martedì 15 febbraio 2022

Italo Calvino

Più che entrare in una stazione ferroviaria, qui ci si infila in un labirinto. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un romanzo, chiamiamolo così, per convenzione, più che altro, che si articola su piani differenti, che non sempre convergono nell’alveo della narrazione, anzi, il più delle volte divergono verso “una struttura accumulativa, modulare, combinatoria”. Il tentativo dello stesso Italo Calvio di spiegarlo, alla fine delle Lezioni americane, non fa che aumentarne il mistero: “Il mio intento era di dare l’essenza del romanzesco concentrandola in dieci inizi di romanzi, che si sviluppano nei modi più diversi in un nucleo comune, e che agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata”. Partiamo dal suo nucleo più esposto, lo scrittore e la lettrice avvolti in un legame indissolubile, dato che “l’aspetto in cui l’amplesso e la lettura s’assomigliano di più è che al loro interno s’aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili”. È quel gioco di specchi e di rifrazioni che costituisce la struttura di quello che Calvino chiama “iper-romanzo” dove le parole vengono dirottate su architetture particolari, non sempre intelligibili, perché “il libro è sbriciolato, dissolto, non più ricomponibile, come una duna di sabbia soffiata via dal vento”. Ogni incipit porta in una dimensione parallela, compresa un’ironica versione dell’universo editoriale e letterario in chiave cospirativa, formando una “rete dei possibili” che, di nuovo, al centro ha la lettura intesa come “un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stessa. Il libro è un supporto accessorio o addirittura un pretesto”.  Ecco come Salman Rushdie in Patrie immaginarie ha cercato di interpretarlo senza farsi abbagliare: “Una delle difficoltà dello scrivere su Italo Calvino sta nel fatto che egli ha già detto su se stesso tutto quello che si può dire. Se una notte d’inverno un viaggiatore distilla in un unico volume quella che è forse la caratteristica principale dell’opera di Calvino: il suo genio mutevole, metamorfico per non fare mai due volte la stessa cosa”. È proprio nell’atmosfera evanescente e luminosa di “un’illusione di trasparenza attorno a un nodo di rapporti umani che è quanto di più oscuro, crudele e perverso”, che prende forma una sorta di apologia dello scrittore che Italo Calvino   declina così: “Forse la mia vocazione vera era quella d’autore di apocrifi, nei vari significati del termine: perché scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto; perché la verità che può uscire dalla mia penna è come una scheggia saltata via da un grande macigno per un urto violento e proiettata lontano; perché non c’è certezza fuori dalla falsificazione”. Se una notte d’inverno un viaggiatore è un miraggio, è un’attesa, è un mosaico “fittamente intessuto di sensazioni”, ma “tutt’a un tratto ti si presenta squarciato da voragini senza fondo, come se la pretesa di rendere la pienezza vitale rivelasse il vuoto che c’è sotto”. È in quel momento lo scrittore, il lettore e Italo Calvino diventano una trinità, e una sola persona perché “lotti coi sogni come con la vita senza senso né forma, cercando un disegno, un percorso che deve pur esserci, come quando si comincia a leggere un libro e non si sa ancora in quale direzione ti porterà. Quello che vorresti è l’aprirsi d’uno spazio e d’un tempo astratti e assoluti in cui muoverti seguendo una traiettoria esatta e tesa; ma quando ti sembra di riuscirci t’accorgi d’essere fermo, bloccato, costretto a ripetere tutto da capo”. Si comprende allora la necessità di ogni avvio, come se Italo Calvino volesse ripristinare da zero, troncando sul nascere qualsiasi deviazione autoindulgente, facendo pulizia nella convinzione che il romanzo ideale “dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d’accumulare storie su storie, senza pretendere d’importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie”. Quel senso di abbandono, di disorientamento avvolge lo scrittore e/o il lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, lo riporta in continuazione all’inizio e non c’è via d’uscita, perché “tanto la conclusione a cui portano tutte le storie è che la vita che uno ha vissuto è una e una sola, uniforme e compatta come una coperta infeltrita dove non si possono separare i fili di cui è intessuta”. Tortuoso, ipnotico, indispensabile.

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