Nella letteratura resistenziale, Fermammo persino il vento è destinato a trovare ben presto un posto speciale perché rappresenta un snodo particolare. Pur senza presentare alcunché di inedito, l’antologia acquista un peso specifico perché i racconti sono valorizzati e focalizzati dalla rinnovata lettura di Marco Codebò e Domenico Gallo, che costruiscono nell’introduzione iniziale (soprattutto) e in quelle tematiche che aprono ogni singolo capitolo, una costituzione di senso, attraverso un’analisi importante, che indica un percorso raziocinante sui valori della Resistenza, per una volta, schivando i rischi della retorica, degli anniversari e delle celebrazioni. La vocazione è dichiarata con estrema precisione nel saggio iniziale, Anteriorità della Resistenza, dove i curatori delineano un’aggiornamento, molto utile e molto necessario, dell’idea di Resistenza, spiegando che “resistere è la capacità della singolarità, di mantenersi al di là del rapporto di potere. Ma per far ciò la resistenza deve precedere il momento in cui una certa singolarità si colloca all’interno di un determinato rapporto di forze: la resistenza è la forza che resta prima e fuori. Il passo iniziale della resistenza è infatti l’autonomia dal rapporto di potere”. Il suggerimento trova applicazione pratica nello svolgimento dell’antologia che offre uno spettro pratico ed esaustivo nello stesso tempo. L’origine eterogenea delle storie trova una collocazione coerente proprio grazie a questa struttura che offre una lettura da angolazioni diverse, perché come notano i curatori, “è accaduto infatti, a causa della tragedia della guerra e del progredire dei fronti, che i letterati siano stati protagonisti e non meri osservatori, e allora romanzi e racconti divengono i tasselli della storia. Non è una storia solo militare, ma uno strano racconto fatto di fughe, resistenza civile, opposizione, solidarietà e non collaborazione con i nemici, così da rappresentare quel quadro complessivo che si era formato nell’Italia occupata e che aveva abbracciato il movimento partigiano”. Il racconto si svela la forma ideale, per la concisione, per l’immediatezza e per la densità dei dettagli ed è collocato in un’ottica adatta a una svolta, dove “per uscire dalla fede e tornare coi piedi per terra possiamo partire dalla Resistenza che racconta, o meglio da quella particolare esperienza della resistenza che è il raccontare”. Ovviamente, le particolari condizioni in cui si è sviluppata questa letteratura sono ben evidenziate, a partire da quello che scriveva Alba De Céspedes nel settembre 1944, ovvero che “ogni energia intellettuale ha dovuto operare in zona d’aria condizionata, a prezzo di rientramenti, deviazioni, mutilazioni”. Ma in Fermammo persino il vento le storie sopravvivono proprio grazie alla qualità della narrazione e valgano, come esempi, il racconto di Angelo Del Boca, vivido e realistico nello stesso tempo o Calce sul muro scritto da Gino De Sanctis con lo pseudonimo di Partizan, che ricostruisce con metodica accuratezza un eccidio dei nazisti in ritirata. Gli eventi bellici sono una costante, ma in Fermammo persino il vento trovano posto anche amicizia e solidarietà e una tensione intellettuale nel cercare di comprendere uno sforzo stoico e generoso. La valutazione di Marco Codebò e Domenico Gallo è essenziale e, in sé, attualissima: “Chi sceglieva di combattere con i partigiani sapeva di certo contro cosa lo faceva, ovvero il fascismo e l’occupazione tedesca. Meno nitida era la cognizione del per cosa si combatteva, quale tipo di Paese uno si aspettasse di costruire attraverso la Resistenza. L’Italia libera era l’obiettivo chiarissimo sul livello ideale, ma meno nella sostanza, perché dopo vent’anni di dittatura nessuno aveva un’idea di cosa fosse davvero la libertà, di quali istituzioni la garantissero e di quali limiti la costringessero”. È un interrogativo che parte proprio da quei giorni, quando, con grande lucidità, Alba De Céspedes scriveva: “Il conto non può farsi oggi e del resto un certo pudore vieterebbe di farlo. Anche perché la partita singola prende corpo e valore solo se associata a quella degli altri. E gli altri, in questo caso, sono molti, e sconosciuti, e distanti. È il totale che conta, e non la cifra particolare. Ma la storia, invece, è fatta di particolari, dell’apporto minimo che ciascuno ha recato, del granello di fede, di speranza, di rischio, di tenacia che ciascuno ha bruciato”. Ecco, allora è validissimo il consiglio dei curatori di Fermammo persino il vento quando dicono che queste storie dovrebbero essere utilizzate “come un grimaldello con cui aprire a viva forza altri racconti della Resistenza per cavarci fuori quello che dovrebbe essere in realtà già visibile, nascosto com’è sotto l’evidenza”. Una lettura necessaria.
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