giovedì 20 marzo 2025

Claudio Magris

Strane creature, le polene, esseri dallo sguardo indefinito e dalle forme fluttuanti, oggetto di desideri e censure nella stessa misura. Legno intagliato e incastrato nella prua delle navi proiettate sul mare, sono figure enigmatiche che nascondono e rivelano ondate di storie. Attorno ai profili di sculture che hanno un’utilità relativa, più che altro ornamentale, Claudio Magris costruisce una rete di connessioni e relazioni, partendo proprio dall’espressione di quei volti appesi alla chiglia: “All’inizio c’è dunque un occhio sgranato e malevolo al pari delle perfide onde, simile a un pesce, con ciglia e sopracciglia irte come pinne sul dorso. L’occhio è l’uovo da cui usciranno le figure femminili protese a prua, i seni regali, le mani che cercano di velarli portando una rosa al petto, i volti composti, le labbra socchiuse”. È vero, salvo qualche rara e buffa eccezione, puntualmente riportata, la polena ha le sembianze di una donna a cui viene affidato un compito gravoso, scrutare verso l’orizzonte, come spiega Claudio Magris: “L’oltre lo vedono le polene femminili, con i loro occhi spalancati su imminenti e inderogabili catastrofi, i loro volti generici e i loro sorrisi elusivi, i seni magnanimi e inappellabili. È la donna che fissa il tremendo”. La navigazione è una sfida irta di incognite e pericoli, riti e superstizioni, “naufragi e tempeste”, vento e bonaccia, collezioni di miti e conchiglie, scoperte e catastrofi, e se “la polena è messa lì, in prua, a scrutare ciò che agli altri è interdetto e fatale, a violare l’interdizione e a prenderne su di sé la colpa e le conseguenze”, il mare, è il vero protagonista, in tutte le sue accezioni, ed è così che lo descrive Claudio Magris:  “Il mare è il sublime per eccellenza; è grande e semplice, solitario, insondabile nella tranquillità e indomabile nella tempesta, ricco di tragedie e catastrofi, di seduzione e di obliosa perdizione. Lo sguardo che scivola come un vento sulla sua distesa senza fine scorge l’anonima uniformità di un futuro indeterminato che fa rabbrividire”. È tutto in quella vista: gli occhi del mare, immobili, attoniti e dilatati nell’essenza della loro inutilità, “sono un compendio di tutte le sventure”, contengono visioni e magie nonché la certezza che “il tempo si arresta nella felicità e nella morte”. Tutto questo perché, si capirà, la polena “nella nostalgia marinara, è l’anima della nave, la sua fisiognomica, il suo volto nel quale trapela l’intima natura della nave stessa, il suo ventoso ardimento, la sua panciuta avidità, la sua goffaggine o il suo slancio. La polena viene bandita per non vedere le catastrofi in arrivo e impedire dunque loro di arrivare, perché ciò che la veggente non vede non c’è”: così diventa un totem che Claudio Magris sa interpretare evidenziandone leggende e connessioni, che, nave dopo nave, diventano una trama. È vero che “le polene hanno l’umiltà e la sacralità dell’arte bassa, di ciò che muore presto, della pittura col sapone sui vetri e delle statue di neve, delle figure sulla sabbia”, ma sono state salvate e recuperate un’infinità di volte da una fitta rete di intersezioni letterarie. All’appello rispondono, tra gli altri, Conrad, Pablo Neruda, Günter Grass, Nathaniel Hawthorne e Karen Blixen che definisce la polena, “figura delle indecifrabili corrispondenze del destino”, tutti naturalmente ricordati da Claudio Magris che nel finale si concede un’autocitazione, che, per l’occasione è anche permessa, se non proprio dovuta.

martedì 4 marzo 2025

Valerio Valentini

Da un punto di osservazione privilegiato, il divano di un appartamento in prestito, un outsider incapace di credere nel minimo compromesso, prova a comprendere quella sensazione, che si respira spesso in Ci sono molti modi, di essere giunti a un capolinea: “Mi sorprendo a pensare come in questo posto, all’apparenza inanimato, tutto si accompagni perfettamente ai recinti di cemento; il progresso che convive con la natura è così assurdo che riflette la fatica degli esseri umani di vivere negli stessi casermoni, nei luoghi che loro stessi si sono costruiti. Tutto ciò mi fa pensare che nulla è per natura; l’uomo nasce per morire solo, nonostante tutti gli sforzi fatti in vita per coesistere con qualcun altro”. Prima di tutto, c’è una definizione urbana, architettonica ed estetica a cui Valerio Valentini concede i passaggi più lirici del suo esordio: “Posti come questo sono cambiati molto durante gli anni; è come se si fossero pian piano disgregati sotto i nostri occhi, senza che ce ne accorgessimo. Ci siamo girati dalla parte opposta per non guardare quello che moriva, abituandoci all’idea che l’orrendo sostituisse quello che c’era prima”. Il quadro ambientale, dal labirinto dei quartieri di Roma, che “è ed è sempre stata così, terra di tutti e di nessuno, terra di conquistatori, di santi e di coatti” fino al litorale laziale è un’esperienza disturbante. L’unica eccezione è una visita a Castel Sant’Angelo, dove i tempi della fede dettano altre misure, ma è solo una parentesi dentro un habitat con poche speranze: “In lontananza Ladispoli si erge come una cupola di cemento armato che ricopre tutto: sembra uno di quei film apocalittici dove gli alieni, pronti a invadere la terra, si avvicinano oscurando il sole con le loro grandi navicelle spaziali. Tutta la città si è arresa all’abusivismo edilizio che ha prosperato nella noncuranza dei cittadini, il mare è uno dei pochi boccaporti sicuri in cui le persone si riversano per cercare il conforto della natura, soffocati da una modernità che sa di cemento e catrame”. È questo il fondale su cui si stagliano le movenze di Riccardo alias Cesare, dai pruriti sulla spiaggia, quando “adolescente padrone del mondo” scopre le peripezie dell’amore, all’invenzione di una professione singolare, quella del suicidio assistito (“Io so solo farle morire le persone, so consigliare il modo adatto a lasciare questo mondo terreno, il nodo giusto da fare alla corda, il taglio esatto da eseguire sui polsi, la giusta angolazione dove puntare la pistola”). Mentre i rari clienti si avviano a un destino peggiore della morte, Riccardo si perde nella solitudine: Valeria, la prima fidanzata delle estati al mare, si sposa e lui ha una squallida avventura con due escort in un motel perfettamente inserito nella mappa della desolazione. Le scene scorrono in parallelo, e così ricorre anche il trash televisivo che deforma i rapporti e i legami per spettacoli dove le lacrime sono il carburante principale, se non proprio l’unico. Un’ossessione che spinge Riccardo alias Valerio Valentini a chiedersi: “Mi chiedo spesso cosa spinga le persone a denudarsi pubblicamente: la disperazione, il narcisismo o forse quei quindici minuti di notorietà di cui parlava Andy Warhol”. Una domanda più che legittima nel contesto di Ci sono molti modi che è frutto di una scarna antropologia della decadenza, dove l’ambiente è soltanto un riflesso di un’esistenza arenata: “Ho cercato di conformarmi al resto del mondo, mi sono sforzato, ho trovato una donna e provato a gustarmi una vita normale, ma una volta aperto, una volta che l’altra persona ha scoperto il vero me, altro non ho potuto che tornare a essere un solitario che cerca ancora in sé una via che non troverà mai”. L’ammissione contiene i germi di sviluppi futuri perché se “è il confronto con il resto del mondo che ci sfinisce”, Ci sono molti modi è un romanzo non edulcorato, grezzo e anarcoide, con il coraggio e la volontà di raccontare le periferie dell’anima.

martedì 21 gennaio 2025

Cobol Pongide, Emiglino Cicala

Cobol Pongide ed Emiglino Cicala non potrebbero essere più diversi. Musicista bizarre e saggista spaziale il primo, automa, cantante e storyteller a modo suo l’altro, tutti e due outsider in un mondo troppo lucido e composto, non potevano che incontrarsi in un angolo di Roma dove il tempo prende una piega distorta, come se già non bastasse una città ingolfata di secoli e secoli di antichità. I due poli, umano e meccanico, si trovano a confrontarsi con un’oggettistica fluttuante ovvero l’Anticaja Canaglia che comprende un’arma giocattolo (il relativo capitolo, La pistola laser avanzo del futuro, è un piccolo gioiello), un cane parlante, ammennicoli di varie forme e misure, telefoni, tastiere elettroniche, parti di computer e altri rottami analogici. Il sex appeal dell’inorganico è spinto alla massima espansione, le declinazioni da residui a residuati (come è evidente in La garitta a molte dimensioni) compongono congrue parti della memoria e del “difforme quotidiano”. Attorno a questi mercati e a tutto il relativo mercanteggiare si distribuisce una tassonomia di personaggi convinti che “gli oggetti meritano almeno una seconda opportunità (a volte una terza) e così dovrebbe valere per gli esseri terrestri, per i robot e anche gli alieni. Nel rileggere gli avanzi di rivoluzioni ed evoluzioni, spesso impreviste, si apre un varco inaspettato e una volta deformata la curva spazio-temporale, tutto può essere: il “tempo ristretto”, che in realtà è un tempo dilatato, pare espandersi fino all’ebollizione. D’altra parte trovare un senso  verso il futuro di strumenti originati dal passato è un gesto che solleticherebbe anche Sant’Agostino ed è proprio così che Cobol Pongide ed Emiglino Cicala eludono le cronologie, i calendari e gli annali. A quel punto l’Anticaja Canaglia esplode ed è alimentata da quella che i benemeriti fratelli Strugackij chiamerebbero “entropia del linguaggio”, elevata in modo esponenziale nel dialogo a distanza tra Cobol Pongide e Emiglino Cicala che pur essendo un robot, “è uno che ha il suo modo di vedere il mondo e le cose”. La loro strana economia circolare genera una densissima prosa “d’artefatti fuori contesto” e scarti, scorie e trabiccoli, raccontano continuum temporali alterati, dove la raccolta dei rifiuti solidi urbani viene prima militarizzata e poi proiettata dentro una saga in cui gli zingari combattono con gli alieni per i resti di una civiltà decadente, la nostra. Vista in prospettiva, qui Roma somiglia da vicino a District 9 (compresa la disputa per una particolare tipologia di astronave), ma l’Anticaja Canaglia propone anche una deviazione consistente (e tutta da scoprire) verso la cosmonautica sovietica. Intrusioni e collegamenti sono garantiti da Philip Dick, William Gibson, Karel Capek, H. G. Wells, Blade Runner e persino dall’esimio Hal 9000. Scomodato per l’introduzione, dice molto saggiamente che siamo di fronte a una “fantascienza del quotidiano” capace persino di mettere in discussione le leggi di Asimov. Tra le righe, succedono ancora molte cose curiose: Emiglino Cicala modifica un suo corrispettivo in una macchina del caffè per distribuire appelli e Cobol Pongide promuove un “dispositivo erogatore di mezzi termini” che peraltro sarebbe molto utile in questi anni draconiani. La sua opinione conclusiva è un po’ l’apologia stessa dell’Anticaja Canaglia: “Resto scettico sul futuro giacché, ancora convinto della necessità di recuperare e riciclare, oggi è sempre più raro rinvenire un oggetto con più di qualche minuto di vita. Per non parlare di mercati zingari in cui coltivare parole e amicizie multipolari, dedicandomi a esotiche esplorazioni”. È quella la fonte della ricchezza linguistica, che va dai calcoli algebrici ai dialetti romaneschi, con un costante e ironico sorriso dietro l’angolo: se resta la sensazione che Anticaja Canaglia nasconda “la trama del sogno profondo di un algoritmo”, è tutto dire, perché ogni voce qui dentro è di sicuro più umana degli umani.

lunedì 6 gennaio 2025

Stefano Solventi

L’esilarante scena di 48 ore di Walter Hill in cui Eddie Murphy canta Roxanne nella cella di una prigione vale quanto la sequenza da Il tempo delle mele che è la pietra angolare su cui si basa Lo sguardo di Vic. Questo è dovuto al fatto che il walkman ha ridefinito l’habitat musicale e lo scenario è cambiato perché “l’ascoltatore dotato di walkman costituiva un cambiamento in termini culturali e sociali perché rinegoziava la propria presenza nel tessuto sociale”. Persino in galera e per spiegare come è successo Stefano Solventi comincia citando Shuhei Hosokawa: “Il walkman è in grado di costruire e/o decostruire la rete del significato urbano, perché può organizzare un teatro aperto e mobile attraverso le sue manovre clandestine, che trasformano la costellazione spaziale dell’urbano. Questo accade perché l’ascoltatore diventa un possibile sconosciuto che parla una lingua pedonale incomprensibile”. Il legame con un nuovo paesaggio, insito nel nome stesso del walkman,  è precisato così anche da Iain Chambers: “L’immagine di un essere umano solo che cammina per la sua strada, dritto verso la sua meta, che ascolta solo se stesso trasmutato nelle sue canzoni preferite. Un essere umano, soprattutto, libero di scegliere chi essere e come apparire attraverso la scelta della musica che si porta con sé”. Con il walkman, si “stava scoprendo una modalità inedita di ascoltare”, senza ombra di dubbio, ma nel suo affermarsi (e non era scontato) si è via via visto che “un dispositivo progettato per integrarsi all’individuo, per lasciarlo com’era, a un livello profondo lo cambiava”. Questo è un po’ lo snodo centrale a cui si dedica Lo sguardo di Vic: un cambiamento che “avviene proprio su questa linea d’ombra, nel momento cioè in cui individualismo e collettività si compenetrano, riformulandosi a vicenda”. Dice ancora Shuhei Hosokawa, a cui ritorna spesso Stefano Solventi, che il walkman è “non esclusivo ma inclusivo, non concentrato ma distratto, non convergente ma divergente, non centripeto ma centrifugo”. Oltre a Hosokawa, Lo sguardo di Vic attinge a una vasta teoria di letture, compresi tra gli altri William Gibson, Slavoj Žižek, Félix Guattari, Luciano Floridi, Luigi Zoja, Pierre Lévy, Greil Marcus, Richard Middleton e Marco D’Eramo (“L’unica idea di libertà che ci permettono è la libertà-menu”), con le quali cerca di illustrare come “in un certo senso, il walkman non ci ha più abbandonati: ha indicato la direzione. Bene o male, lo ha fatto”. È vero, e l’analisi e il racconto procedono attraverso i film, prima tra tutti, Il tempo delle mele, poi Pretty Woman e Strange Days, non a caso tre film imperniati sulla musica (gli ultimi due a partire dal titolo), ma anche le progressioni di Alien, Matrix, Terminator e Jurassic Park. Seguendo le alterne fortune del walkman, Lo sguardo di Vic è soprattutto l’occasione per rileggere come si è modificata da allora a oggi la fruizione della musica con tutti i relativi interventi tecnologici. Dal giradischi allo smartphone, dalle cassette allo streaming, è vero che “il progresso spesso procede sui propri rottami”, ma c’è qualcosa nello sviluppo che “il segreto” dell’ascolto ha introdotto. Parafrasando Solventi, il walkman non è un dispositivo, è “un sentimento” e ogni volta che indossiamo le cuffie “stiamo compiendo una specie di sortilegio: vale a dire, rievochiamo il walkman fantasma annidato nel nostro dispositivo”.  Dal riavvolgere il nastro con la Bic a scaricare intere discografie con un clic fino ad avere a disposizione sterminate galassie musicali, sembra incredibile che sia cominciato tutto con il walkman, ma Stefano Solventi nota giustamente come “i simboli siano quasi sempre inconsapevoli e, soprattutto, postumi”. Chiarissimo, e molto utile.