming With Edward, partendo da quelli che di solito vengono trascurati: “Un discorso a parte merita la sezione ritmica formata da Bill Wyman e Charlie Waits, che all’epoca erano in forma come poche altre volte nella loro lunga carriera. Del resto basta ascoltare gli album ufficiali dei Rolling Stones di questo periodo per capire che pochi musicisti avevano il punch ritmico e la sicurezza che Watts e Wyman ostentano in questa session londinese”. Lo stesso, scrupoloso trattamento Carlo Boccadoro lo riserva agli Area, contestualizzandoli negli anni delle proteste giovanili, o a Claudio Lolli, a Karlheinz Stockhausen o a Harold Budd, John Cage o al Black Album di Prince, inseguito come una misterioso oggetto non identificato da piazzare sul piatto alla prima festa utile perché, pare di capire, forse i duri non ballano, ma i direttori d’orchestra, invece sì. Il tono, pur essendo colto, puntuale e preciso, è anche leggero, sempre curioso, il più delle volte condito da una sana spruzzata di ironia. Gli episodi raccontati da Carlo Boccadoro sono tantissimi ed è curioso quello che lo vede impegnato in una conduzione notturna a Radio Popolare mandando musica, al solito (e giustamente), piuttosto ricercata. All’ennesima variazione di John Cage, un ascoltatore ormai “esasperato” lo chiama e gli urla nel telefono: “Ma trovati un lavoro!”. Per esperienza, confronti del genere in radio capitavano spesso (e suppongo capitano ancora) ed è “il bello della diretta”, però introducono a una riflessione giusta e polemica quel tanto che basta. A Los Angeles, Carlo Boccadoro lavora a Bad Blood, un’opera che verte sulla tragica e brutale serie di esperimenti volti nell’arco di quarant’anni, dal 1932 al 1972, su circa quattrocento afroamericani. I dettagli li trovate tutti in 12. Un tema scomodo, spigoloso e come sempre pericoloso quando ci sono di mezzo le subdole trappole del razzismo, ma che Carlo Boccadoro decide di affrontare comunque perché “non mi sembrava giusto stare fermo a guardare senza esprimere perlomeno un’opinione contraria alle tendenze dilaganti”. Concluso il lavoro, ma come sempre immerso nella musica, va ad ascoltare la Los Angeles Philarmonic Orchestra diretta da David Robertson in un programma di composizioni del ventesimo secolo, tra cui Edward Varèse e Frank Zappa. La sala (la Walt Disney Concert Hall) ospita 2.265 spettatori e i biglietti sono esauriti per tutte e tre le repliche. Fate voi i conti. La riflessione di Carlo Boccadoro, alla fine di 12, è inevitabile (e condivisibile): “Mi convinco sempre più che le leggende sulla musica contemporanea incomprensibile che mi vengono ripetute da decenni siano lo patetiche scuse per giustificare la pigrizia mentale e l’ignoranza di troppi operatori musicali del nostro paese”. Come ben sappiamo, questo non vale soltanto per la “musica contemporanea incomprensibile”, ma anche per modelli molto più “accessibili” che purtroppo, e/o per fortuna, non corrispondendo agli standard di banalità e di idiozia, ormai sono trincerati in piccoli rifugi di provincia.

Nessun commento:

Posta un commento