Fuori è il 1977, un anno cruento e cupo, alimentato da una tensione che, come dice Giulio Martinelli, “generava ansia”. È uno dei motivi per cui ha accettato l’invito dell’amica Francesca a prendersi un pausa, lasciando Roma per raggiungerla nella sua villa al mare sul Circeo. Giulio è uno scrittore stremato: ha uno scampolo di carriera alle spalle, ma il presente è una macchina da scrivere da cui non esce nulla. Si accontenta di compilare recensioni cinematografica, l’ultima per “un film di Pasquale Festa Campanile. Un filmaccio che lui non si sarebbe mai sognato di andare a vedere”. Le relazioni sono anche più precarie: è legato ad Alberto, un attore teatrale, che è spesso lontano. Francesca, che dirige un rotocalco ed è la seconda moglie di Andrea, una figura ombrosa e tormentata, è un’amica da tempo e in quel preciso momento per Giulio è un raro punto di riferimento. La comitiva è completata da Nina, una governante premurosa, e da Nicoletta, un’altra conoscenza di Francesca, molto milanese, molto snob e abbastanza insopportabile. La cornice è quella balneare e, fino all’arrivo di Gabriele, il figlio ventenne che Andrea ha avuto con la prima moglie, Stella, tutto ruota intorno alla vita balneare e il dilemma più complicato riguarda la crema solare. Il 1977 è lasciato fuori dalla porta e la comitiva si rifugia in una capsula nel tempo, un’oasi dalle notizie di violenza e di angoscia. La location, sulla costa tirrenica, è avvolta in un’atmosfera sospesa tra l’immaginazione e l’afa con un susseguirsi di sole e di notti che accentuano la dimensione dei sogni e dei deliri: “Era una casa di mare come tante altre ma, osservandola meglio, si potevano notare certe increspature, scovare alcuni angoli bui. Piccole macchie sporcavano quella superficie all’apparenza intatta. Cosa vi si celava, veramente?”, e la domanda lascia intuire una profonda corrispondenza tra il luogo e gli ospiti. I giorni di vacanza si trasformano in una sorta di guerriglia sotterranea dove le menzogne, le maschere, gli intrighi emergono a ondate. Francesca, la padrona di casa, ammette che “ognuno di noi nasconde qualcosa”, ma ormai è troppo tardi. Le combinazioni sono drammatiche e non lasciano scampo: Gabriele, vent’anni e un profilo dionisiaco, intreccia un pericoloso e torbido tête-à-tête con Giulio, sempre più disorientato, mentre alla compagnia si aggiungono due nuovi arrivati, Peter e Jonathan, americani e molto free. Non bastasse, nel bel mezzo di agosto alla porta si presenta anche Alberto e il panorama idilliaco se ne va a soqquadro, trascinato da passioni e desideri ormai incontrollabili. Troppo amore, troppi inganni. Tutto succede nell’acqua del mare e della piscina, una simbologia fin troppo evidente, mentre il tracollo è celebrato dall’alcol (whiskey, in particolare), ma mostrare un piccolo nodo significa svelare un po’ tutto il senso di Cuore di serpente. Giovanni Montini ha infatti costruito un romanzo fatto a scatole cinesi, dove nulla è sicuro e ogni capitolo serba un colpo di scena, molto spettacolare, con una vocazione speciale nel mostrare come mutano i sentimenti vissuti a fior di pelle.
lunedì 27 febbraio 2023
martedì 21 febbraio 2023
Valerio Bricca
L’imprevisto è quello che è: succede, e non ha bisogno di essere collocato, incorniciato, rivisto. Spalanca lo sguardo sull’incognita che La vita perfetta è obbligata ad affrontare ed è così che Valerio Bricca, che è anche un pittore, introduce nella nuova dimensione, labirintica, ipnotica, inaugurata dall’incidente nella vita di Riccardo Gulli che in una normale giornata investe una ragazza, Viola. Riccardo Gulli sa districarsi tra Marc Chagall, Oscar Wilde, Giotto e Dante ed è “un famoso critico di quadri che parla in televisione”, ma in quel quel preciso istante tutti i dettagli di Una vita perfetta, la cucina, l’amarone, il successo collassano e, in un attimo, diventano sommariamente inutili. La vita perfetta viene travolta: anche se Riccardo Gulli è innocente, è turbato, come si può immaginare, e l’unica salvezza a cui aggrapparsi resta l’arte, e la meraviglia che rappresenta. Non c’è altro, e tutto diventa accessorio, limitato al momento. Lei è lì, in un letto d’ospedale, ma il protagonista la vede come una natura morta con i contorni sfumati, che va guardata in prospettiva come il David di Michelangelo. Riccardo Gulli si ritrova così a scegliere nel buio, non solo metaforico, per restare agganciato alla realtà, mentre viene divorato dalla sensazione di aver distrutto una vita (per quanto, va ricordato, senza colpa). Proprio lui che ha dedicato tutta l’esistenza a cercare e a descrivere i frutti della creazione artistica. Valerio Bricca incrocia la bellezza e il dolore in un’atmosfera plumbea e notturna, fatta di imprevedibili complicità e un devastante senso di impotenza. Non cerca particolari strutture narrative, non si dedica a ingegnose costruzioni formali: è un osservatore appassionato e scrupoloso della storia così come si svolge e, sapendo che “la bellezza del particolare e dell’insieme diventano una sola emozione”, si adopera nell’illustrarla proprio come Riccardo Gulli prepara il risotto: pochi ingredienti, giusti e misurati che gli consentono di sviluppare l’attrito tra i personaggi (compresi ruoli secondari come quello dell’infermiere Domenico De Napoli alias Mimmo che, a tutti gli effetti, è un traghettatore) e alimentare con le scintille un nucleo luminoso che si svolge nella continua introspezione del protagonista e si sublima in una dialogo parziale con la ragazza in coma, una situazione ideale per una cornice teatrale, se non proprio pittorica. In effetti, la visione di Una vita perfetta rientra nel canone come lo descriveva John Berger: “Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore”. Se c’è una redenzione nella vita, che sia perfetta o meno, va cercata nella visione artistica, l’unica risposta nei confronti dell’angoscia e della sofferenza. Questo Valerio Bricca non lo dice e (per fortuna) non lo spiega, ma lo lascia scoprire a chi si inoltra in Una vita perfetta, che si legge in una sera, e si ritrova a vedere e a sentire il tormento di chi ha vissuto in cerca della bellezza e deve fare i conti con l’imprevedibile caos della realtà. Si parlerà “di felicità, ma anche di tragedie e di dolore, di rabbia e ribellione, insomma della vita” ed è citato a proposito, Thomas Mann quando dice che “la bellezza trafigge”. È un richiamo a doppio taglio: il contrasto di Una vita perfetta è potente ed emette riflessi fluorescenti, ma è anche un insieme coerente, con un tono e una logica molto precisi e fino al finale, che è adeguato, ma va scoperto da soli.
venerdì 10 febbraio 2023
Paolo Scardanelli
“Solo l’amore può spezzare il tuo cuore” cantava Neil Young all’epoca di After The Gold Rush, anno di grazia 1970. Quel verso dice tutto anche se all’epoca Paolo, il protagonista che racconta I vivi e i morti era solo un bambino, ma il salto alla vita recente, da architetto e padre, rimbalza nelle interferenze dei suoi fantasmi, in particolare Andrea, che è il suo principale interlocutore. È uno spettro impertinente, è stato (ed è ancora) il suo migliore amico. Lo ha lasciato, con Anna e il figlio Bruno, prigionieri di un interrogativo, come succede in presenza di un suicidio che, come diceva Camus, è la dimostrazione dell’esistenza di qualcosa peggiore della morte. Non c’è consolazione nella filosofia, nella musica, nel vino, nella poesia o nell’architettura, che pure abbondano tra I vivi e i morti, e nei dialoghi con Andrea, a cui Paolo si accosta titubante, procedendo in una gimkana tra ricordi, riflessioni, rimpianti si coagula uno struggimento aspro e inteso . Un’ombra rimane costante perché “il dolore è un linguaggio comune agli esseri umani. Cerchiamo di apparire differenti gli uni dagli altri, noi umani, ma siamo sostanzialmente gli stessi con alcune varianti, permutazioni”, come dice il padre di Anna, che ha raggiunto non tanto la saggezza, quanto un’ultima spiaggia. È proprio quando incontra la figlia e il nipote in Engandina, tra la neve, che si sente all’improvviso, “lo sconosciuto profumo della famiglia”. Non è chiaro cosa intenda Paolo, il personaggio e il suo autore, ma non è questo il problema. I vivi e i morti non funziona con sequenze di domande e risposte, o secondo logiche coerenti. Galleggia in un’atmosfera onirica dove dialogare con i fantasmi è naturale come tuffarsi nel Mediterraneo in un giorno d’estate e di vacanza e così le distanze geografiche e temporali vengono mischiate come un mazzo di carte, e in sorte capita qualcosa di imprevisto e indescrivibile. Milano, come punto di partenza e di arrivo, la Provenza, le Alpi, la Grecia, l’adolescenza e l’università, gli incontri e gli addii, si sommano senza unirsi finché a distanza Paolo percepisce il senso complessivo di un’emozione: “Ecco cos’era: i dettagli, delle cose, dei pensieri, delle relazioni tra cose e persone le pareva d’intenderli con un nitore nuovo, sconosciuto. Forse in sogno”. Per lui l’amore ha la forma mutevole che si riverbera nelle donne che ha incontrato Anna, Francesca, Giovanna e che si concretizza nella prova vivente della figlia, Nadia, come una meta raggiunta, ma imperscrutabile. Resta l’effetto cinematico di un continuo vagare nello spazio e nel tempo, dove soltanto l’effervescente ricchezza di linguaggio rappresenta uno specifico approdo, se non proprio una salvezza. Nell’introspezione di Paolo, nei serrati intervalli metafisici, negli episodi di una gioventù irrisolta, prosegue l’odissea cominciata con Era l’estate del 1979 e che qui viene sottolineata, again & again, da una playlist sterminata. Ci sono Scott Matthew, Nirvana, Tim e Jeff Buckley, Mark Eitzel, Style Council, Amy Winehouse, ma trova negli estremi impliciti ed espliciti di Neil Young e nella citazione nascosta tra le pieghe di River di Joni Mitchell una specie di contorno emotivo che via via va definendosi, come un’articolata e frenetica circumnavigazione dell’anima.
lunedì 6 febbraio 2023
Giorgio Camuffo, Renzo di Renzo
Edoardo ricorda Pessoa, con un baule pieno di tormenti. Tommaso, che vola come “un vecchio Dakota”, resta in sospeso e l’evocazione del C-47, un aereo con una carriera lunghissima, lascia aperte un sacco di porte. Serpico è un pescatore, Elide fa il muratore e il profilo di Aurelio condensa, nella sua brevità, una straziante love story, e non sarà l’unica. Gente che si può incontrare solo in un sogno, in viaggio o per le calli di Venezia: nei Ritratti veri di persone immaginarie le facce non sono mai giuste, portano i segni di vite senza via di scampo o piccoli difetti rivelatori di una fisiognomica sotterranea, che si esplicita nel formato voluto, e così come è stato espresso. I disegni di Giorgio Camuffo con le trame Renzo di Renzo poste a fronte, come se fossero delle vere e proprie traduzioni, più che didascalie. I volti e le storie sono raccontati con quella leggerezza, così come la intendeva Italo Calvino, che vede questi piccoli frammenti trasformarsi in pagine molto solide (anche nella contrapposizione delle parole con le immagini, che hanno qualcosa ben oltre le due dimensioni in cui sono costrette) nel tentativo di afferrare quel momento in cui ci riconosciamo nei lineamenti altrui, ben sapendo che “quando hai passato tutta la vita in un bozzolo, la libertà è questione di attimi, il volo di una farfalla che non va mai troppo lontano”. C’è un’attenzione al tratto che ricorda John Berger, quando diceva che siamo fatti di storie, ma anche che “la facoltà della memoria nell’occhio della mente” vuole la sua parte. Allora bisogna trovare un modo di guardare scrupoloso perché “in ogni piccola cosa c’è un indizio. Le nuvole sono presagi del tempo, della pioggia imminente. Le orme sulla spiaggia, la conseguenza di un passaggio. Un mozzicone di sigaretta, la fine di un’attesa: se porta i segni del rossetto è una donna ad averla fumata. Quasi sempre: non sempre. Nessun dettaglio è insignificante”. Sono tutti degli outsider, come Amalia, la figlia “strana” del vicino, che sopravvive ingoiando pillole su pillole, o l’emblematica Agata che interpreta il doppelgänger del ritratto e nello specchio, e il doppio per antonomasia, le gemelle siamesi, due in un corpo solo, visto che si è mangiata la sorella. Quando non sono già fuggite, le figure femminili sono in sofferenza (del resto anche gli altri non se la passano benissimo) e viene da chiedersi: che errore ha commesso Bice? L’inchiostro nero dei capelli, spazzolati di continuo come se fosse un rito, non offre risposte perché tanto nei disegni di Giorgio Camuffo quanto nei racconti di Renzo di Renzo i vuoti e i silenzi valgono quanto i segni e le parole, spesso anche di più perché quelle raccolte da questi Ritratti veri di persone immaginarie “sono storie semplici, composte di pochi tratti abbozzati, come i ritratti che le rappresentano (e viceversa): gioie e battaglie di non sappiamo niente ma che in qualche modo possiamo ricondurre a noi, alla nostra vita, alle persone che davvero abbiamo incontrato, conosciuto, amato”. Uomini e donne che ci sono apparsi, di sfuggita, da qualche parte, nelle pieghe dei ricordi, e che riemergono in effigi perentorie come quella di Lillo, che è inadeguato perché proprio non ha le physique du rôle (e, ancora, un’altra “lei” se ne è andata). Un piccolo gioiello, che chiede pochissimo e accompagna in tanti anfratti in bianco e nero dove forme, percezioni e trasformazioni vengono scoperte come tante maschere sollevate all’improvviso.
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