mercoledì 17 febbraio 2021

Paolo Paci

Un percorso dentro le montagne e nella storia della guerra (la prima guerra mondiale, e molte altre) si evolve in Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave. Quello di Paolo Paci ha l’aspetto di un pellegrinaggio, scevro però di ogni retorica e anzi predisposto, per quanto possibile, al confronto con la modernità. È un diario da “semplice viaggiatore” nelle terre di frontiera e negli anfratti del tempo dove “la storia si fa racconto, canzone, mito, infine si dissolve come manifesti che sbiadiscono al sole”. Caporetto è la boa, nello spazio e nel tempo, attorno a cui ruotano la percezione e i sensi di Paolo Paci. Se Franco Cogoli, fotografo e anfitrione veneto, sostiene giustamente che “la presenza della guerra è opprimente”, il territorio è il vero protagonista e il senso per i luoghi, dalle trincee alle osterie, dagli alberghi ai sentieri, dai ponti ai boschi, permea tutto l’itinerario di Paolo Paci. Il tono è cordiale e tiene conto degli incontri e delle frontiere, dei sapori e dei ricordi, allineando alla selezione di letture e visioni con Hemingway, Gadda, Lussu, Uomini contro di Francesco Rosi e La grande guerra di Mario Monicelli, gli assaggi enogastronomici tra Veneto, Friuli e Slovenia: i pesci, il formaggio, il vino. Gli intervalli conviviali servono anche a stemperare la tensione perché la mappa è costellata di massacri devastanti che hanno lasciato ferite indelebili nella terra. La ricostruzione dell’epoca attinge a numerosi fonti e testimonianze che concordano nel vedere come “si assiste a un paese che langue accanto a un paese che lavora freneticamente, e per ogni mille che perdono la casa o muoiono di inedia c’è un industriale, un politico, un faccendiere che accumula enormi capitali”. Una considerazione economica, sociale e politica del conflitto in cui è maturata la disfatta (e poi la riscossa) di Caporetto è inevitabile, ma poi di fronte ai cimiteri, ai memoriali e agli ossari, all’enormità di una strage insensata e spietata, Paolo Paci non può che inchinarsi alla maestosità di tanto dolore: “La guerra ha messo a nudo l’uomo. L’esperienza estrema della sofferenza l’ha privato di ogni orpello culturale, persino del nome proprio, riducendolo a uno scheletro (metaforico e no). Per questo la grande fossa comune del Grappa è significativa: il vero protagonista qui è il milite ignoto, che anche quando è nemico smette di essere nemico, e si dissolve e diventa tutt’uno con la montagna”. È un po’ il capolinea, a cui ci si arriva gonfi delle vicende di un’umanità che Paolo Paci sa raccontare con partecipazione, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni e con lo sguardo capace di abbracciare i drammi personali, le piccole e grandi biografie, l’evolversi degli eventi bellici e i loro effetti sulle genti da una parte e dall’altra del confine e del fronte. È un bel vademecum che si addentra con garbo e con tatto su un crinale pericoloso, dove l’equilibrio è un requisito indispensabile alla condivisione del racconto perché, come scriveva Claudio Magris in Itaca e oltre, “la tragedia può abbattere e annientare gli uomini, ma non intacca l’integrità e l’unità della loro vita, non incrina le certezze del loro buon combattimento, non sminuisce la forza e la decisione con le quali essi mettono in gioco o sacrificano la loro persona; la tragedia può distruggere la vita, ma non il suo significato”. Caporetto è perfettamente allineato a questa distinzione per il suo afflato alla ricerca di un valore importante, che sia un gesto salvato dalla memoria, una frase in un libro o una pietanza consumata in solitudine, come se fosse possibile possibile una piccola riparazione, se non altro simbolica, a una devastazione secolare.

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