lunedì 30 dicembre 2024

Claudio Magris

Croce del Sud è un’odissea letteraria che Claudio Magris intraprende da archivi ed epistolari: con una raffinata opera di tessitura riesce a collegare le esistenze (vite, morti e miracoli) di tre distinte figure dentro un territorio che va da Buenos Aires agli estremi dell’Antartide e lungo secoli e secoli. I tre, visti i presupposti, non si sarebbero mai incontrati, né visti, e nemmeno sfiorati. Si tratta di personalità diverse e divergenti che convergono in un territorio sterminato e in gran parte inesplorato, che ha significato molto nell’evoluzione, non sempre felice, del genere umano. Claudio Magris sfodera tutta la sua eloquenza per incrociarne i destini e pennella le loro biografie scomponendo le fonti e rimodellandole in un’elegante ibrido tra saggio e finzione. Un’operazione non priva di rischi a cui però Magris riesce a dare una coerenza con passione e garbo: ne nasce un racconto avvincente e avventuroso, che sa stare tra il comico e il drammatico, coltivando un florilegio speciale di riferimenti storici, scientifici, geografici e letterari. Si parte con Janez Benigar, antropologo, autodidatta e viaggiatore da Trieste e la sua vicenda “è quella di un uomo che inizia studiando da scienziato, sia pure sostanzialmente dilettante, un mondo, una civiltà lontana, agli antipodi geografici e storici della civiltà in cui egli è nato e che finisce per entrare in quella civiltà, per farla almeno in parte sua, uno specchio del suo volto”. Tra Patagonia e Araucania, Janez Benigar è mosso da una moltitudine di motivazioni in cerca di quel “luogo in cui ci si sente a casa nella vita e i cui colori, paesaggi, venti sono la familiare musica dell’esistenza”. A quel punto, le mappe sono inutili e Magris avverte che “l’identità ama presentarsi compatta e unica ma si sgretola in una moltitudine, in un’anarchia di atomi, come avevano già detto Nietzche, Bourget e Musil prima ancora che Benigar partisse da Trieste con l’Oceania”. Un personaggio ammirevole che con le sue gesta conferma una verità insindacabile, ovvero che “la vera domanda non è quella da dove si viene ma quella dove si va”. Ancora più eccentrica la figura di Orélie-Antoine de Tounens, che per Magris “è un eroe ottocentesco da melodramma, teatrale e caricaturale, incline al pathos e ai grandi gesti, sul confine tra il dramma e l’operetta”. Tra rivolte e guerriglie, rovesci e prigioni, saghe e leggende, il pittoresco avventuriero Orélie-Antoine de Tounens insegue anche il miraggio di Los Césares, un mitico Eldorado della Patagonia, ed è quello il momento più critico di Croce del Sud, ovvero “quando le si fanno tintinnare le parole suonano come oro falso”. L’accorgimento di Claudio Magris è benevolo e il giudizio su Orélie-Antoine de Tounens è una breve apologia dell’eccentricità e della bizzarria: “La sua follia merita l’onore delle armi; è certo ridicola, come ogni follia, Don Chisciotte è anche un capolavoro di umorismo, ma la sua sfida trafigge, come in un duello, l’ottusa e crudele corazza della cosiddetta realtà e incide su quest’ultima”. Tra i protagonisti di Croce del Sud, la più concreta rimane Suor Angela Vallese che si prodiga in mille modi nella difesa degli indigeni e che Magris ritrae notando “nella sua persona e nella sua storia, un’altra chiarità, una continuità di luci monocromatiche che velano più di una spessa tenda quello che c’è dietro quel volto, dietro quel sorriso e quella generosa energia”. Sono queste le distinzioni che rendono così vivide le caratterizzazioni di Croce del Sud, e quella di Suor Angela in particolare, perché come nota Magris, nel suo afflato altruista non c’è “nessuna ingenuità, nessun candore inesperto; ha visto e vede troppo sangue e troppo orrore per farsi illusioni sulla bontà dell’uomo e del creato”. Tra l’altro il suo capitolo nasconde in realtà un sentito omaggio a Daniele Del Giudice e a Orizzonte mobile, perché in fondo Croce del Sud è un affascinante bricolage che sarebbe piaciuto a Borges, ospite citato spesso e a proposito, con un andamento giocoso, anche all’interno di veri e propri movimenti tellurici, visto che “la storia del mondo non è molto più complessa di quella di un cuore, non importa molto se semplice o tormentato”, e questa, nella sua semplicità, è solo gran classe.

venerdì 27 dicembre 2024

Paolo Scardanelli

All’inizio è tutta un’altra Milano: con la nebbia, i cantieri e le periferie riportano alle atmosfere dei film di Fernando Di Leo. È ombrosa, frammentaria con figure che si muovono ai margini lungo i contorni di un’ambiguità di fondo. La violenza è una notizia. Gli anni passano in fretta e “la città dalla doppia identità” nel 1982 si avvia a una stagione scintillante ed effimera, poi celebrata da un film come Sotto il vestito niente, la cui trama ha più di un passaggio in comune con Belletti e il Lupo. Lo scenario cambia: interi quartieri vengono rimodellati, il passato viene cancellato, il nuovo che avanza si nutre di un sottobosco di faccendieri, collusioni, avidità e misfatti assortiti. In questo torbido milieu dove l’omicidio è un’opportunità o un hobby, le digressioni filosofiche di Belletti alias Scardanelli si alternano nelle trattorie con la cassœula, le cotolette e mezzo litro di barbera. È  sconfitto, ma non battuto: la sua vocazione, l’intuito e la comprensione della desolazione del genere umano sono di gran lunga più efficaci e veloci dell’apparato burocratico che amministra la giustizia con tutte le sue liturgie metropolitane. Belletti è uno sbirro di strada che conosce il peso delle informazioni, delle conoscenze e del controllo del territorio. Sa che sono state versate“troppe lacrime su questa città”, così come “ci sono momenti nei quali farsi domande può essere pericoloso”, ma è istintivo e come tale soggetto a improvvise deviazioni e a cambi di rotta, non sempre adeguati. Nei due casi di cui si deve occupare, gli assassini e i complici non sono un mistero, e nemmeno i moventi. Uno si risolve con una confessione più o meno spontanea, l’altro si trascina fino al tribunale, con il supporto prezzolato della stampa e degli avvocati. Non c’è whodunit o particolare suspense: appare chiaro e lampante, troppo e troppo presto, chi sono i colpevoli, ma la verità viene rimessa alle valutazioni della dialettica e della giurisprudenza e nell’occasione le doti spontanee e naturali di Belletti risaltano per contrasto, ma non possono molto di più. È  solo e ha per alleate giusto la commissaria Regazzoni e la giornalista Giacosa in una lotta impari, dato che “in fondo siamo dei sopravvissuti; ai nostri destini, ai nostri doveri”. Qui l’aspetto poliziesco è un sfondo o un canovaccio su cui si dipana in lungo e in largo l’infinito dilemma della dualità: centro e periferia, vittime e carnefici, ricchi e poveri, caldo e freddo, uomini e donne, giustizia e verità, famiglia e solitudine e, più di tutto, realtà e immaginazione. Proprio lì scorre il flusso filosofico di Paolo Scardanelli, che è tranchant nel definire i protagonisti e i relativi destini, a partire proprio da quello del Belletti, destinato a un finale malinconico, ma tutto sommato molto concreto visto che “come noi tutti, deve venire a patti col reale; e con la verità, che non è sempre quella che appare”. Possiamo scommetterci che ci sarà un seguito: Belletti ha risorse e pensieri da condividere, e l’annuncio di una destinazione molto interessante, soprattutto perché “nessun potere può distoglierci da noi stessi”. Resta da ricordare la citazione di Johnny Cash infilata lì così (volutamente fuori sincrono) per ricordare come, diceva “the man in black”, che siamo sempre dalla parte delle vittime, proprio come il commissario capo Belletti.