È, di fatto, una storia orale di dieci anni di writing sotterraneo a Milano. Mentre la superficie veniva sconvolta nelle sue vestigia ufficiali perché, come scriveva Jonathan Raban, “la natura appariscente e teatrale della città tende in modo costante al melodramma”, una miriade di ragazzi, poco più che adolescenti, si inoltrano nelle gallerie della metropolitana per lasciare un segno “tra le linee”. La spinta nasce dall’adozione della cultura hip hop di cui i graffiti sono parte fondante e integrante e che nell’assemblaggio di voci curato da Corrado Piazza nel Buio dentro, diventa anche una concreta testimonianza linguistica. I writer si inventano un argot che combina inglese, italiano, slang e una litania di nomi di battaglia che letti in successione suonano come proprio un rap: Bang, Bread, Cano, Chentone, Cone, Craze, Cyrus, Dose, Draf, Drop, Face, Flash, Flycat, Gomma, Guen, Kayone, Kid, Lemon, Mace, Mec, Mind, Nail, Noce, Phato, Pongo, Rae, Raptus, Risk, Shad, Shot, Sky 4, Sten, Stone, Strike, Styng, Sysoner, Tawa, Type e Yndy. Si sono ribattezzati per infiltrarsi nelle viscere della città e come racconta Craze: “La strategia era questa: entravi dalle grate, controllavi che non ci fosse il treno giallo o altro, andavi in stazione e aprivi le porte per l’uscita nell’eventualità che succedesse qualcosa, così sapevi già dove fugare. Poi scendevi e facevi il cazzo che volevi”. È quel senso di libertà, ad attirarli più che i riflessi artistici ed estetici, che restano relativi. Laggiù, come dice Styng, “era perfetto perché eri quello che facevi” e la sintesi non potrebbe essere più perfetta. Una volta dentro, si muovono con circospezione, sanno che sono in pericolo, per l’alta tensione, per la sorveglianza, per i salti e gli sbalzi e soprattutto perché, come diceva il poeta Andrea Zanzotto “si è nel labirinto, per tentare di sapere da che parte si entra e si esce o si vola fuori”. Li sostiene l’adrenalina nell’esplorazione di una faccia nascosta della città, che paradossalmente si rivela nell’oscurità come spiega bene Phato: “La metropolitana quando è chiusa ti da una sensazione che anche se te la raccontano non ci credi. È una cosa che devi provare. La metropolitana è un luogo ben preciso e ognuno ce lo ha bene in mente quando la usa come mezzo pubblico. Noi però ci andavamo in un momento che è un’altra cosa: è molto più buio, senti dei suoni che di giorno sono coperti da tutti i rumori. È una sensazione alienante”. Nel Buio dentro i racconti si susseguono incessanti, sincopati, senza alcun filtro. Appaiono personaggi singolari come i signori Rovati e Sormani, si evolvono i tracciati dell’underground, cambiano le generazioni e mutano i writer, finché, come spiega Corrado Piazza, “la percezione dell’inevitabile fine di un periodo storico diventa tangibile”. La lunga coda delle “voci dal sottosuolo” è emozionante, e a tratti persino commoventi, nel sovrapporsi delle emozioni che s’insinuano nel rituale passaggio d’età e l’apologia di Flycat, uno dei principali protagonisti del Buio dentro, vale un po’ per tutti: “Vivevo i miei sogni per combattere quelli che erano i miei incubi. Non si è mai dipinto neanche una sola volta con l’intenzione di arrecare danno, sfregio, insulto, né a nessuna costruzione, treno, muro, istituzione, io (noi) volevo esprimere il mio desiderio di fare qualcosa di bello e di buono per combattere tutto il male con cui ho dovuto condividere la mia giovane esistenza”. I graffiti che non sono stati cancellati, si sono sbiaditi con il tempo, qualcosa ha resistito, qualcosa è finito nelle fotografie in bianco e nero, ma è vero come dice Rae che la città “era più una cornice che una tela”. E là, sotto, era molto di più.