“Solo l’amore può spezzare il tuo cuore” cantava Neil Young all’epoca di After The Gold Rush, anno di grazia 1970. Quel verso dice tutto anche se all’epoca Paolo, il protagonista che racconta I vivi e i morti era solo un bambino, ma il salto alla vita recente, da architetto e padre, rimbalza nelle interferenze dei suoi fantasmi, in particolare Andrea, che è il suo principale interlocutore. È uno spettro impertinente, è stato (ed è ancora) il suo migliore amico. Lo ha lasciato, con Anna e il figlio Bruno, prigionieri di un interrogativo, come succede in presenza di un suicidio che, come diceva Camus, è la dimostrazione dell’esistenza di qualcosa peggiore della morte. Non c’è consolazione nella filosofia, nella musica, nel vino, nella poesia o nell’architettura, che pure abbondano tra I vivi e i morti, e nei dialoghi con Andrea, a cui Paolo si accosta titubante, procedendo in una gimkana tra ricordi, riflessioni, rimpianti si coagula uno struggimento aspro e inteso . Un’ombra rimane costante perché “il dolore è un linguaggio comune agli esseri umani. Cerchiamo di apparire differenti gli uni dagli altri, noi umani, ma siamo sostanzialmente gli stessi con alcune varianti, permutazioni”, come dice il padre di Anna, che ha raggiunto non tanto la saggezza, quanto un’ultima spiaggia. È proprio quando incontra la figlia e il nipote in Engandina, tra la neve, che si sente all’improvviso, “lo sconosciuto profumo della famiglia”. Non è chiaro cosa intenda Paolo, il personaggio e il suo autore, ma non è questo il problema. I vivi e i morti non funziona con sequenze di domande e risposte, o secondo logiche coerenti. Galleggia in un’atmosfera onirica dove dialogare con i fantasmi è naturale come tuffarsi nel Mediterraneo in un giorno d’estate e di vacanza e così le distanze geografiche e temporali vengono mischiate come un mazzo di carte, e in sorte capita qualcosa di imprevisto e indescrivibile. Milano, come punto di partenza e di arrivo, la Provenza, le Alpi, la Grecia, l’adolescenza e l’università, gli incontri e gli addii, si sommano senza unirsi finché a distanza Paolo percepisce il senso complessivo di un’emozione: “Ecco cos’era: i dettagli, delle cose, dei pensieri, delle relazioni tra cose e persone le pareva d’intenderli con un nitore nuovo, sconosciuto. Forse in sogno”. Per lui l’amore ha la forma mutevole che si riverbera nelle donne che ha incontrato Anna, Francesca, Giovanna e che si concretizza nella prova vivente della figlia, Nadia, come una meta raggiunta, ma imperscrutabile. Resta l’effetto cinematico di un continuo vagare nello spazio e nel tempo, dove soltanto l’effervescente ricchezza di linguaggio rappresenta uno specifico approdo, se non proprio una salvezza. Nell’introspezione di Paolo, nei serrati intervalli metafisici, negli episodi di una gioventù irrisolta, prosegue l’odissea cominciata con Era l’estate del 1979 e che qui viene sottolineata, again & again, da una playlist sterminata. Ci sono Scott Matthew, Nirvana, Tim e Jeff Buckley, Mark Eitzel, Style Council, Amy Winehouse, ma trova negli estremi impliciti ed espliciti di Neil Young e nella citazione nascosta tra le pieghe di River di Joni Mitchell una specie di contorno emotivo che via via va definendosi, come un’articolata e frenetica circumnavigazione dell’anima.
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