Quella di Agostino Roncallo in Notturno è poesia civile e di testimonianza, nel senso più ampio del termine, che fugge le banalità televisive per offrire un appiglio alla memoria, per non dimenticare i buchi neri recenti della storia italiana, e non. Agostino Roncallo parte, spogliando le singole storie dei luoghi comuni, dalle intemperie degli inutili conflitti politici e riportandole al centro dell’attenzione, che si tratti delle moderne odissee dei migranti, della follia omicida verso le donne o di un ponte destinato a unire e, crollato per l’incuria, diventato il simbolo di un paese spezzato, diviso e senza direzione. A confronto, pur con tutte le torture, le sofferenze, le privazioni, i viaggi narrati in Migranti! almeno comportano l’inderogabile necessità di una speranza. È la risposta che, ripetendosi quasi come il ritornello di una canzone, definisce l’identità di Aurora: “Vengo da un luogo lontano e questa luce, questa è venuta con me”. Le figure femminili sono preponderanti e Agostino Roncallo sceglie un galleria di vittime per svelare “una realtà distorta nelle sue componenti più autentiche”, quella che si nasconde dietro l’orribile neologismo di Femminicidio. Le sue “murder ballad” riportano a galla le motivazioni più oscure e tragiche e, come dice lo stesso Roncallo, “il punto di vista è multiforme, e comprende il pensiero dell’uomo violento, assassino, la sua volontà autodistruttiva”. La versione lirica è, volendo, ancora più attenta, mentre scorre in La scatola vuota: “La vita, è una scatola vuota che l’uomo riempie di sfruttamento, di dolore di tutto l’egoismo possibile; la vita, è una scatola vuota nella quale entra, talvolta qualcuno che ha fede nel buono nel bello, nel perfetto anche se sono solo un’ombra niente altro che un’ombra”. È un’ammissione che vale “il romanzo della vita”, perché senza dubbio il “tempo passerà, ma non fermiamoci qui, questo cammino qualcosa, un giorno, accadrà”. I versi di Notturno non si possono scindere dall’interpretazione, nel progresso verso la forma delle canzoni allegate, di Michele Anelli che nell’appendice allarga all’ambito musicale i versi di Agostino Roncallo. Nella coabitazione che prende forma nella comune urgenza espressiva e nella stessa fiducia nel potere delle parole nel rendere giustizia a storie che rischiano di essere dimenticate, troppo presto, anche se appartengono al secolo scorso. Comincia con La scrittura umana che “è come la tua voce, ha il ritmo spezzato, a volte accelerato, lento” e “parla del mondo, rimane un po’ amara, non ama il silenzio”, per poi addentrarsi nelle pieghe degli Invisibili (“Invisibili i miei giorni, raccolti in un quaderno, i miei passi silenziosi sulla neve, le mani che vogliono afferrare il tuo sguardo”), per arrivare, compreso l’omaggio a John Berger e a Woody Guthrie a convergere su Duemilaeuno, canzone che riporta alla conclusione del Notturno di Agostino Roncallo. Genova, scuola Diaz, anno 2001 è un grido di dolore, perché altro probabilmente non si può, che riporta a quella tragica estate, una lacerazione profonda e mai sanata nella nostra cosiddetta civiltà. Rileggerla a distanza di vent’anni, nella coraggiosa cronaca poetica di Agostino Roncallo che rimette tutti i dettagli, anche quelli più efferati e brutali, secondo un ordine ben preciso, ha un effetto straziante. Ancora di più se si paragonano le sue parole, intense e accorate, ai linguaggi istituzionali di quel cupo momento. Il presidente della repubblica disse nel discorso inaugurale del G8: “Alle generazioni più giovani dobbiamo dimostrare che le nostre scelte sono scelte di civiltà”. Auguri, perché il ministro degli esteri concluderà così la sua relazione al parlamento, qualche giorno dopo: “È con grande dolore che ho constatato come i mezzi di informazione abbiano voluto sottolineare quasi esclusivamente i momenti di scontro e di violenza e non quelli di progresso e di speranza”. Non hanno capito prima, non hanno capito dopo, non capiranno mai.
martedì 24 marzo 2020
giovedì 5 marzo 2020
Antonino Trizzino
Nell’Anatomia dell’influenza, Harold Bloom ricordava che gli elementi caratteristici della letteratura americana, e per estensione di quella anglosassone tutta, si potevano ricondurre al “mare, la madre, la notte, la morte”. Per questo è singolare che Il punto cieco a cui fa riferimento Antonino Trizzino sia circoscritto, alle sue estremità, dalle visioni e dai tormenti personali di Philip Dick e Melville, che delimitano le incursioni negli abissi e nelle onde di Gottfried Benn, Walter Benjamin, Robert Walser, Edgar Allan Poe, tra la Germania e il New England, Bartleby e Nexus-6. L’ordine non è costituito: Il punto cieco asseconda piuttosto l’imprevedibilità delle strategie oblique di Brian Eno, consentendo ad Antonino Trizzino di scandagliare con grande libertà l’oscurità attraverso le prove di scrittori che hanno lacerato la letteratura, pagando per intero il prezzo della loro estraneità, ben sapendo che “fare arte significa avere un po’ le palle piene della vita”. Detto in modo prosaico, ma sicuramente efficace, condensa i richiami che Il punto cieco rivolge agli outsider che hanno respirato a pieni polmoni “l’aria pura della sconfitta”. Philip Dick introduce alle curve della fantascienza che secondo Trizzino “è una variante del gotico e perciò è quasi sempre pessimistica; non nasce dalla volontà di esplorare muovi mondi e nuove forme di vita (Star Trek), ma dell’orrore che brulica nei nostri spazi interni”. Considerazione più che condivisibile, ma il ritratto di Philip Dick va oltre e abbraccia il ruolo degli androidi e dell’intelligenza artificiale e del loro impatto sul nostro modo di vivere, ricordando che “come gli incubi, la fantascienza guarda dalla parte giusta, dalla parte della rivelazione, che è alla radice sia della magia che della scienza”. Sono pagine sorprendenti che vagano tra la dolorosa biografia di Philip Dick e l’insorgenza di esseri artificiali la cui tassonomia andrebbe aggiornata. Lo stesso, spiazzante meccanismo è applicato a Robert Walser, con la doverosa premessa che “la poesia prospera nella dissipazione: può rinnegarsi, dichiararsi finita, ma senza smettere di essere potente. Il suo interesse va all’equilibrio instabile, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste al crollo ma mantiene la costante del pericolo. Il poeta ama il pericolo e non ha comprensione del proprio gesto; deve voler soffrire, non può dimenticarsi di soffrire, altrimenti si normalizza e allora soffre davvero”. Dal canto suo, Walser la chiama“una felicità del tutto particolare”, un bel modo per edulcorare la solitudine, la sofferenza e la fatica legate alla scrittura. Secondo Claudio Magris, Robert Walser “è un grande scrittore che vive la fondamentale rivoluzione della letteratura moderna, ossia la disgregazione della totalità e del grande stile classico che aveva costretto le dissonanze del mondo nella compatta armonia della forma e del significato. Il soggetto individuale, che si era posto superbamente quale centro ordinatore della vita, si accorge che la sua sorte è invece quella di disperdersi e disseminarsi nel fluire delle cose”. Antonino Trizzino sembra raccogliere il testimone e, con maggiore precisione, scrive che “Robert Walser è un esempio per chiunque voglia fallire nella vita e, eventualmente, sfondare nell’arte. Anche se su quest’ultimo punto il risultato non è garantito. L’artista non deve spassarsela, altrimenti finirà per morire in una serie di gratificazioni: senza abissi, resta dimezzato”. Il genio si nutre di ossessione e follia e il salto carpiato fino a Moby Dick è più naturale e spontaneo di quello che appare, se non altro per aver riesumato l’apologia di Melville: “Chi non ha mai fallito da qualche parte non può essere un grand’uomo. Il fallimento è il vero indice della grandezza. E se si dicesse che il successo ininterrotto è la prova che un uomo conosce le proprie capacità, basta solo aggiungere che, in quel caso, questi sa che sono limitate”. Il punto cieco avvince e avvolge come un tuffo nell’oceano, e merita un adeguato riconoscimento anche e soprattutto perché giunge alla giusta conclusione che “la potenza della letteratura è tutta nella capacità di fare silenzio, nel minimo che ha da dire, in una condizione in cui si annulla il dovere di scrivere”. Il mare è vasto e la notte è lunga, ma, volendo, non è così difficile fare chiarezza.
martedì 3 marzo 2020
Claudio Magris
Dietro le parole nasconde e insieme rivela il lavorio di Claudio Magris, trattandosi di una raccolta di articoli che vanno dal 1973 al 1978 che comprendono ritratti e saggi dedicati a Novalis, Tolstoj, Kafka, Canetti, Svevo, Nietzsche, Ibsen, London, Handke, Kundera, Musil, Singer, Borges, Walser. Si trova la consueta attenzione alla cultura mitteleuropea (che poi troverà una sua pregiata definizione in Danubio) qui declinata soprattutto sul versante asburgico perché, come scrive Claudio Magris, “la civiltà austroungarica è stata invece assunta nella vera poesia come un modello nel senso sperimentale del termine, ossia come una costruzione ipotetica da contrapporre alla realtà per meglio capirne l’essenza e il funzionamento”. Una porzione consistente degli articoli è dedicata alla poesia, a partire dalla precisa distinzione di August Wilhelm Schlegel (“La poesia degli antichi era quella del possesso, la nostra è quella della nostalgia”) alla definizione coniata dallo stesso Magris: “La poesia è il regno della pluralità, la dimostrazione della molteplicità delle vie che conducono alla civiltà, la negazione di ogni gelosa autarchia; sentire e far sentire questa corale eguaglianza nella diversità significa conservare la libertà e la forza dell’individuale”. Da Brecht a Saba, da Hofmannsthal a Rilke, da Borges a Biagio Marin (“La bellezza della poesia di Marin è la perfezione delle cose che hanno bisogno di molto tempo per crescere e formarsi, rispecchia i tempi lunghi delle sue amate conchiglie che assumono lentamente sul fondo del mare la loro levigata e impeccabile simmetria; è una bellezza da cui sembra spirare la saggezza di Hokusai, il pittore giapponese che si proponeva di arrivare all’essenza del disegno quando avesse raggiunti i cent’anni), le digressioni di Magris hanno una costante nell’assidua ricerca nella e per la scrittura non solo come strumento di conoscenza, e di elevazione, ma anche di autodifesa perché “soltanto l’astrazione e la riduzione più rigorosa paiono promettere di rivelare il senso dell’esistenza, come se solo sfrondando e definendo la vita dell’intrico degli affannosi dettagli che l’avviluppano si potesse liberarne la sostanza, come se il nocciolo fondamentale fosse raggiungibile unicamente dopo aver amputato e potato quanto appare accessorio”. Le articolazioni, per quanto vengano approfondite nella ricerca Dietro le parole, appaiono persino relative: si tratti di fiabe (Andersen), saggi (Cases), storia (Tamerlano, Francesco Giuseppe), appunti di viaggio o riflessioni filosofiche, secondo Magris “scrivere e leggere, trasportare l’esistenza sulla carta permette di mettersi al sicuro dalla durezza e dal caos del presente; solo nell’immateriale rarefazione operata dal ricordo e dalla penna è possibile cogliere quella luce dell’essenziale che, nel presente, è oscurata dalle angosce occasioni che incalzano da ogni parte”. Questo vale anche e soprattutto nella formazione del linguaggio rispetto alle evenienze e alle urgenze quotidiane che trova in Critica delle istituzioni un esempio particolarmente efficace, ma che traspare sempre nel tono di Magris, in particolare quando ricorda che “la confusione della piazza è, come sempre, un riflesso della confusione della reggia”. Da leggere, e rileggere.
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