La scrittrice croata Dubravka Ugrešić diceva: “È una questione di mondi paralleli. Il nostro mondo, sia reale che mentale, è l’intreccio di una fitta rete di altri mondi che scorrono paralleli. È così che viviamo la nostra piccola vita. Ognuno va per la sua strada. Se solo per un attimo ci mettessimo a pensare che esistono dei passaggi tra i mondi paralleli, sarebbe il caos. Ecco perché, almeno per quel che riguarda la circolazione dei pensieri, maneggiamo le metafore. Per difenderci dalla confusione”. Il messaggio era contenuto nella Cartolina estiva, resoconto del suo approdo all’Isola Calva alias Goli Otok, un tempo terribile gulag del regime di Tito, e sembra valere alla perfezione anche per i personaggi di Zastava 999. Sulla stessa spiaggia della costa adriatica arrivano Riccardo e Milena, una coppia di italiani ormai al capolinea sia della vacanza che del loro legame. Abbandonati da loro traghettatore, trovano ospitalità in un malandato ristorante gestito dai resti di una famiglia che Daniela Morandini presenta così nella prefazione: “Darko, Katica e Goran sono figli di una generazione di dolore e di guerra, di peccati e soprusi, di una maledizione eterna quanto la storia stessa dell’umanità. Riccardo e Milena sono due turisti ignavi e inconsapevoli, distanti dalla storia quanto sono distanti da se stessi, emblema della voragine consumistica che con la sua voracità annienta e annerisce ciò che incontra”. Il piccolo naufragio e il grande, violento gorgo della storia si scontrano subito perché come scriveva Claudio Magris in Alla cieca: “Il pozzo è profondo, il secchio è pesante, ricade giù e se ci si sporge per trattenerlo si può cadere con lui”. Seduti attorno a un tavola imbandita Riccardo e Milena, Darko e Katica si trovano ai quattro angoli e ben presto le traiettorie delle loro esistenze si incrociano in mille scintille. Riccardo è il primo a compiere un passo falso: “E allora, quando s’ingoia un boccone amaro e non si riesce a digerirlo, l’unica cosa che resta da fare è vomitarlo fuori. Liberati, amico mio, raccontami qualcosa dei tuoi orrori: hai trovato in me uno che ti ascolterà con il massimo interesse”. Qui saltano un po’ i parametri perché l’evocazione dei fantasmi non tiene conto della distanza e della prospettiva e per Darko che ha vissuto tutte le ferite balcaniche la risposta è lapidaria: “C’è la guerra raccontata dai libri di storia, che elenca in dettaglio le manovre delle truppe messe in campo, come se ogni battaglia fosse una partita a scacchi tra generali avversari, anziché un’orrida mattanza. C’è la guerra della retorica, delle fanfare, dei vessilli che garriscono al vento e dei proclami che incitano i soldati all’eroismo, esaltando l’amor di patria. E poi c’è la guerra vera, lorda di fango e di sangue, disseminata di morti e mutilata, condita di stupri, gridi di rabbia, di paura e di dolore”. Gli spettri di Vukovar e i lamenti di Goran, suo padre, che sta morendo in un’altra stanza, prigioniero del campo di concentramento. Nella drammaturgia di Patrizio Pacioni il monologo di Darko, spezzato soltanto dagli interventi degli altri commensali, porta in meandri contorti perché “la guerra è un mutaforma mai uguale a se stesso. Una massa oscura che cambia aspetto a seconda dell’angolazione da cui la si guarda”. Le rivelazioni sono inquietanti e pericolose finché Darko sfoggia un’arma, la Zastava 999, del titolo carica, perché “una pistola scarica è solo un giocattolo, e i giocattoli sono roba da bambini” ma che per l’occasione è “solo un supporto visivo utile a rendere più suggestivo il racconto”. La tensione diventa palpabile, insieme alla deviazione di Darko che dice: “Mi chiedo come sia possibile che non si rendano conto che ogni giorno la vita ci spara addosso proiettili ben più mortali di quelli che possono uscire dalla canna di una Zastava”. L’epilogo è temibile e conferma quello che diceva lo scrittore bosniaco Dževad Karahasan: “Noi possiamo sopravvivere solo in forme di esistenza culturali”. Le ombre rimangono tutte, il sipario è un sollievo.
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