domenica 2 giugno 2024

Giuseppe Cortina

A volte basta poco per ritrovarsi in “una storia più grande di noi” da cui è difficile districarsi, se non con l’aiuto della lettura e della scrittura, due strumenti che per molti motivi collimano mentre ci si inoltra verso La casa dei tre giorni. Andrea, di professione autista (e qui si sovrappongono le sfumature autobiografiche di Giuseppe Cortina, all’esordio letterario), ha uno spiccato senso per l’osservazione e incappa in una deviazione tra il paesaggio laborioso della Brianza e le sponde del lago di Como che attira la sua attenzione verso un luogo che chiamano, appunto, La casa dei tre giorni. L’impressione si trasforma in un sogno, poi nella volontà di scoprire di più, di conseguenza in un viaggio nel tempo. Il lago è sul confine e sul finire della seconda guerra mondiale è una meta frequente da chi, all’improvviso, si trova braccato. Nel crollo del regime e nell’avanzare del fronte la fuga resta l’ultima possibilità, anche se l’istinto per la sopravvivenza spesso è sottomesso alla rassegnazione. Il rischio di essere catturati e fucilati è all’ordine del giorno. Da lì si genera un’escursione nella memoria che coinvolge tutti i sensi, con Giuseppe Cortina che riesce, come è accaduto poche altre volte, a raccontare la pietà umana verso gli ultimi giorni di un dittatore, il cui destino è segnato. Non era, e non è, un’impresa priva di rischi, ma La casa dei tre giorni avvince per l’atmosfera sospesa in una sorta di soffice bruma che domina la superficie lacustre, rendendo tutto ovattato, ma anche misterioso. Lo sviluppo, naturalmente, tiene conto della ricostruzione storica (almeno di quanto reso noto dalla ricerca) e la fine dell’ingombrante ospite e della sua amante è nota a tutti, ed è inevitabile affrontare La casa dei tre giorni senza tenere conto di questo limite. La sfida, dal punto di vista narrativo, era proprio quella di confrontarsi con una conclusione già scritta, eppure Giuseppe Cortina lascia intravedere uno spiraglio nella storia, mostrando lati imprevedibili e dolenti, anche se si tratta del cupio dissolvi di un dittatore e del suo regime. Quelli caduti prigionieri “del loro piglio autoritario e arrogante degli anni del potere non rimaneva niente; mentre si avviavano al patibolo erano ombre senza corpo, qualcuno bisognava sorreggerlo per non farlo cadere, la paura tagliava loro le gambe. Furono uccisi senza onore, come avevano vissuto, attenti solo ai loro meschini interessi”. Ad annodare, la figura della contessa, che dal passato ricorda come “il futuro prossimo non lasciava intravedere neppure un barlume di speranza, ma solo minacce e nuvole nere. In fondo, da due giorni eravamo tutti prigionieri, ognuno col suo destino da compiere, un destino che si allungava in ore che sembravano infinite. Il tempo però non si interessa delle nostre piccole vite e mette in fila i minuti facendoli marciare come soldatini ubbidienti, fino alla fine dei giorni”. Giuseppe Cortina costruisce una trama avvincente dentro il complesso reticolo della memoria storica, dei ricordi personali e in un contesto onirico. Ha una delicatezza e una grazia nell’affrontare passaggi spigolosi che riesce a rendere convincenti inquadrandoli con una scrittura limpida, diretta e concentrata sulle immagini. Non sfuggono certe simbologie (la presenza costante dell’acqua) o alcune metafore (la costante della strada) che Giuseppe Cortina aggiunge come fondali per ricordare quel momento in cui ai due ospiti che occupano La casa dei tre giorni, “il destino volle regalar loro pochi attimi di libertà, illusoria e fugace, una libertà che quell’uomo aveva negato tante volte negli anni del potere e che in quei giorni diventava anche per lui qualcosa di prezioso, di impalpabile, un desiderio che da lì a poco gli sarebbe stato negato per sempre”. Un romanzo che fa riflettere e fa scoprire un autore capace di entrare in punta di piedi, con discrezione, fino al cuore della storia.

lunedì 27 maggio 2024

Brevevita Letters

Quando Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia scriveva che “le Marche sono un plurale” offriva un codice di lettura che si adatta alla perfezione al carattere picaresco e effervescente della scrittura di Natalino Capriotti alias Brevevita Letters, che ha una chiara connotazione geografica e antropologica, ma nella sostanza è un potente grimaldello metaforico per ogni provincia che si rispetti. Il paese di Centobuchi è un po’ l’epicentro di un terremoto esistenziale proteiforme che si snoda attraverso le gesta di Vito Riga e altre persone che si possono ricondurre ad alcune limitate aspirazioni: il calcio (dilettantesco), il sesso (l’amore è fin troppo complicato) e le sostanze ricreative (mettiamola così). Attorno ai cinque principali protagonisti galleggia tutto un universo di personaggi che deambulano lungo le strade della provincia marchigiana. L’industria locale produce produce “mobiletti per cesso”, alcol e droghe sono rimedi contro la noia e nello stesso tempo trappole che la rilanciano all’infinito e la riproducono senza limiti. Il tempo pare fermarsi attorno a riti inarrestabili, a una metafisica imprevedibile (fintanto che arriva un fantasma a spiegare le trame inseguite da Vito Riga e altre persone) con la colonna sonora di Pixies, Pavement, Damien Jurado e Radiohead. Dietro il sarcasmo, però c’è la sensibilità per vite travolte dall’alienazione, dal disorientamento, dall’omologazione, dai dubbi e dall’eroina. La forma del racconto cambia spesso, come se non ci fosse un centro, ma solo un pulviscolo di emozioni. I personaggi svettano su una montagna di imprevedibilità e l’insieme è surreale, come un bar sport in acido, ma è anche un ago ipodermico infilato in profondità nelle infezioni della provincia, immobile e ipnotizzata da se stessa e dal suo vuoto. Natalino Capriotti alias Brevevita Letters usa un argot che è una corda tesa tra forme dialettali, colloquiali, flusso di coscienza e comicità, il più delle volte involontaria. Il linguaggio perfetto per i cinque dell’apocalisse quotidiana che si inseguono (e si perdono, e si ritrovano) in viaggi stralunati (fino in Polonia), come se fossero palline di un flipper di uno dei tanti bar, dove si svolgono gran parte dei loro piccoli e grandi drammi. I ritratti sono di volta in volta esilaranti, spietati, agrodolci, frizzanti come una birra o4, presenza onnipresente e dominante, insieme ad altri pasticci, che però non distoglie dall’apprendere che “le più grandi opere d’arte sono le persone. Producono le più grandi emozioni. Scorrono lente e inarrestabili come un fiume che si porta dietro tutto, compresa l’immondizia che sta scivolando dagli argini, giù, nelle acque paludose in cui annegheranno le storie”. La Quaglia, Morbidezza, Diaz e molti altri eroi vi verranno incontro spavaldi con tutta un’umanità dolente alle spalle, perché come dice Diaz “la televisione non è le persone” e “le persone sono un’altra cosa: Castorano, Offida, Ascoli, San Benedetto. Le persone le trovi su quei campi di pallacanestro di periferia. Quei parchi di cemento piatto dove i vecchi vanno a cantare l’ultimo blues. Quei posti chiarissimi dove il sole è grande. Così epico e leggendario che lo puoi quasi abbracciare. Los Angeles e Porto d’Ascoli possono essere la stessa cosa”. Prima di tutti, Vito Riga è protagonista di “un potente trip di allontanamento dalla vita umana”, che è l’introduzione, anche stilistica, a tutti gli altri outsider, come scrive Brevevita Letters, “sì perché sembrava che gli attimi immediatamente antecedenti la scomparsa fossero permeati da un grave tono di austerità e castigo. Sembrava appunto che in Italia, dove tutto è ridicolo, nel momento in cui sparisci devi iniziare a essere serio”. Morbidelli non è da meno con quei “quei quattro centimetri in più che fanno di un uomo un modo di essere. Di un tocco di palla una poesia”, ma un ruolo di rilievo tocca a Vespasiano che offre tutta una sua particolare apologia, molto adatta a sintetizzare l’essenza di Vito Riga e altre persone, quando dice: “Dobbiamo sempre ricordarci che ovunque nel mondo esiste tanta bellezza, e che esiste sempre qualcuno in grado di fabbricarla, questa bellezza, nei luoghi più inaspettati, con gli attrezzi più rudimentali, perfino in uno scantinato di cemento nella baraccopoli numero tre”. Rocambolesco, amaro, vitale.

venerdì 26 aprile 2024

Paolo Scardanelli

L’Irlanda e la Provenza, la Grecia e la Sicilia, Milano e Firenze, il viaggio di mille vite che in ogni sua tappa diventa una rappresentazione del pensiero e un riflesso della geografia delle emozioni. Tra Greta e Bruno, Paolo e Francesca, Andrea e Anna si profila un nuovo ordine, come se le costellazioni di Scardanelli abbiano infine trovato un’impossibile logica tra i fantasmi che si rincorrono verso gli orizzonti che L’accordo ha aperto nelle puntate precedenti, con repentini salti nel tempo e nello spazio. Uno squarcio porta nella Firenze new wave, quella dei Litfiba e dei Diaframma, dove Paolo vive un’intensa e tormentata love story con Francesca. Molti anni dopo è diventato, per sua stessa ammissione “una sentinella del tempo presente” e intorno a lui ruotano il passato, i ricordi, i sogni e la concezione definitiva che la vita sia “una dannata benedizione: appesi su di una croce, il volto contratto in una smorfia di dolore ma sorridenti per una consapevolezza che prezzo non ha. La vita vale la pena d’essere vissuta solo per questo: la benedetta consapevolezza che siamo fottuti. Tutto il resto è noia”. Il racconto di Paolo, l’alter ego di Scardanelli e protagonista della saga, rimbalza da una personalità all’altra, senza temere cambi di prospettiva. C’è Bruno, braccato da feroci criminali, c’è Anna, la madre, più volitiva e affascinante che mai e, di nuovo, c’è lo spettro di Andrea, e ancora Milano, la torre Velasca come un totem che sorveglia ritorni e partenze in continuazione, con un’assiduità estenuante perché la vita è fatta proprio così, senza sosta, e “non apparteniamo mai davvero a un posto sino a che non l’abbandoniamo; a quel punto il ricordo di ciò che eravamo in un’altra vita, in un altro luogo, ci afferra il collo e ci fa provare la più struggente delle nostalgie”. Restano istantanee di famiglie sfuggenti, ma tutto rientra nel flusso inarrestabile della scrittura di Paolo Scardanelli perché “i nomi sono connessi alle persone, le persone alle cose e ai luoghi. E, quindi, ai nomi. I nomi stanno alla vita come il sale agli ingredienti: ne determinano il sapore. E l’orientamento”. Le tormentate creature di Paolo Scardanelli esprimono tutta una gamma di sfumature dell’esistenza, con un finale eclatante dove l’intersecarsi delle vite si risolve in tragedia perché, pare di capire, davvero non c’è Un posto sicuro. La loro posizione è definita dagli eventi che si succedono, e che tentano di comprendere, e “allora tutto quello che s’agita in queste pagine, tutto il sangue e le lacrime e il dolore e i ricordi e le vite e le morti che trasudano da queste come innumerevoli altre pagine, altro non sono che un’epifania; quella dell’inconscio che, attraverso la memoria, si fa realtà”. Questo scostamento è necessario per penetrare in Un posto sicuro e del resto Scardanelli pensa che “forse dovremmo passare tutti una settimana in un campo di zingari. Guardare il mondo che crediamo ci giri intorno dritto negli occhi, soccombendo se necessario, e lo è necessario, ve l’assicuro. A onta del nostro orgoglio. Della benevolenza e dell’amore verso il prossimo”. A volte, il ritmo accelera (senza pietà) o, al contrario, rallenta alla velocità di un brindisi con un vino pregiato scoperto per caso (e per fortuna) o asseconda le canzoni di Ben Watt, Robert Wyatt, Neil Young e Amy Winehouse (su tutti) e fiorisce di citazioni esplicite e implicite, condito dalle digressioni filosofiche o dalla certezza che “talvolta abbiamo bisogno di dire bugie. Prima a noi stessi di modo che possiamo crederci, quindi, una volta che ci siamo bene convinti, possiamo estenderle agli altri, mettere la testa nella sabbia e andare avanti così. Anche per anni. Per una vita intera se necessario”. E così Un posto sicuro non si troverà mai tra le pur intense coordinate geografiche, piuttosto Paolo e Scardanelli avvisano che “la salvezza è una questione di volontà”, e soltanto nel florilegio in sé della scrittura resta una nota di speranza.

venerdì 8 marzo 2024

Marco Fazzini, Roberto Jacksie Saetti

Un testimone di molti tempi, un viaggiatore, un grande songwriter, un esploratore infaticabile, Eric Andersen si è sempre trovato nel luogo giusto: il Village, Woodstock, la Rolling Thunder, insieme a Janis Joplin e a Joni Mitchell, accanto a Bob Dylan o a Lou Reed, come se avesse prenotato un posto da osservatore privilegiato. In realtà è stato a sua volta un protagonista assoluto, capace di assorbire una quantità spropositata di bellezza in forma di romanzi, canzoni, viaggi e poesie, album in omaggio a Byron, García Lorca, Heinrich Böll e molto altro ancora. In Mingle With The Universe li racconta confidandosi a un manipolo di amici italiani (e americani) che hanno libero accesso alle sue passioni, e spesso le hanno condivise in un modo o nell’altro. In cima alla lista, Marco Fazzini e Robert Jacksie Saetti sono in realtà i cardini di una moltitudine di autori (Giorgio Checchin, Anthony DeCurtis, Barbara Di Dio, Gregory Dowling, Michele Gazich, Ian MacFayden, Stephen Petrus, Paolo Vites) che rincorrono Eric Andersen nelle sue odissee e seguono i non pochi fantasmi lungo la strada. È così che Mingle With The Universe è un caloroso omaggio a Eric Andersen, ma anche e soprattutto alla sua curiosità, emanazione diretta della stessa fame di arte & meraviglia dell’amica Patti Smith, ma convogliata con un entusiasmo immediato, diretto e contagioso. Eric Andersen è un raro esempio di artista che coltiva la cultura senza sosta ed è insaziabile nel procurarsi il pane quotidiano. Nelle pagine di Mingle With The Universe la sua attitudine è esplorata con lo stesso entusiasmo e nella lunga ed esaustiva intervista introduttiva, viene descritta la sua dedizione alla letteratura (“I grandi scrittori per me sono come angeli protettori, angeli posati su una spalla a controllare che il lavoro sia ben fatto. Non si tenta mai di imitare i propri eroi. Ti stanno solo accanto, e controllano che ci proceda, che non si finisca in acque basse o nel cliché di pensiero e immagine. Ti dicono che non sei solo. E ti incoraggiano”), l’ammirazione per i sogni e le strade della Beat Generation (“L’eredità dei Beat sta nel fatto che hanno introdotto gli americani, e la gente d’ogni parte, a un nuovo modo di pensare e di vedere, offrendo una alternativa e un modo libero di esistere, facendo respirare la vita, goderla, esserci dentro”), l’afflato verso la scrittura e la lettura (“I libri sono come delle finestre sacre verso mondi sconosciuti”) e le dissertazioni sulle magie del songwriting (“Forse le canzoni non hanno un’origine nel reale. Forse fluttuano solamente nelle nubi, e aspettano di essere tirate fuori dall’aria sottile”). Non a caso il centro di Mingle With The Universe è occupato da una selezione di quelli che chiama i suoi “documentari interiori”, ovvero le canzoni che, secondo l’illustre parere di Anthony DeCurtis, “senza tener conto dei suoi diversi soggetti, sembra aver scritto da un luogo profondo dentro se stesso”. Forse, tra i tanti indizi autobiografici, vale la pena ricordare che in Time Run Like a Freight Train celebrava “il poeta che aveva impegnato il suo mistero per un poco di sollievo”. È il segnale di un cerchio che si chiude da quando i suoi eroi “erano quegli spiriti ribelli e senza restrizioni che stavano scrivendo di una vita oltre l’ovvio, e che potessero demolire barriere”. Se c’è un senso nella ricca e composita formazione di Mingle With The Universe è proprio quello: è schierato in senso univoco (ma come si fa a non essere di parte con uno che ha scritto Blue River?) ed essendo bilingue, bisogna dire che è un labour of love come ce ne sono pochi e rende a Eric Andersen quel tanto di giustizia poetica che si meritava, da almeno mezzo secolo.