Milano è “una città di giardini segreti dietro portoni di legno e citofoni di ottone tirati a lucido, con numeri al posto dei cognomi”. Questa collocazione suggerisce già la condizione generale in cui si muovono i personaggi di Pretendi un amore che non pretende niente, avvolti, proprio come le vie in cui si muovono di “una bellezza discreta e travolgente al tempo stesso”. È tutto sospeso nella fragilità di quella zona chiaroscura tra l’adolescenza e a un tempo imprecisato che scarnifica i giorni e riduce al minimo i rapporti. Il più delle volte l’età adulta è un passaggio ancora da compiere, che si porta dietro i resti di incontri, separazioni, partenze e ritorni. Si chiamano di Irene e Viola, Elisa, Niccolò, Giorgia, Margherita, Luca, Gaia, Claudia, Diego e Riccardo, non sono volti difficili da immaginare, e cercano di districarsi nella ragnatela concentrica di Milano, ma soprattutto vengono colti nell’elaborare la distanza con l’altro e/o l’altra perché come giustamente dice la protagonista di Ci sono notti, “cercare una persona e pensarla sono due cose diverse”. In modi diversi e, proprio per questo, narrati con un differente abito, si trovano tutti in mezzo a un guado: piove ma c’è il sole, ci sono i Radiohead e Dino Buzzati, i fari degli aerei e i riflessi nei finestrini del tram (onnipresenti, e scandiscono il ritmo con la loro tabella di marcia, incidenti compresi), le cornici sfuggenti dei sogni e dei ricordi, albe e tramonti e, ancora, gli angoli e le ombre di una Milano notturna, dolce, segreta che adesso bisogna cercare con una lanterna magica e con molta fortuna. La ricerca della giusta tonalità di luce, compreso l’omonimo racconto, è continua, ma non è una semplice decorazione: c’è una rarefazione delle immagini che riesce a definire legami fugaci vissuti quasi in una dimensione lattiginosa, sfuggente, comune a tutti i racconti di Pretendi un amore che non pretende niente. L’atmosfera generale è un sipario ondeggiante e ingannevole, che si contrappone alla precisa delimitazione nel recinto nelle circonvallazioni, come se gli aspetti emotivi avessero assorbito l’ininterrotto movimento della città. È proprio lì che Francesca Cerutti prova a tessere i delicati fili che intrecciano le storie d’amore e d’amicizia. Sono trame molto fragili, pronte a incrinarsi per un gesto, un silenzio, una frase, corpi che si sfiorano, promesse che svaniscono. La grazia della scrittura, una leggerezza che riesce a mantenere l’equilibrio in tutti i cambi di registro, rende le storie piccole, fedeli istantanee dei nostri tempi, dove per essere abbandonati basta un messaggio digitale, e tanti saluti. La scrittura appare una soglia da varcare o un appiglio, come succede in Una nuova insubordinazione, forse è proprio la “piccola ribellione” di Salinger, spiritual guidance di Pretendi un amore che non pretende niente nel suo complesso. Setacciare le parole, pronunciate o (spesso) non, riporta alle prime avventure in nome dell’amore e dell’amicizia, alle scoperte e ai drammi dei giorni di scuola ormai ridimensionati, ai tentennanti passi tra la zavorra dei rimpianti e l’incombere del futuro e, per parafrasare la stessa Francesca Cerutti in Un presente diverso, diventa “qualcosa di indefinito e bello”. Un po’ come Milano, un po’ come chi affronta la scrittura con cautela, sbirciando negli androni. La sorpresa potrebbe essere lì dietro, attendiamo sviluppi.
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