lunedì 6 dicembre 2021
Liborio Conca
giovedì 18 novembre 2021
Gianni Marchetti
lunedì 15 novembre 2021
Eleonora Bagarotti
giovedì 14 ottobre 2021
Ilaria Vajngerl
lunedì 4 ottobre 2021
Manlio Sgalambro
lunedì 20 settembre 2021
Antonio Coletta
La madre alla deriva nello spazio, il padre (che è “lo sconosciuto che regalava caramelle piene di droga ai bambini all’uscita delle scuole) perso tra il calcio, la televisione e la birra come è logico che sia per la stragrande maggioranza silenziosa che vive sul pianeta e due fratelli che pensano a fuggire, ed è chiaro che sarà giusto così. Mia madre astronauta comincia con questi presupposti ed è altrettanto evidente che, dopo il primo racconto, bisogna aspettarsi di tutto: la scrittura di Antonio Coletta è elettrica, contagiosa ed è un campo minato. Gioca con i luoghi comuni, il nonsense, la boutade, il calembour, le reiterazioni come se il mondo frammentario in cui viviamo si fosse riflesso in uno specchio rotto. La lingua italiana diventa un curioso argot frutto di un frullatore che gira alla velocità del suono, macinando simboli e icone, da Elvis a Cappuccetto Rosso (uno dei suoi bersagli preferiti), da Beethoven a Hegel alla ricomparsa (sfortunata) di Ettore Majorana. Il tono passa dal cinico al naïf senza soluzione di continuità in una specie di zapping letterario scoppiettante e irriverente, dove una comicità al vetriolo spiazza e coinvolge, con una punta di amaro e lasciando sempre qualcosa in sospeso per il lettore. Succede un po’ in tutte le storie di Mia madre astronauta e, per esempio, in Io amo lei, che parte a razzo già dall’incipit: “Io non ero mai stato felice, poi un giorno mi sono iscritto ai terroristi. Mia madre non era d’accordo, diceva che quella del terrorismo era solo un’altra stupida moda e che se volevo davvero cambiare il mondo dovevo iscrivermi all’azione cattolica”. Tutto rigorosamente minuscolo perché il rapporto di Antonio Coletta con le maiuscole è piuttosto imprevedibile, un po’ come tutto il resto. E così il protagonista ammette: “Io ero sempre stato infelice, poi i capi del terrorismo mi hanno affidato una strage ma ho fatto irruzione nell’appartamento sbagliato. Toc toc”. Da lì in poi il racconto prende un’altra piega, ma dato che i colpi di scena sono all’ordine del giorno, è meglio scoprirseli da soli. Anche perché i racconti di Antonio Coletta hanno il gusto della divagazione e tendono a essere elusivi, come sogni che evaporano al mattino, ma hanno un filo tagliente che non concede un lieto fine, se non in rari casi. L’equivoco è dietro l’angolo, come succede in Prove tecniche d’integrazione tra il popolo italiano e quello bengalese e il più delle volte si nasconde in snodi linguistici fonti di incomprensioni e misunderstanding, giusto per ricordare che La mancata conoscenza della lingua inglese limita la libertà di movimento nello spazio e nel tempo, come recita il titolo di un’altra avventura a Vivacchio nell’Emilia (e se volete cercarlo sulle mappe, auguri). Nei racconti di Mia madre astronauta tutto finisce in un’equazione misteriosa, dove i personaggi scompaiono all’improvviso o riappaiono e spesso sono imprigionati in viaggi temporali che, insieme a quelli spaziali, sono un’ossessione per Antonio Coletta e si capisce anche la strana geografia tra Vivacchio nell’Emilia e alcuni punti cardinali che gravitano attorno o dentro Roma, ma restano inequivocabilmente periferici, così come quella specie di bestiario dove gli esseri umani si accomodano con animali parlanti e pensanti. In effetti, ne succedono di tutti i colori, il finale delle storie è imprevedibile, l’estro di Roberto Bolaño vigila dall’alto, ma sotto l’epidermide dell’ironia e del sarcasmo, affiora il denominatore comune dei nostri tempi che naturalmente Antonio Coletta non declina mai in modo esplicito, ma lascia filtrare in una storia surreale (ma neanche tanto) ambientata addirittura al confine tra le due Coree, dall’altra parte del pianeta. In Saluti da Pyongyang, dove finire in una fossa comune è considerato “estremo antidoto contro la solitudine” ed è un capolavoro compresso in una pagina. Incredibile, ma vero.
giovedì 9 settembre 2021
Marco Codebò, Domenico Gallo
martedì 31 agosto 2021
Alberto Magnaghi
martedì 15 giugno 2021
Daniele Follero, Luca Masperone
giovedì 6 maggio 2021
Blue Bottazzi
mercoledì 14 aprile 2021
Corrado Piazza
mercoledì 10 marzo 2021
Claudio Magris
Sapere non basta dice uno dei titoli di Itaca e oltre ed è un primo vincolo per avvicinarsi alla dimensione di questi saggi di Claudio Magris che, pur non avendo una connotazione rigorosa e assecondando lo spirito omerico espresso dal titolo, si dipanano con una coerenza che va colta di passo in passo. Il segmento ideale da cui cominciare è un passaggio critico e lucidissimo dove Claudio Magris, che si sente “un passeggero clandestino nella storia” pare indicare una direzione, anche in modo piuttosto perentorio: “La vera arte moderna è negativa, mostra ciò che l’uomo non è e non può né deve essere, se non vuole venire integrato nel meccanismo del consumo culturale. L’arte deve ricordare che la promessa di felicità è stata tradita e che l’individuo non può conciliarsi con l’inumana condizione della sua esistenza. L’arte rappresenta l’impossibilità di vita vera nella vita falsa dominante, le mutilazioni che sconciano il volto della vita, la fungibilità e l’indifferenza cui è stato ridotto l’individuo”. Tra poesia (“La poesia moderna è spesso nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui si lamenti la mancanza, o di qualche bene la cui privazione la renda dolorosa e infelice, ma nella vita in sé, come se essa stessa fosse assente”) e prosa, autobiografia e testimonianza, tra Il romanzo totale e Le celebrazioni impossibili, cogliendo Negli interstizi del tempo, o scegliendo tra Le grammatiche e la vita e La tragedia e l’incubo, l’amore e la solitudine, un’intera percezione del mondo è filtrata attraverso la griglia della letteratura. Per quanto nella sua essenza sia, tutto sommato, una raccolta di articoli, Itaca e oltre mette in luce l’applicazione pratica di Claudio Magris che si spinge a ricordare come “il singolo deve solo appropriarsi delle cose, servirsene senza permettere che nulla lo assoggetti: il suo pensiero è valido non in quanto pensiero, ossia conformazione a un modello di ragione universale, bensì in quanto suo, in quanto è qualcosa in cui egli si appropria e che egli, senza alcun dovere di fedeltà nemmeno alle sue stesse idee, può mutare o gettare via come gli pare. Ogni meta ideale, ogni fine, ogni causa superiore, ogni facoltà generale (lo spirito, la coscienza) ogni dover essere è un fantasma menzognero, perché ogni vita è perfetta così com’è”. Kafka e Flaubert, Thomas Mann e Robert Musil, Praga e Trieste, Borges e Melville, Ibsen e Jacobsen, Hegel e Marx, il tragico e il ridicolo, Vienna e Varsavia, Canetti, Cervantes, Salgari, Lukács, Jünger si susseguono senza un particolare ordine se non nella consapevolezza che “l’arte non giustifica la vita che le è stata sacrificata” e “la vita è costretta a cedere tutto allo scrivere, a cedergli soprattutto quell’indefinibile e indicibile lasciarsi vivere che costituisce l’anonimo e indifferente segreto della nostra esistenza: passeggiare per le strade e guardare l’arco di un androne, perdersi nel colore di una sera, addormentarsi”. La conclusione, inevitabilmente davanti al mare, che all’orizzonte sembra “il fondo trasparente della vita stessa, la promessa di tutto ciò che ci manca”, è, sì, a Itaca, ma soprattutto in quell’oltre. Il senso indefinito di quella destinazione, che è “nessun luogo” diventa la chiave di volta nella lettura di Claudio Magris quando spiega che “chi si trova ai margini della vita scrive qualcosa per alludere a qualche cosa d’altro, alla vita che gli balena fuggitiva e irreperibile, aggira e circuisce con parole ironiche e struggenti quell’assenza che è il suo destino e affida quelle parole a una bottiglia, perché non sa bene quale sia il pubblico per cui si scrive, quale sia il centro della sua periferia”. Da tenere a portata di mano.