Nel momento del passaggio di fine millennio, Claudio Magris a raccoglie un corposo elenco di riflessioni che si dipanano a partire da una delle più sentite e accorate apologie mai viste sulla e per la letteratura, che è intesa anche come “un’analisi del trascorrere di sentimenti e passioni, di quel processo continuo e ambivalente in cui un sentimento sfuma in un altro contiguo, sino talora a capovolgersi in un sentimento opposto, anche in questo caso, si tratta di un valico di frontiere, della scoperta della loro necessità e insieme precarietà”. Utopia e disincanto non sono in contraddizione: per Claudio Magris “la speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto” e, come conseguenza diretta, sa che “dietro le cose così come sono c’è anche una promessa, l’esigenza di come dovrebbero essere; c’è la potenzialità di un’altra realtà, che preme per venire alla luce, come la farfalla nella crisalide”. La svolta della fine del ventunesimo secolo, i pericoli della “razionalizzazione”, il senso che “nessuna apocalisse ci conforta, soli con la nostra morte e la nostra paura” sono i temi dietro un flusso costante di rimandi e di citazioni, quasi un ordito da intravedere passo dopo passo. Claudio Magris ha una straordinaria capacità di attribuire un valore specifico a ogni romanzo (Oblomov) o autore (Borges, un epitaffio che è anche un ritratto): Utopia e disincanto è una continua elaborazione delle possibilità e delle funzioni della letteratura che “predilige i tempi di crisi e di transizione, nei quali si compiace di vivere” e viene resa esplicita, di volta in volta, attraverso le letture di Ivo Andrić, Primo Levi, Thomas Mann, Ippolito Nievo, con la consapevolezza che “fin dal più grande dei libri, l’Odissea, la letteratura è un viaggio nella vita” e allora “anche l’accettazione dei limiti, che spesso offende l’esigenza di un riscatto totale della vita, può essere, talora, una prova di responsabilità, un sacrificio che evita mali peggiori”. Il percorso tra Utopia e disincanto prevede di incontrare “città che si trovano sul confine e altre che hanno i confini dentro di sé e sono costituite da essi. Sono città cui le vicende politiche tolgono parte della loro realtà, come il retroterra, il forte legame con il resto del territorio nazionale; la storia le slabbra come una ferita e fa di esse un teatro del mondo, vale a dire un teatro dell’assurdo. È in queste città che si esperimenta in modo particolarmente intenso la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi; i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi”. È da lì che le storie speranze e illusioni del moderno devono trovare una destinazione e Claudio Magris si premura di avvisare che “ogni confine ha a che fare con l’insicurezza e col bisogno di una sicurezza. La frontiera è una necessità, perché senza di essa ovvero senza distinzione non c’è identità, non c’è forma, non c’è individualità e non c’è nemmeno una reale esistenza, perché essa viene risucchiata nell’informe e nell’indistinto. La frontiera costituisce una realtà, dà contorni e lineamenti, costruisce l’individualità, personale e collettiva, esistenziale e culturale”. L’associazione con la letteratura è spontanea perché “è di per se stessa una frontiera e una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione. Ogni espressione letteraria, ogni forma è una soglia, una zona sul limitare di innumerevoli elementi, tensioni e movimenti diversi”. È la ricerca di un significato e “la peripezia in un microcosmo ha senso solo se in esso s’incontra, sotto le spoglie anche più inappariscenti, come un re nei panni di un mendicante, qualcosa di grande, che non appartiene solo a quell’orizzonte limitato”. Ogni pagina di Utopia e disincanto ci ricorda che “cultura significa sempre pensare e sentire in grande, avere il senso dell’unità al di sopra delle differenze, rendersi conto che l’amore per il paesaggio che si vede dalla propria finestra è vivo solo se si apre al confronto col mondo, se si inserisce spontaneamente in una realtà più grande, come l’onda nel mare e l’albero nel bosco”. Da leggere e rileggere spesso, senza aspettare la fine di un altro secolo.