Un magma di simboli e segnali emerge nelle circostanze di un omicidio avvenuto in una remota località sull’Etna. Belletti, trasferito a Catania dopo il caso del Lupo, si ritrova una vittima di nazionalità tedesca, e poco altro. Deve viaggiare fino ad Amburgo, andata e ritorno e più di una volta: è una guida, un osservatore, molto abile e astuto, il caso ha una sua evidenza logica, il colpevole è già scritto, ma si trova fuori dalla sua giurisdizione. L’ostacolo delle lingue è relativo, questa è gente che ha “letto troppo Seneca” e trova un modo di confrontarsi. Le digressioni filosofiche architettate da Scardanelli qui sfociano in un terreno molto fertile perché se “tutto è segno”, il nuovo caso del commissario Belletti è un trionfo di contrasti e contrapposizioni: la giustizia e la vendetta, la ragione e il sentimento, la Sicilia e la Germania, il nord e il sud, la cucina a base di maiale e quella con il pesce, la montagna e il mare, il professore e gli allievi, la realtà e la sua invenzione. Tra tutti anche l’incontro tra Romeo, il cane dell’assassinato, e Belletti che lo adotta e viene adottato a sua volta. Romeo sembra capire tutto e se non partecipa al discorso generale è soltanto perché non ha la facoltà della parola. D’altra parte i dialoghi svelano molto della natura dell’uomo e il confronto non spaventa Belletti, anzi, lo stimola a cercare un disegno superiore. Dietro l’omicidio sulle falde dell’Etna resta solo un indizio, la dedica nelle pagine di La morte di Empedocle di Hölderlin. La tensione arriva dal passato, fantasmi di una furia omicida che il tempo e le sconfitte non hanno placato. Il dramma si rivolge contro Bruno Richter, un insegnante, responsabile degli ideali che fibrillano come forze magnetiche sotterranee perché “aneliamo l’oltre, non senza ragione, e spesso ne rimaniamo bruciati”. È il 1986, il mondo sta cambiando, o è già cambiato, ma i tormenti delle cronache e del tempo riportano alla lotta armata e ai fantasmi imbottiti di ideologia dato che “il mondo, nel frattempo, andava avanti seguendo le sue orbite, era sprofondato all’inferno ed era riemerso e noi ancora qui, quarant’anni dopo”. Belletti sembra immune dalla complessità sottintesa dal movente dell’omicidio: il suo scopo non è riscrivere la storia o adeguarla all’evenienza. L’istinto lo porta a semplificare la caccia, la dialettica, più forbita che mai nell’occasione, a trovare una cornice complessiva, forse un motivo, un senso generale, ammesso che possa esistere. Ci sono distanze che non appartengono alla geografia e i viaggi di Belletti ci ricordano soltanto che “tendiamo a rimuovere ogni cosa, le nostre paure come i nostri sogni”. La soluzione deve essere tutta lì e va cercata nei confronti con i corrispettivi tedeschi, con il questore e con il procuratore che si aspettano quei risultati che non tarderanno ad arrivare Belletti si trova più a suo agio con Romeo che comprende tutto a un livello particolare e che è la dimostrazione concreta che “siamo piccoli mortali, bestie comprese, soggetti al principio e alla fine; la natura naturata no: essa è rocce, che hanno milioni d’anni, e oceani che incessantemente le lambiscono, venti e fenomeni atmosferici compresi”. Il vulcano resta lì, un’ombra che non si sposta, con tutto il suo peso e il suo enigma, mentre la strofa iniziale, e quella finale, di Hurt, si presume nella versione di Johnny Cash come già nelle precedenti puntate, resta come una specie di addio, ma è più probabile che sia soltanto un arrivederci.
mercoledì 29 ottobre 2025
mercoledì 22 ottobre 2025
Pierluigi Lucadei
Partendo dal rapporto personale con le canzoni, con i dischi e con le atmosfere che evocano, Pierluigi Lucadei ricorda che “i primi mesi del nuovo millennio brillavano di una libera associazione di idee e propositi, sogni e utopie che ci sembravano realizzabili con i nuovi strumenti in nostro possesso”. Grandi aspettative, belle speranze, tutte naufragate nel corso di una singola estate e da allora “il mondo non ha più galleggiato dentro una bolla di ingenuità e meraviglia come quei mesi”. Verissimo. L’11 settembre 2001 e, qualche settimana prima, il G8 di Genova, sono stati gli snodi dell’inaugurazione di un secolo che era già finito lì. La musica in qualche modo l’aveva intuito e la caratteristica dominante dei dischi collezionati in Forever Ago ruota attorno a un’introspezione più o meno forzata che vede in Neil Young, un nome che ricorre spesso, come un padre putativo. Per riprendere il titolo più recente, quello dedicato a Iechyd Da di Bill Ryder-Jones, siamo nel “crepuscolarismo post-traumatico”, definizione complessa, ma che rende alla perfezione: un quarto di secolo che se ne è andato, non benissimo, e venticinque album vengono scelti e illustrati uno per uno per ogni anno. La moltiplicazione ha i suoi effetti perché, come viene detto in occasione della dissertazione su Piccoli fragilissimi film di Paolo Benvegnù, alla cui memoria è dedicato Forever Ago, “c’è il medesimo rispetto per la canzone e per la sua complessità, ma anche un modo altro, un po’ lunare, di osservare le cose”. Lucadei sembra applicarsi nello stesso modo nel vivisezionare, tra gli altri, High Violet dei National, Push The Sky Away di Nick Cave, North Star Deserter di Vic Chesnutt, e poi opere di Tame Impala, Marianne Faithfull, Bon Iver (che presta anche un pezzo di titolo), Feist, Beck, Rufus Wainwright, Big Thief, Idles, Kings of Convenience e Niccolò Fabi. Concentrarsi sull’album è una scelta perentoria, con un significato specifico, in “un’epoca in cui è stato possibile concedere ancora del tempo all’ascolto di un disco, lasciando che si espandesse giro dopo giro dentro il lettore”. Visto che nell’arco di tempo sottinteso da Forever Ago l’ascolto è mutato in direzioni imprevedibili, spesso relative, è giusta anche un’osservazione più estesa e ancora più attuale: “L’album è oggi un vero atto di resistenza, uno dei pochi modi rimasti per negare il consenso a una scansione frenetica del tempo e a una gestione schizoide della propria attenzione”. Dovendo sceglierne uno vale la pena di partire da Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco, un passaggio emblematico per tutta una serie di motivi, anche extra musicali, che infine Lucadei descrive come “un disco di canzoni spettrali. In alcuni momenti non si ha neppure l’impressione di ascoltare canzoni vere e proprie, ma la loro radiografia. Come in un’alternanza di opacità e trasparenze, di bianchi e neri, la musica si avventura in un’operazione di scheletrizzazione che sfuma la realtà e le fa assumere contorni ambigui”. Quello scritto per l’album dei Wilco, vale quasi per tutti, data la comune caratteristica malinconica e riflessiva, sottolineata anche dalle storie dolorose che hanno alle spalle questi dischi e queste canzoni. Lucadei le segue nel dettaglio fino a chiedersi: “Quant’è sottile la linea che ci separa dal collasso se ciò che costruiamo si basa su fondamenta così fragili?”, e il tentativo di rispondere alla domanda si trasforma nei racconti di una Disperata necessità di cambiamento per Anohni and the Johnsons, dei Frammenti di un delirio di Aldous Harding, di una Jam session in cucina per Fiona Apple, delle esplorazioni Tra il regno dei vivi e il regno dei morti di Sufjan Stevens o di Una grande festa psichedelica degli Animal Collective o dei Fottutissimi ricordi dei Band of Horses. Lo sguardo e l’ascolto sono originali e acuti, tanto che la musica pare davvero L’ultimo avamposto di umanità come recita il titolo del primo capitolo, dedicato a The Sopthware Slump dei Grandaddy. Siamo ancora nel 2000, ma sembra trascorsa un’intera era geologica.
lunedì 19 maggio 2025
Roberto Florindi
La generosità è il vero talento che emerge dall’esordio autobiografico di Roberto Florindi condiviso con un alter ego in funzione di narratore e una personalità che si sviluppa per gradi, per tentativi e a tappe forzate. È il Misternessuno che si sente “buffo”, ma che in realtà sarebbe più appropriato dire goffo. Le titubanze di un adolescente dell’hinterland milanese, le scoperte di un ragazzo spedito a collaudare impianti farmaceutici ai quattro angoli del mondo, le emozioni adulte di fronte alle sconfitte e ai fallimenti, ma anche alle gioie e alle rivincite, vengono descritte con un tono informale, accattivante e senza particolari complessità. È chiara l’intenzione di condividere un’esperienza toccante: Misternessuno si eleva di fronte alle difficoltà come uno spirito indomito a cui serve spazio e tempo per mostrarsi. Avviene nel momento più drastico, un licenziamento improvviso e imprevisto, che chiude una porta, ma spalanca altri orizzonti che partono da un’antica passione, il nuoto, arrivano ad affrontare la disabilità e per finire alle magie radiofoniche. Gli inizi sono complicati: Misternessuno è ancora nell’ombra, anche se davanti alle limitate possibilità e a un destino già segnato, ha le idee molto chiare ed è molto giovane quando dice: “Io non volevo andare in fabbrica. Ecco cosa sicuramente non volevo fare”. Prova il calcio, la piscina, gli alpini e gli aneddoti si susseguono uno dopo l’altro, anche un dubbio lo circonda e lo ammette senza paura: “Non combinavo mai nulla, ma tutti mi davano delle responsabilità”. È una metamorfosi difficile, piena di incognite e di svolte repentine. I primi passaggi importanti avvengono nei viaggi di lavoro che per Misternessuno costituiscono l’opportunità per uno sguardo sul mondo: prima a Londra, poi in Etiopia, Cile, India e in lungo e in largo per l’Europa, le trasferte sono opportunità per spalancare gli occhi e per misurare i propri limiti. I contrasti diventano scintille di energia quando si trova a confrontarsi con tradizioni, usanze, costumi e regole diventano relativi rispetto alle emergenze emotive di Misternessuno che è sensibile ed è ancora nel pieno corso di “un fiume in piena, un’insoddisfazione continua, una ricerca della felicità che sembrava sfumare di giorno in giorno”. Poi, in un giorno qualsiasi, l’azienda per cui aveva preso un aereo dopo l’altro, circumnavigando per anni il globo terrestre, gli indica la porta nel giro di mezz’ora, senza appello. Capolinea. Non sarà né l’ultima né l’unica occasione che metterà Misternessuno alla prova, ma proprio in quel brutale momento, questa figura parallela coltivata con assiduità svela tutte le sue potenzialità. Come scrive Carlo Oriani nella prefazione “il vero talento, forse, non è quello che ci rende eccezionali agli occhi degli altri, ma quello che ci fa sentire a casa dentro noi stessi”, e per Misternessuno è ora di ricominciare daccapo e di ritornare all’inizio. L’acqua è una scelta naturale e la piscina diventa il nuovo, antico habitat da cui decollano dozzine di propositi, iniziative e incontri. È quello il momento in cui, finalmente, Misternessuno si aggrappa alla felicità, che è sempre una creatura delicata e sfuggente, per cui lasciatevi raccontare come è successo: potrebbe essere contagioso.
giovedì 20 marzo 2025
Claudio Magris
Strane creature, le polene, esseri dallo sguardo indefinito e dalle forme fluttuanti, oggetto di desideri e censure nella stessa misura. Legno intagliato e incastrato nella prua delle navi proiettate sul mare, sono figure enigmatiche che nascondono e rivelano ondate di storie. Attorno ai profili di sculture che hanno un’utilità relativa, più che altro ornamentale, Claudio Magris costruisce una rete di connessioni e relazioni, partendo proprio dall’espressione di quei volti appesi alla chiglia: “All’inizio c’è dunque un occhio sgranato e malevolo al pari delle perfide onde, simile a un pesce, con ciglia e sopracciglia irte come pinne sul dorso. L’occhio è l’uovo da cui usciranno le figure femminili protese a prua, i seni regali, le mani che cercano di velarli portando una rosa al petto, i volti composti, le labbra socchiuse”. È vero, salvo qualche rara e buffa eccezione, puntualmente riportata, la polena ha le sembianze di una donna a cui viene affidato un compito gravoso, scrutare verso l’orizzonte, come spiega Claudio Magris: “L’oltre lo vedono le polene femminili, con i loro occhi spalancati su imminenti e inderogabili catastrofi, i loro volti generici e i loro sorrisi elusivi, i seni magnanimi e inappellabili. È la donna che fissa il tremendo”. La navigazione è una sfida irta di incognite e pericoli, riti e superstizioni, “naufragi e tempeste”, vento e bonaccia, collezioni di miti e conchiglie, scoperte e catastrofi, e se “la polena è messa lì, in prua, a scrutare ciò che agli altri è interdetto e fatale, a violare l’interdizione e a prenderne su di sé la colpa e le conseguenze”, il mare, è il vero protagonista, in tutte le sue accezioni, ed è così che lo descrive Claudio Magris: “Il mare è il sublime per eccellenza; è grande e semplice, solitario, insondabile nella tranquillità e indomabile nella tempesta, ricco di tragedie e catastrofi, di seduzione e di obliosa perdizione. Lo sguardo che scivola come un vento sulla sua distesa senza fine scorge l’anonima uniformità di un futuro indeterminato che fa rabbrividire”. È tutto in quella vista: gli occhi del mare, immobili, attoniti e dilatati nell’essenza della loro inutilità, “sono un compendio di tutte le sventure”, contengono visioni e magie nonché la certezza che “il tempo si arresta nella felicità e nella morte”. Tutto questo perché, si capirà, la polena “nella nostalgia marinara, è l’anima della nave, la sua fisiognomica, il suo volto nel quale trapela l’intima natura della nave stessa, il suo ventoso ardimento, la sua panciuta avidità, la sua goffaggine o il suo slancio. La polena viene bandita per non vedere le catastrofi in arrivo e impedire dunque loro di arrivare, perché ciò che la veggente non vede non c’è”: così diventa un totem che Claudio Magris sa interpretare evidenziandone leggende e connessioni, che, nave dopo nave, diventano una trama. È vero che “le polene hanno l’umiltà e la sacralità dell’arte bassa, di ciò che muore presto, della pittura col sapone sui vetri e delle statue di neve, delle figure sulla sabbia”, ma sono state salvate e recuperate un’infinità di volte da una fitta rete di intersezioni letterarie. All’appello rispondono, tra gli altri, Conrad, Pablo Neruda, Günter Grass, Nathaniel Hawthorne e Karen Blixen che definisce la polena, “figura delle indecifrabili corrispondenze del destino”, tutti naturalmente ricordati da Claudio Magris che nel finale si concede un’autocitazione, che, per l’occasione è anche permessa, se non proprio dovuta.
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