mercoledì 29 ottobre 2025

Paolo Scardanelli

Un magma di simboli e segnali emerge nelle circostanze di un omicidio avvenuto in una remota località sull’Etna. Belletti, trasferito a Catania dopo il caso del Lupo, si ritrova una vittima di nazionalità tedesca, e poco altro. Deve viaggiare fino ad Amburgo, andata e ritorno e più di una volta: è una guida, un osservatore, molto abile e astuto, il caso ha una sua evidenza logica, il colpevole è già scritto, ma si trova fuori dalla sua giurisdizione. L’ostacolo delle lingue è relativo, questa è gente che ha “letto troppo Seneca” e trova un modo di confrontarsi. Le digressioni filosofiche architettate da Scardanelli qui sfociano in un terreno molto fertile perché se “tutto è segno”, il nuovo caso del commissario Belletti è un trionfo di contrasti e contrapposizioni: la giustizia e la vendetta, la ragione e il sentimento, la Sicilia e la Germania, il nord e il sud, la cucina a base di maiale e quella con il pesce, la montagna e il mare, il professore e gli allievi, la realtà e la sua invenzione. Tra tutti anche l’incontro tra Romeo, il cane dell’assassinato, e Belletti che lo adotta e viene adottato a sua volta. Romeo sembra capire tutto e se non partecipa al discorso generale è soltanto perché non ha la facoltà della parola. D’altra parte i dialoghi svelano molto della natura dell’uomo e il confronto non spaventa Belletti, anzi, lo stimola a cercare un disegno superiore. Dietro l’omicidio sulle falde dell’Etna resta solo un indizio, la dedica nelle pagine di La morte di Empedocle di Hölderlin. La tensione arriva dal passato, fantasmi di una furia omicida che il tempo e le sconfitte non hanno placato. Il dramma si rivolge contro Bruno Richter, un insegnante, responsabile degli ideali che fibrillano come forze magnetiche sotterranee perché “aneliamo l’oltre, non senza ragione, e spesso ne rimaniamo bruciati”. È il 1986, il mondo sta cambiando, o è già cambiato, ma i tormenti delle cronache e del tempo riportano alla lotta armata e ai fantasmi imbottiti di ideologia dato che “il mondo, nel frattempo, andava avanti seguendo le sue orbite, era sprofondato all’inferno ed era riemerso e noi ancora qui, quarant’anni dopo”. Belletti sembra immune dalla complessità sottintesa dal movente dell’omicidio: il suo scopo non è riscrivere la storia o adeguarla all’evenienza. L’istinto lo porta a semplificare la caccia, la dialettica, più forbita che mai nell’occasione, a trovare una cornice complessiva, forse un motivo, un senso generale, ammesso che possa esistere. Ci sono distanze che non appartengono alla geografia e i viaggi di Belletti ci ricordano soltanto che “tendiamo a rimuovere ogni cosa, le nostre paure come i nostri sogni”. La soluzione deve essere tutta lì e va cercata nei confronti con i corrispettivi tedeschi, con il questore e con il procuratore che si aspettano quei risultati che non tarderanno ad arrivare Belletti si trova più a suo agio con Romeo che comprende tutto a un livello particolare e che è la dimostrazione concreta che “siamo piccoli mortali, bestie comprese, soggetti al principio e alla fine; la natura naturata no: essa è rocce, che hanno milioni d’anni, e oceani che incessantemente le lambiscono, venti e fenomeni atmosferici compresi”. Il vulcano resta lì, un’ombra che non si sposta, con tutto il suo peso e il suo enigma, mentre la strofa iniziale, e quella finale, di Hurt, si presume nella versione di Johnny Cash come già nelle precedenti puntate, resta come una specie di addio, ma è più probabile che sia soltanto un arrivederci. 

mercoledì 22 ottobre 2025

Pierluigi Lucadei

Partendo dal rapporto personale con le canzoni, con i dischi e con le atmosfere che evocano, Pierluigi Lucadei ricorda che “i primi mesi del nuovo millennio brillavano di una libera associazione di idee e propositi, sogni e utopie che ci sembravano realizzabili con i nuovi strumenti in nostro possesso”. Grandi aspettative, belle speranze, tutte naufragate nel corso di una singola estate e da allora “il mondo non ha più galleggiato dentro una bolla di ingenuità e meraviglia come quei mesi”. Verissimo. L’11 settembre 2001 e, qualche settimana prima, il G8 di Genova, sono stati gli snodi dell’inaugurazione di un secolo che era già finito lì. La musica in qualche modo l’aveva intuito e la caratteristica dominante dei dischi collezionati in Forever Ago ruota attorno a un’introspezione più o meno forzata che vede in Neil Young, un nome che ricorre spesso, come un padre putativo. Per riprendere il titolo più recente, quello dedicato a Iechyd Da di Bill Ryder-Jones, siamo nel “crepuscolarismo post-traumatico”, definizione complessa, ma che rende alla perfezione: un quarto di secolo che se ne è andato, non benissimo, e venticinque album vengono scelti e illustrati uno per uno per ogni anno. La moltiplicazione ha i suoi effetti perché, come viene detto in occasione della dissertazione su Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù, alla cui memoria è dedicato Forever Ago, “c’è il medesimo rispetto per la canzone e per la sua complessità, ma anche un modo altro, un po’ lunare, di osservare le cose”. Lucadei sembra applicarsi nello stesso modo nel vivisezionare, tra gli altri, High Violet dei National, Push The Sky Away di Nick Cave, North Star Deserter di Vic Chesnutt, e poi opere di Tame Impala, Marianne Faithfull, Bon Iver (che presta anche un pezzo di titolo), Feist, Beck, Rufus Wainwright, Big Thief, Idles, Kings of Convenience e Niccolò Fabi. Concentrarsi sull’album è una scelta perentoria, con un significato specifico, in “un’epoca in cui è stato possibile concedere ancora del tempo all’ascolto di un disco, lasciando che si espandesse giro dopo giro dentro il lettore”. Visto che nell’arco di tempo sottinteso da Forever Ago  l’ascolto è mutato in direzioni imprevedibili, spesso relative, è giusta anche un’osservazione più estesa e ancora più attuale: “L’album è oggi un vero atto di resistenza, uno dei pochi modi rimasti per negare il consenso a una scansione frenetica del tempo e a una gestione schizoide della propria attenzione”. Dovendo sceglierne uno vale la pena di partire da Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco, un passaggio emblematico per tutta una serie di motivi, anche extra musicali, che infine Lucadei descrive come “un disco di canzoni spettrali. In alcuni momenti non si ha neppure l’impressione di ascoltare canzoni vere e proprie, ma la loro radiografia. Come in un’alternanza di opacità e trasparenze, di bianchi e neri, la musica si avventura in un’operazione di scheletrizzazione che sfuma la realtà e le fa assumere contorni ambigui”. Quello scritto per l’album dei Wilco, vale quasi per tutti, data la comune caratteristica malinconica e riflessiva, sottolineata anche dalle storie dolorose che hanno alle spalle questi dischi e queste canzoni. Lucadei le segue nel dettaglio fino a chiedersi: “Quant’è sottile la linea che ci separa dal collasso se ciò che costruiamo si basa su fondamenta così fragili?”, e il tentativo di rispondere alla domanda si trasforma nei racconti di una Disperata necessità di cambiamento per Anohni and the Johnsons, dei Frammenti di un delirio di Aldous Harding, di una Jam session in cucina per Fiona Apple, delle esplorazioni Tra il regno dei vivi e il regno dei morti di Sufjan Stevens o di Una grande festa psichedelica degli Animal Collective o dei Fottutissimi ricordi dei Band of Horses. Lo sguardo e l’ascolto sono originali e acuti, tanto che la musica pare davvero L’ultimo avamposto di umanità come recita il titolo del primo capitolo, dedicato a The Sopthware Slump dei Grandaddy. Siamo ancora nel 2000, ma sembra trascorsa un’intera era geologica.