Le note di viaggio che si sviluppano tutte attorno alla vita dei Gamuna nascondono, dietro lo sguardo etnografico e antropologico, e l’illusione di un popolo, o due, una forma di narrativa che torna ad essere strumento e mezzo di indagine, di comprensione, di conoscenza, se non altro un coraggioso tentativo di avvicinare “la grande allucinazione del mondo”. In questo processo, Fata Morgana ha solide radici nelle Avventure in Africa e non soltanto per gli orizzonti e i paesaggi che condivide, ma proprio per la stessa predisposizione a rincorrere “dietro soltanto a quello che non si è capito bene”. La fantasmagorica realtà dei Gamuna, che hanno una lingua che cambia intonazione e significati con il trascorrere della giornata, che sembrano schivare con innata naturalezza ogni tensione, e che coltivano pazientemente il gusto del paradosso (uno dei motti degli anziani Gamuna è: “Tutto quello che ti attraversa non sei tu, eppure tu sei solo quello”), si riflette, in un mirabile gioco di specchi, di ombre e di luci, con gli effimeri passaggi di un’altra civiltà, quella occidentale, quella cosiddetta moderna. Nella Gamuna Valley si presenta con una galleria variopinta di personaggi (Victor Astafali, Augustìn Bonetti, sorella Tran e tutti gli altri da scoprire tra le righe) che evocano colonie, missioni, avventure, studi e reportage insieme all’ombra, costante ed inquietante, di una guerra che non finisce mai. Separati simmetricamente, i due mondi guardano però nella medesima direzione, che è poi l’unica, come scrive Gianni Celati in un passaggio che è un po’ la chiave di volta di Fata Morgana: “Dicono che ognuno corre dietro a certe illusioni e nessuno può farne a meno, perché tutto fa parte d’uno stesso incantesimo. Dicono che alcuni miraggi sono mortali o procurano guai, altri danno l'impressione di soddisfare la fame o la sete, le voglie carnali o i sogni di gloria. E i miraggi del deserto sono particolari solo per questo: perché mostrano che inseguendo le illusioni ci si sbaglia sempre, e non c’è modo di non sbagliarsi, e la vita non è che un perdersi in mezzo ad allucinazioni varie”. A quel punto, il resoconto dei viaggi nelle terre dei Gamuna, un popolo immaginifico che è nello stesso tempo complesso e ingenuo, diventa qualcosa in più dell’occasione per il ritratto fedele di una varia umanità di outsider, viandanti, avventurieri, filosofi, soldati, sognatori e fuggitivi d’ogni specie, perché poi “ognuno va per la sua strada, poi ci si ritrova come sopravvissuti a epoche di buone amicizie, col pensiero d’essere rimasti fermi là con la testa, e quel che viene dopo è un epilogo”. Le storie, sembra di capire, sono l’unica mappa che può essere ancora utile a fuggire l’incubo della realtà e a coltivare l’illusione di esseri vivi, ma anche in quel senso Gianni Celati, forte dell’esperienza nel deserto, reale o immaginaria che sia, si mantiene a distanza di sicurezza: “Io non mi occupo dei miraggi degli altri. Lo so, lo so che ognuno ha i suoi, ma non sta bene farli notare. Altrimenti insorgerebbe l’altro miraggio di volerli curare, di voler estirpare un altro dalle proprie stravaganti illusioni”. La distinzione s’impone, i pensieri fermentano, l’avventura continua.
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