In via Pietro Custodi, una traversa nella zona di Porta Ticinese, a Milano, c’era un falegname che lavorava immerso in una perenne nuvola di sottilissima segatura. Tutto il suo laboratorio, dalla vetrina ai manufatti, era avvolto da una forma di pulviscolo primordiale, lui si distingueva appena ed era sempre concentratissimo, come se il mondo fuori non esistesse nemmeno. Leggere L’ombra, dove via Pietro Custodi è un transito ricorrente, fa un po’ lo stesso effetto: Paolo Scardanelli è talmente immerso nei suoi personaggi che non si può separare da loro, in un ossessivo rapporto tra l’autore e la sua tormentata progenie. In sé L’ombra è un punto di svolta, dopo i primi due capitoli con cui è cominciato L’accordo (rispettivamente Era l’estate del 1979 e I vivi e i morti): con le tinte fosche di un noir metropolitano, le famiglie oblique, ambigue e trasversali di Greta e Bruno si incrociano, si allontanano e si ritrovano perché in fondo “viaggiamo per una vita per poi tornare al punto d’inizio”. Il tragitto resta molto tortuoso: L’ombra è colma di ritorni e di altrettante partenze e la fuga di Bruno è soltanto l’inizio: ha scavalcato i confini della realtà, verso “il lato in ombra” e si è infilato in un torbido intrigo. Deve essere salvato da pericoli imminenti, in forma di personaggi oscuri e spietati e avvezzi all’uso di armi da fuoco. Attraversare la “polvere di metropoli”, da Milano a Riga, potrebbe non essere sufficiente: “i conflitti generano conflitti” e attorno a Bruno, così come ad Anna, si moltiplicano senza sosta. Paolo arriva in cerca di una filigrana tra i fantasmi del passato (Andrea, prima di tutti) e quelli, incombenti, del futuro, con la certezza che “lasciamo solo rovine dietro di noi. La necessità stritola legami e amori, destini intessuti di filo tenue e volontà, inespresse o compiute. E queste rovine ci pesano come macigni sull’animo. Le rovine dell’agire nostro, le scorie di scelte necessariamente personali e quindi egoiste. A meno di essere santi. E pure lì si potrebbe discutere”. Dentro tutto ciò le ellissi filosofiche di Paolo Scardanelli funzionano da collante e da intervallo, permettendogli di interagire con i suoi personaggi, come se fosse parte dei loro drammi, a sua volta ebbro protagonista. La scrittura asseconda la trama fino a un certo punto, si prende ogni libertà possibile e si gode le deviazioni di percorso, che non sono poche, pur nella costante delle atmosfere sfuggenti e notturne, su cui si staglia l’architettura di Milano, destinata alla funzione di sipario quando Paolo Scardanelli conclude che “la verità ha un volto col quale non vogliamo confrontarci, eppure sappiamo che prima o poi dovremmo fronteggiare. E accorgerci che tutte quelle notti insonni dentro un letto caldo alla fine non che una pietosa illusione. Che presto o tardi dovremo abbandonare. E allora, ci accorgeremo di quanto soli siamo”. In definitiva, L’ombra offre la sensazione di trovarsi dentro un un sogno infinito e febbricitante (nel finale colorito persino da sfumature splatter), ma che in qualche modo prefigura una sorta di destino ineludibile, quando poi “ci ritroviamo. Silenziosi”. Non pare quindi una coincidenza che L’ombra arrivi al capolinea nei pressi dell’abbazia cistercense di Chiaravalle, nell’immediata periferia milanese, dove la quiete è un valore non negoziabile e definitivo. Una chimera per gli uomini e le donne che popolano L’accordo, già destinati ad altre peripezie.
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