martedì 21 gennaio 2025

Cobol Pongide, Emiglino Cicala

Cobol Pongide ed Emiglino Cicala non potrebbero essere più diversi. Musicista bizarre e saggista spaziale il primo, automa, cantante e storyteller a modo suo l’altro, tutti e due outsider in un mondo troppo lucido e composto, non potevano che incontrarsi in un angolo di Roma dove il tempo prende una piega distorta, come se già non bastasse una città ingolfata di secoli e secoli di antichità. I due poli, umano e meccanico, si trovano a confrontarsi con un’oggettistica fluttuante ovvero l’Anticaja Canaglia che comprende un’arma giocattolo (il relativo capitolo, La pistola laser avanzo del futuro, è un piccolo gioiello), un cane parlante, ammennicoli di varie forme e misure, telefoni, tastiere elettroniche, parti di computer e altri rottami analogici. Il sex appeal dell’inorganico è spinto alla massima espansione, le declinazioni da residui a residuati (come è evidente in La garitta a molte dimensioni) compongono congrue parti della memoria e del “difforme quotidiano”. Attorno a questi mercati e a tutto il relativo mercanteggiare si distribuisce una tassonomia di personaggi convinti che “gli oggetti meritano almeno una seconda opportunità (a volte una terza) e così dovrebbe valere per gli esseri terrestri, per i robot e anche gli alieni. Nel rileggere gli avanzi di rivoluzioni ed evoluzioni, spesso impreviste, si apre un varco inaspettato e una volta deformata la curva spazio-temporale, tutto può essere: il “tempo ristretto”, che in realtà è un tempo dilatato, pare espandersi fino all’ebollizione. D’altra parte trovare un senso  verso il futuro di strumenti originati dal passato è un gesto che solleticherebbe anche Sant’Agostino ed è proprio così che Cobol Pongide ed Emiglino Cicala eludono le cronologie, i calendari e gli annali. A quel punto l’Anticaja Canaglia esplode ed è alimentata da quella che i benemeriti fratelli Strugackij chiamerebbero “entropia del linguaggio”, elevata in modo esponenziale nel dialogo a distanza tra Cobol Pongide e Emiglino Cicala che pur essendo un robot, “è uno che ha il suo modo di vedere il mondo e le cose”. La loro strana economia circolare genera una densissima prosa “d’artefatti fuori contesto” e scarti, scorie e trabiccoli, raccontano continuum temporali alterati, dove la raccolta dei rifiuti solidi urbani viene prima militarizzata e poi proiettata dentro una saga in cui gli zingari combattono con gli alieni per i resti di una civiltà decadente, la nostra. Vista in prospettiva, qui Roma somiglia da vicino a District 9 (compresa la disputa per una particolare tipologia di astronave), ma l’Anticaja Canaglia propone anche una deviazione consistente (e tutta da scoprire) verso la cosmonautica sovietica. Intrusioni e collegamenti sono garantiti da Philip Dick, William Gibson, Karel Capek, H. G. Wells, Blade Runner e persino dall’esimio Hal 9000. Scomodato per l’introduzione, dice molto saggiamente che siamo di fronte a una “fantascienza del quotidiano” capace persino di mettere in discussione le leggi di Asimov. Tra le righe, succedono ancora molte cose curiose: Emiglino Cicala modifica un suo corrispettivo in una macchina del caffè per distribuire appelli e Cobol Pongide promuove un “dispositivo erogatore di mezzi termini” che peraltro sarebbe molto utile in questi anni draconiani. La sua opinione conclusiva è un po’ l’apologia stessa dell’Anticaja Canaglia: “Resto scettico sul futuro giacché, ancora convinto della necessità di recuperare e riciclare, oggi è sempre più raro rinvenire un oggetto con più di qualche minuto di vita. Per non parlare di mercati zingari in cui coltivare parole e amicizie multipolari, dedicandomi a esotiche esplorazioni”. È quella la fonte della ricchezza linguistica, che va dai calcoli algebrici ai dialetti romaneschi, con un costante e ironico sorriso dietro l’angolo: se resta la sensazione che Anticaja Canaglia nasconda “la trama del sogno profondo di un algoritmo”, è tutto dire, perché ogni voce qui dentro è di sicuro più umana degli umani.

lunedì 6 gennaio 2025

Stefano Solventi

L’esilarante scena di 48 ore di Walter Hill in cui Eddie Murphy canta Roxanne nella cella di una prigione vale quanto la sequenza da Il tempo delle mele che è la pietra angolare su cui si basa Lo sguardo di Vic. Questo è dovuto al fatto che il walkman ha ridefinito l’habitat musicale e lo scenario è cambiato perché “l’ascoltatore dotato di walkman costituiva un cambiamento in termini culturali e sociali perché rinegoziava la propria presenza nel tessuto sociale”. Persino in galera e per spiegare come è successo Stefano Solventi comincia citando Shuhei Hosokawa: “Il walkman è in grado di costruire e/o decostruire la rete del significato urbano, perché può organizzare un teatro aperto e mobile attraverso le sue manovre clandestine, che trasformano la costellazione spaziale dell’urbano. Questo accade perché l’ascoltatore diventa un possibile sconosciuto che parla una lingua pedonale incomprensibile”. Il legame con un nuovo paesaggio, insito nel nome stesso del walkman,  è precisato così anche da Iain Chambers: “L’immagine di un essere umano solo che cammina per la sua strada, dritto verso la sua meta, che ascolta solo se stesso trasmutato nelle sue canzoni preferite. Un essere umano, soprattutto, libero di scegliere chi essere e come apparire attraverso la scelta della musica che si porta con sé”. Con il walkman, si “stava scoprendo una modalità inedita di ascoltare”, senza ombra di dubbio, ma nel suo affermarsi (e non era scontato) si è via via visto che “un dispositivo progettato per integrarsi all’individuo, per lasciarlo com’era, a un livello profondo lo cambiava”. Questo è un po’ lo snodo centrale a cui si dedica Lo sguardo di Vic: un cambiamento che “avviene proprio su questa linea d’ombra, nel momento cioè in cui individualismo e collettività si compenetrano, riformulandosi a vicenda”. Dice ancora Shuhei Hosokawa, a cui ritorna spesso Stefano Solventi, che il walkman è “non esclusivo ma inclusivo, non concentrato ma distratto, non convergente ma divergente, non centripeto ma centrifugo”. Oltre a Hosokawa, Lo sguardo di Vic attinge a una vasta teoria di letture, compresi tra gli altri William Gibson, Slavoj Žižek, Félix Guattari, Luciano Floridi, Luigi Zoja, Pierre Lévy, Greil Marcus, Richard Middleton e Marco D’Eramo (“L’unica idea di libertà che ci permettono è la libertà-menu”), con le quali cerca di illustrare come “in un certo senso, il walkman non ci ha più abbandonati: ha indicato la direzione. Bene o male, lo ha fatto”. È vero, e l’analisi e il racconto procedono attraverso i film, prima tra tutti, Il tempo delle mele, poi Pretty Woman e Strange Days, non a caso tre film imperniati sulla musica (gli ultimi due a partire dal titolo), ma anche le progressioni di Alien, Matrix, Terminator e Jurassic Park. Seguendo le alterne fortune del walkman, Lo sguardo di Vic è soprattutto l’occasione per rileggere come si è modificata da allora a oggi la fruizione della musica con tutti i relativi interventi tecnologici. Dal giradischi allo smartphone, dalle cassette allo streaming, è vero che “il progresso spesso procede sui propri rottami”, ma c’è qualcosa nello sviluppo che “il segreto” dell’ascolto ha introdotto. Parafrasando Solventi, il walkman non è un dispositivo, è “un sentimento” e ogni volta che indossiamo le cuffie “stiamo compiendo una specie di sortilegio: vale a dire, rievochiamo il walkman fantasma annidato nel nostro dispositivo”.  Dal riavvolgere il nastro con la Bic a scaricare intere discografie con un clic fino ad avere a disposizione sterminate galassie musicali, sembra incredibile che sia cominciato tutto con il walkman, ma Stefano Solventi nota giustamente come “i simboli siano quasi sempre inconsapevoli e, soprattutto, postumi”. Chiarissimo, e molto utile.